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Conversation

‘Beckett’. Conversazione con Walter Fasano

Beckett visto da Walter Fasano, responsabile del montaggio del film di Ferdinando Cito Filomarino

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Diretto da Ferdinando Cito Filomarino, Beckett racconta la condizione dell’uomo contemporaneo attraverso le forme del cinema di genere e all’insegna d un cosmopolitismo un tempo appartenuto a Bernardo Bertolucci e Michelangelo Antonioni. Responsabile del montaggio, abbiamo chiesto a Walter Fasano di parlarci del film dal suo punto di vista.

Beckett, è disponibile su Netflix 

Beckett Walter Fasano

Conversazione su Beckett con Walter Fasano

Per il montaggio di Beckett Walter Fasano aveva la possibilità di rifarsi a diverse linee guida o se vogliamo a molteplici principi ispiratori, non necessariamente legati alla centralità del protagonista. Penso ai codici di genere, alla relazioni fattuali ma anche ai significati espressi dal film. A mio avviso, nella prima parte, il tuo lavoro procede dall’interno, secondo una traccia emotiva che riguarda il personaggio principale e il precipitare della sua esistenza.

Già in fase di sceneggiatura i modi del racconto, soprattutto nella parte iniziale del film, cercano di farti calare nei panni del protagonista. L’obiettivo era quello di far vivere allo spettatore le sensazioni percepite da Beckett, interpretato da John David Washington, in un’ottica quasi naturalistica, quindi al di fuori di alcune coordinate del genere thriller d’azione. La macchina da presa sembra osservare con distacco fenomenologico ciò che accade al protagonista, e questo di ritorno ci restituisce una sensazione di spaesamento e brutalità oggettiva della situazione, che all’inizio del film non è per nulla “bigger than life”.

Considerando, infatti, la natura delle immagini e le caratteristiche della fotografia di Sayombhu Mukdeeprom, Beckett dichiara da subito la sua anomalia rispetto agli standard dei film di genere. Le sue inquadrature infatti tendono a una rappresentazione complessiva e omogenea dell’ambiente: a differenza degli action movie e dei thriller di oggi, la cui tendenza è quella di interrompere la continuità dello spazio visivo a favore di una maggiore scansione temporale.

Il talento di Sayombhu è inarrivabile, le sue immagini sono cariche di un senso profondo: la luce, la grana, sono elementi di racconto e di emozione. Con Ferdinando desideravamo muoverci nelle coordinate del genere provando a darne una nostra versione. Si tratta di un gioco che in questo momento fanno in tanti: nel caso di Ferdinando l’oggettività dello sguardo – naturalistico, descrittivo – prende le distanze dalle coordinate di un certo tipo di thriller generando atmosfere più lente, più dense, meno didascaliche. Il racconto è meno pilotato e apparentemente senza una logica forte. Si è avvolti da un senso di paranoia come in certi noir degli Anni Settanta. C’è più spazio per l’analisi e la riflessione su quello che sta succedendo.

Beckett Walter Fasano

Analogie con altri titoli

Agganciandomi alla tua risposta mi viene da dire che Beckett echeggia un certo tipo di cinema americano degli anni ’70 e dunque classici della nuova Hollywood come lo sono i noir di Alan J Pakula e di altri registi di quegli anni. Un’analogia che riguarda non tanto la forma, quanto le atmosfere e, appunto, la scelta di lasciare ampio spazio all’analisi dell’esistenza e della condizione umana, pur all’interno delle coordinate di genere. In un ambito così specifico, come il tuo, esiste la possibilità di ispirarsi a taluni film e per esempio a quello di cui ti accennavo?

Assolutamente sì. Paradossalmente nel cinema di quei tempi, e, per esempio, in quello di Sidney Pollack, la paranoia era motivata da eventi storici e sociali che avevano sconquassato l’America, costringendo le persone a prendere coscienza della situazione. L’inquietudine espressa da un film come Beckett è più sottile e, se vuoi, più angosciante proprio perché inspiegabile. Come se i nostri tempi fossero oscuri e, pandemia a parte, non sapessimo neanche bene perché. L’intrigo politico tende a scoraggiare qualsiasi fiducia nei confronti della classe istituzionale ma ormai buoni e cattivi sono confusi in un magma indistricabile. In alcuni casi, comunque, il riferimento a quel tipo di cinema è in Beckett particolarmente esplicito.

La scena in cui i personaggi di Boyd Holbrook e John David dialogano all’interno di un ufficio remoto dell’ambasciata americana credo ricordi molto per fotografia, montaggio e atmosfere un film di Pakula o Pollack: regista che amo molto ed il cui cinema ho sottopelle. Ero un ragazzino quando vedevo in sala I Tre Giorni del Condor, Il Cavaliere elettrico ed ovviamente Tootsie.

