Making avant-garde films is a completely thankless task
J. Hoberman
Arrivato a New York a fine anni ’50 e inseritosi in quel Village allora culla dell’avanguardia sotterranea più sovversiva, tra la Factory warholiana e la Playhouse of the ridiculous di Joe Vaccaro, tra la Film-Makers’ Cooperative di Jonas Mekas e il Living Theatre di Judith Malina, Jack Smith è stato, come suggerisce Neville Wakefield – curatrice della retrospettiva che la Gladstone Gallery gli ha recentemente dedicato – «più di ogni altro artista del secolo scorso colui che ha capito come, nella nostra prevalente cultura del successo, il più importante ruolo dell’arte sia forse stato quello di proporre un repertorio di ciò che serve per un fallimento pubblico».
“A self made creature of fantasy”, capace di reinventare una sua via di cinema, teatro, performance e installazione, facendo malinconico ricorso ad una rabbia contro la società e contro quella stessa America trasfigurata in opere di ri-composizione di corpi e ambienti, di ardente ri-colorazione del presente.
Flaming Creatures, il suo film girato nell’estate del 1962 nella soffitta claustrofobica del Windsor Theater a New York, tra ore e ore di trucco e prove costumi queer, tra circolazione inesausta d’alcool e di droga, riottosità e clownerie, con pellicola rubata o scaduta, è la visione febbrile d’un eden lisergico, d’una magnificenza di folgorante decadenza.
Parodia estrema del divismo hollywoodiano, mai abbastanza nostalgico e decadente (uno degli attori-corpi era Mario Montez, un transgender del futuro Mario Banana di Warhol, omaggiato del nome della diva del dopoguerra Maria Montez), un immaginario messo letteralmente a soqquadro, squilibrato, recalcitrante, colto in una pratica selvaggia e dimentica dei freni e delle convenzioni narrative.
Tra fotogrammi saturi di corpi fluttuanti, avviluppati e sovraesposti, catturati come incontrollabili eteree creature di luce, la mdp si muove da terremotata, violentata nella percezione,coinvolta nella caotica lussuria ormonale che contraddistingueva quella soffitta in cui si effettuavano le riprese, tra cosce pallide e diafane e stomaci ammuffiti (il titolo inizialmente pensato era Pasty Thighs and Moldy Midriffs).
Degenerato e deragliante, oltre le soffocanti linee spazio temporali, smontato nella sua causalità anche grazie ad una colonna sonora che passa da China Night a Bela Bartok, dal bolero cubano a Be-Bop a Lula. Senza filtri e disturbante, Flaming Creatures fu accusato di pornografia e bandito dalle sale. Censurato dalla corte suprema, suscitò reazioni di protesta nelle università, ma a tutt’oggi non è mai stato pienamente riabilitato.
Dopo il suo primo eclatante film Smith rifiutò di attribuire ai suoi lavori successivi l’etichetta di prodotto finito, ostinata rovinosa coerenza d’un artista fuori dalle logiche omologanti e commerciali.
Lavorando spesso per accumulazione di elementi, girò altri due lungometraggi, il coloratissimo Normal Love del ’63-’64 e No president (’67-’70), avviò una serie di lavori non finiti poi parzialmente utilizzati per le sue performance live, fu attore per Ken Jacobs e Robert Wilson, e iniziò a proporre delle performance-happening a ingresso gratuito nel suo loft di Soho, dove a notte fonda sceglieva se far iniziare lo spettacolo e semplicemente industriarsi nella preparazione di qualcosa che non ci sarebbe mai stato.
Tra fascinazione esotica e abbandono, lo sguardo di Smith era più vicino alla documentazione del reale che all’opera di fiction. Gli attori che filmava – esistenze che declinano rapide, debilitate, molli, lascive – erano lì come nella loro eccedente quotidianità, figure/presenze colte nell’atto di vivere piuttosto che di recitare. E anche il suo prosieguo di carriera come attore e agitatore fu più un ossessivo re-citarsi addosso piuttosto che cadere nella rete del ruolo da indossare per commissione.
Punto di riferimento per Andy Warhol e John Waters, icona di una performing art virata sul kitsch esagerato e barocco, citato anche da Fellini come uno degli artisti che hanno influenzato il suo immaginario estetico e sessuale (si vedano soprattutto Giulietta degli spiriti e il suo Satyricon) e fonte nascosta di molto altro cinema-teatro sperimentale, Jack Smith morì di Aids povero e dimenticato nel 1989, come tanti altri artisti che in quegli anni sono stati sopraffatti dalla trionfante società dei consumi, privi del loro habitat vitale, quel campo di battaglia e ribalta animata che lo stesso Smith definiva <<a place where it is possible to clown, to pose, to act out fantasies, to not be seen while one gives (movie sets are sheltered, exclusive places where nobody who doesn’t belong can go)>>.
Nel 2006 Mary Jordan ne ha tracciato le coordinate biografiche nel documentario Jack Smith and the destruction of Atlantis, coinvolgendo gran parte delle figure artistiche orbitanti intorno all’artista americano, ripercorrendo le tappe di una carriera in cui, <<tra false partenze ed eclatanti ritardi, tutto, dagli attori alle luci, dalle droghe ai desideri, era in lui infallibilmente, esemplarmente sbagliato. Sbagliato prima che performance o le riprese avessero inizio>>.
A Jack Smith, la Gladstone gallery di New Jork, la galleria che ne ha acquistato l’opera, ha appena dedicato una mostra (“Thanks for Explaining Me”, Curata da Neville Wakefield, 6 maggio-16 giugno 2011) e l’ICA (Institut of Contemporary arts) di Londra gli dedicherà a partire da settembre una retrospettiva integrale, affiancata ad incontri e convegni su colui che è stato un baluardo d’un fare cinema a contatto con l’esistenza.
Salvatore Insana