In Treatment è una serie composta da dieci episodi e prodotta da HBO, disponibile sulla piattaforma di Sky.
Nel 2005 Hagai Levi crea Be Tipul, serie israeliana che ruota attorno alla vita professionale e privata di uno psicologo israeliano, Reuven Dagan, interpretato da Assi Dayan.
Il protagonista ha delle sedute con i suoi pazienti cinque giorni a settimana, al termine della quale lui stesso si sottopone ad una terapia con il proprio psicoterapeuta.
La struttura particolare (ogni episodio corrisponde ad una seduta), l’argomento, il tono della serie le hanno fatto vincere diversi premi, oltre che portato a diversi adattamenti in diversi paesi, tra cui l’Italia (tre stagioni con la regia di Saverio Costanzo), e gli Stati Uniti, con quell’ In Treatment che è un po’ diventata il centro produttivo e propulsore, con protagonista Gabriel Byrne.
Le tre stagioni contano 120 episodi, con un successo crescente soprattutto di critica.
L’opera seriale è stata assimilata dagli stessi autori al teatro, con un set pressocchè unico e con le dinamiche che ruotano essenzialmente intorno al dialogo tra i due, massimo tre personaggi in scena.
È la parola che assume quindi un’importanza fondamentale all’interno di In Treatment, mentre il suo potere descrittivo viene sfruttato in modo incisivo e intenso , materializzando le paure, i ricordi e le esperienze dei personaggi.
Le tre serie sembravano concluse, con un finale di stagione perfetto (dopo una crisi sul suo ruolo e sul suo peso nei destini dei suoi pazienti, il protagonista esce dallo studio, per la prima volta dopo 120 episodi, e cammina per strada): ma nel 2020 è stato annunciato una specie di reboot, o meglio una prosecuzione.
Cambia il personaggio centrale, non c’è più il Weston di Byrne sostituito dalla dott.ssa Brooke Taylor, che ha il volto luminoso della bellissima Uzo Aduba (che aveva già dato splendida prova di sé nelle sette stagioni dello storico e imprescindibile Orange Is The New Black).
Si torna allora sul lettino dello psicanalista, ma tutto sembra cambiato mentre niente è cambiato.
Dopo dieci anni, la società è cambiata in maniera quasi copernicana.
I pazienti di In Treatment erano, uno per uno, afflitti dal male d’essere che fuoriusciva dalla quotidianità più pervasiva e malata dell’attualità.
Rimangono allora i riflessi oscuri della realtà: e oggi la dott.ssa Taylor deve affrontare i fantasmi mai così presenti del razzismo, dell’identità di genere, della disparità sociale, fino agli strascichi patologici della pandemia globale.
Ma come si dice: cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia.
Ogni puntata è una seduta con un paziente: la struttura rimane quella drammaturgica quasi teatrale, con un confronto molto spesso serrato tra terapeuta e paziente, a volte anche commovente, scavando a fondo tra nevrosi, insicurezze, tormenti. Il tutto con una scrittura brillante, precisa, lucida e consapevole, sempre accurata e profonda.
Al contrario di Paul Weston, Brooke Taylor è un medico che non riesce ad essere perfettamente impermeabile alle sue tempeste emotive scatenate dal confronto con gli altri personaggi.
Come Paul era distaccato e impenetrabile -forse troppo, e questo lo ha portato poi ai problemi risolti solo al termine della terza stagione-, Brooke nasconde un passato doloroso e non sa sempre alla perfezione rimanere una monade silenziosa.
Molto avviene on line, rispettando lo schema relazionale proprio del mondo in era Covid (anche se la pandemia resta sempre sullo sfondo e non sommerge in maniera invasiva le storie): ma rimane il fatto che In Treatment vince e convince con la sua essenza migliore, cioè quel mettere solo apparentemente la dottoressa Taylor in primo piano, riservando il nucleo emotivo alle storie dei pazienti.
Bene si è fatto a lasciare inoltre inalterato il timing dei singoli episodi: solo mezz’ora (al posto dell’ora canonica di psicoterapia) ma ad altissima intensità, terminando sempre un passo prima dell’acme emozionale per lasciare allo spettatore quel tanto che basta della voglia per voler continuare la visione, avvolti da una scrittura perfetta.
Un viaggio interessante nelle vischiose dinamiche psicologiche di ognuno di noi: anche se, alla fine come tradizione vuole, resta da dire “dottore, cura te stesso”.