A proposito   di Pollack e del suo rapporto con i generi penso anche a Jeremiah Jonson (Corvo rosso non avrai il mio scalpo, ndr), precursore di tematiche ambientaliste ora molto in voga.

Certo, senza dimenticare Diritto di cronaca che è del 1982 ed è interpretato da Paul Newman. Sempre in riferimento a Pollack, Tynan, il personaggio interpretato da Boyd, ricorda molto un wasp alla Robert Redford, distorto dalla lente dei tempi.

Complottista e cospirativo Beckett e il suo interprete mi hanno fatto pensare a un film seminale come Vai e uccidi di John Frankenheimer e ancor più a The Manchurian Candidate di Jonathan Demme. A unirli il filo rosso rappresentato dalla tematica delle loro storie ma anche il fatto che a interpretare il lungometraggio di Demme è Denzel Washington, padre di John David.

Denzel e sua moglie Pauletta, genitori di John David, sono venuti a visitare il set e puoi immaginare l’emozione di tutti: emozione che subito si è contenuta in quanto eravamo in un piccolo paese greco di montagna e la cena del sabato sera veniva servita nella palestra di una scuola locale adibita a mensa. E a tutti è sembrata una cosa molto naturale. Chiaramente il film di Frankenheimer ed il remake demmiano sono due punti di riflessione importanti. Il primo, nella sua ineluttabile spietatezza, il secondo nella sua ricerca di ricodifica del genere (non è stato l’unico remake diretto da Demme).

Beckett Walter Fasano

L’analisi tecnica di Beckett per Walter Fasano

Lo stile di Beckett, anche nel montaggio, cambia forma man mano che il film si sviluppa. Nella prima parte, laddove la situazione precipita in maniera piuttosto assurda (legittimando il riferimento a drammaturgo e scrittore Samuel Beckett), il passaggio da una scena all’altra è dato da stacchi secchi e improvvisi. Penso alla sequenza iniziale e alla successiva, in cui si passa dai primi piani di John David e Alicia Wikander al campo lungo che li mostra all’interno del sito archeologico. Oppure a quella in cui dal luogo dell’incidente con l’autovettura ci ritroviamo all’interno dell’ospedale in cui Beckett è ricoverato. Il montaggio è capace di rendere non solo l’incedere incalzante della realtà ma anche la sua indecifrabilità: testimoniando quest’ultima attraverso l’omissione di una parte di essa tanto ai protagonisti quanto allo spettatore.

È proprio così. Con Ferdinando e Luca (Guadagnino, ndr) siamo compagni d’avventura da tempo e la programmaticità condivisa è piuttosto chiara. Alcune delle ellissi di cui parli erano già in scrittura, altre sono state decise al montaggio: tutto questo cercando di accedere ad una  forma che volevamo pulita e sintetica, capace di accogliere senza paura ellissi e passaggi di un certo tipo. I salti temporali di cui parli ci sono: le scene però cercano sempre di avere un loro respiro.

Una delle mie preferite è quella del primo dialogo tra Beckett e il capo della polizia locale che lo interroga. Mi piace perché è costruita con dei tempi piuttosto dilatati che lasciano ai personaggi la possibilità di esprimere i loro pensieri, mettendo lo spettatore nella posizione di farsi una sua idea dell’enigma che sta cercando di decifrare. Peraltro si tratta di un mistero talmente complesso da superare l’importanza che di solito ha nel noir e nel thriller. Il tema diventerà scoprire il modo di salvarsi e di come reagire al pericolo, magari uscendo dalla propria inappropriatezza individuale diventando parte di un afflato collettivo.

Hai parlato di sequenze ad ampio respiro che danno modo allo spettatore di vivere dall’interno l’esperienza del protagonista. Aggiungo un’altra caratteristica, e cioè la tensione che scaturisce dal contrasto tra la rigorosa compostezza del quadro e la frenesia dei corpi che si muovono al suo interno.

Sì, certo, questa è la descrizione di un lavoro di regia. Per quanto riguarda il montaggio a me piace tagliare il meno possibile. Nel senso che in ogni taglio dovrebbe verificarsi una magia, sprigionarsi una forza, non semplicemente passare da un’inquadratura a un’altra. Per questo quando hai l’opportunità di lavorare su inquadrature lunghe bisogna saper dosare al meglio l’alternanza tra rapidità e lentezza dei singoli passaggi. Non è un equilibrio che trovi immediatamente, si tratta di una sfida non facilissima e sempre “divertente”.

La narrazione

La struttura narrativa che avevi di fronte aveva due matrici principali: quella relativa all’uomo qualunque coinvolto in una situazione più grande di lui. L’altra, invece, faceva riferimento a uno schema tipico della narrazione letteraria americana, in cui i personaggi in trasferta nel vecchio continente si ritrovano ad affrontare un’ambiente ostile e addirittura violento. Penso ai romanzi di Henry James e, in particolare a Ritratto di Signora ma anche a tante storie in cui questo tema è ricorrente. Ti volevo chiedere se è un tipo di visione che condividi?

Certo, Beckett in seguito ad un evento drammatico di cui si ritiene responsabile incappa per caso in qualcosa di più grande di lui. Nella sventura però succede che Beckett diventi più consapevole, passando dall’essere un anonimo ragazzo americano senza particolari virtù a un uomo che lotta per la sua vita e, addirittura, per la giustizia di un mondo a lui inizialmente estraneo, accettando di fare i conti con i propri fantasmi. Trovo interessante che il personaggio di Beckett, come altri presenti nel film, sia essenzialmente una persona mediocre. Il contrario avrebbe facilitato la storia perché un personaggio empatico si presta a conquistare il pubblico. Beckett, invece, ci si mostra in tutta la sua normalità.

A proposito di questo, ragionavo sul fatto che Beckett mette in pericolo tutte le persone che entrano in contatto con lui e che di lui si fidano. Penso ad April ma anche alle due attiviste che lo aiutano a scappare e che Beckett, non volendo, rischia di mettere in pericolo. Insomma il protagonista non è l’eroe dei film classici.

Anzi ne combina involontariamente di tutti i colori, però alla fine il suo intervento è risolutivo. È lui a salvare il piccolo Dimos da morte certa, ed è sempre lui a mettere il bastone tra le ruote ad un grande intrigo fatto di corruzione e strategie oblique, mentre in lontananza la piazza dei protestanti ritrova simbolicamente la sua energia.

Le tematiche di Beckett

La corruzione sociale, il fallimento della politica, la piazza annichilita e l’uomo mediocre che la risveglia: Beckett finisce per essere un’opera di denuncia tanto più forte, quanto pulita, diretta e senza artificialità è la sua messinscena. Peraltro il fatto che non vi sia catarsi finale lo rende un pugno allo stomaco ancora più forte per lo spettatore.

In questo senso Beckett può risultare un film spiazzante. Esistono film perfetti, altri che cercano di fare delle cose e non si sa se ci riescono. Ne esistono altri ancora che non cercano di fare niente se non di intrattenerti per un po’. Certamente un lungometraggio come Beckett rappresenta potenzialmente una sfida per un pubblico che cerca un certo tipo di “ricorrenze” di racconto, ed è anche vero che quando si osa non è sempre detto che gli obiettivi siano perseguiti con lucidità: ma almeno si è provato a non ipnotizzarti e a renderti parte di un gioco nuovo.

Aggiungo che il medesimo tipo di ricerca è stato fatto per l’utilizzo del suono e della musica. Abbandonando il tipo di sottolineatura che la colonna sonora thriller può darti, si è lavorato su una scelta più radicale, forse più astratta e di sicuro non calligrafica, lavorando con un maestro assoluto come Ryūichi Sakamoto. E questa, come puoi immaginare, è stata un’esperienza straordinaria. Anche per il suono: ogni singolo evento sonoro è semplice, pulito, sostanzialmente molto preciso.

Musica e non solo

Come accennavi, la colonna sonora di Sakamoto raggiunge dei livelli di astrazione in cui la corrispondenza tra suono e immagine non è così diretta e in generale non è quella che ci si attenderebbe in un thriller e in un noir.

Spesso musica e racconto/immagini non vanno insieme, questo aumenta lo spaesamento o prepara il terreno per un attacco sensoriale nei momenti più violenti e dissonanti. Altri passaggi sono, invece, più meditativi. Penso alla sequenza in cui Beckett lascia il paesino in cui è stato ricoverato per tornare a piedi nel luogo in cui si è consumato l’incidente d’auto, trovo quel momento magico e sospeso. Mi piacciono i film poco parlati dove hai facoltà di perderti nel tempo, nel suono, nella luce, nella musica.

Da questa conversazione si ha la conferma di quanto intuito durante la visione del film e cioè che Beckett è il frutto di un rigoroso controllo formale e di un’estrema libertà di pensiero. Opposti, solo in apparenza, l’incontro di questi due movimenti diventano un potente propulsore della poetica del film.

Abbiamo cercato di avere un’attenzione profonda alla durata delle singole inquadrature, al loro tempo e ritmo, al loro rapporto e per l’appunto al suono. Ci siamo mossi in un territorio complesso, inesplorato ed anche molto stimolante: cercando di mantenere, in questo nostro viaggio, la luce guida del rispetto dello spettatore e della sua intelligenza, accompagnandolo ad un nostro tentativo di andare in profondità.

Qui per il trailer

E qui per la recensione di Beckett

  • Anno: 2021
  • Durata: 108
  • Distribuzione: Netflix
  • Genere: azione, drammatico, thriller
  • Nazionalita: USA,. Grecia, Brasile, Italia
  • Regia: Ferdinando Cito Filomarino
  • Data di uscita: 13-August-2021

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