Equiparare Nicole Kidman ad un diamante è un confronto che metterebbe tutti d’accordo. Come non pensare alla cristallina lucentezza dei suoi occhi, alla luminosità abbagliante del suo incarnato pallido piuttosto che alla setosa filigrana dei suoi capelli. L’accostamento con il diamante però rende soprattutto merito alla profonda variabilità della evoluzione artistica di questa attrice che ha sempre amato confrontarsi con personaggi diversissimi e complessi dando vita ad un percorso creativo multisfaccettato e impossibile da rinchiudere in una semplicistica definizione.
Se è vero che soli lontani splendono in galassie sconosciute, ci piace andare a rintracciare quei film dove la purezza adamantina di questa attrice si congiunge senza attrito con personaggi cupi e tormentati.
In “The others” (2001) di Alejandro Amenabar interpreta Grace una madre angosciata e angosciante che vive in una grande casa vittoriana nella nebbiosa campagna inglese insieme ai suoi due bambini, i quali secondo lei soffrono di una misteriosa malattia che li rende intolleranti alla luce naturale. Per questo motivo la casa è continuamente sospesa in una notte artificiale realizzata tenendo porte e tende chiuse nelle stanze in cui vivono i bambini. Grace che è l’austera guardiana di questa prigione di ombre ama continuamente ripetere alla servitù che “nessuna porta deve essere aperta prima che la precedente sia stata chiusa” per evitare che anche il minimo bagliore possa raggiungere i bambini.
In realtà lei e i suoi figli sono fantasmi di persone morte anni prima e ignare della propria condizione. Il celebre colpo di scena finale permetterà a Grace di scoprire che fu lei ad uccidere prima i suoi figli soffocandoli e poi se stessa con un fucile, schiacciata com’era dal dolore per la morte del marito in guerra e dalla conseguente solitudine. Dopo questa verità il suo atteggiamento nei confronti dei bambini diventa più affettuoso ed arriva a comprendere anche che la luce in realtà non è per loro nociva come credeva.
Qui la Kidman si confronta con un personaggio sempre pronto al crollo, che si rifugia in una serie di rituali ossessivi ogni volta più rigidi e direttamente proporzionali all’angoscia senza nome che si porta dentro. “Sapere” di aver provocato la morte dei figli la riempie di una tensione straripante che lei cerca di lenire cambiando di segno questi impulsi distruttivi e trasformandoli in una cura ossessionante per la salute fisica. In questo meccanismo di allontanamento del dolore, il pericolo di fare del male viene proiettato all’esterno attribuendo al sole e alla sua luce proprietà mortifere. Questi movimenti consentono a Grace di continuare a considerarsi una madre premurosa e attenta che difende i propri bambini da un pericolo esterno. Quando scopre di essere stata lei l’unica fonte di sofferenza per i figli si sente liberata dalla coazione a soccorrere e li lascia liberi di realizzare un contatto autonomo con il modo esterno simboleggiato dalla luce.
Se questo è un film che descrive un personaggio che esce dall’ombra, Fur (2006) la biografia immaginaria della fotografa Diane Arbus, descrive invece un processo contrario. Diane benestante figlia di un magnate delle pellicce nella New York degli anni ’50 assiste il marito fotografo anch’esso collaboratore del padre. La sua vita normalissima divisa tra l’essere la tuttofare del marito e l’intrattenitrice nelle sfilate di famiglia, nasconde però una galassia di desideri inespressi e di curiosità assopite sin da bambina quando la sua sensibilità per il diverso stava prendendo una forma inaccetabile per i suoi genitori. Un giorno però tutte le anomalie e le disarmonie che aveva dimenticato di apprezzare così tanto, si incarnano in Lionel, un nuovo inquilino del piano di sopra che indossa sempre strane maschere che gli coprono il volto perché soffre di una strana malattia che gli provoca una crescita incontrollata della peluria su tutta la superficie corporea. Questa maschera insondabile che nasconde degli occhi sofferenti ma vivaci rappresenta un richiamo ad un mondo dimenticato che questa volta Diane non vuole ignorare. L’attrazione che sente per tutto ciò che sfida la normalità e la voglia di fotografarlo sono pressoché simultanee e subito comprende che la fotografia per lei non è un furto distaccato di una immagine, ma il prodotto finale di un viaggio interiore che la portava a lasciarsi coinvolgere profondamente con la realtà che voleva immortalare. Lionel sarà quindi per lei l’araldo di un mondo infero fatto di creature deformi, giganti, nani, gemelle siamesi, cadaveri congelati nella loro pallida espressione, travestiti e uomini lupo come lui, relegati ai margini, in un non mondo che per Diane diviene magnetico e irresistibile. La Kidman è perfetta nel rendere tutte le incertezze della metamorfosi, nel trasmettere nello stesso sguardo il desiderio per lo sconosciuto e la paura di allontanarsi così tanto da non poter più tornare indietro.
Scegliere la fotografia ha significato per Diane invadere proprio quel campo dove il marito e la famiglia la avevano condannata ad essere seconda, al massimo assistente di chi era riconosciuto l’unico in diritto ad avere uno sguardo personale sulle cose, privandola quindi di un immaginario personale dissonante rispetto al collettivo. Questa storia intensamente messa in scena da Steven Shainberg riecheggia suggestioni mitologiche in riferimento al ratto di Persefone da parte di Ade il signore degli inferi. Anche Diane è stata “catturata” da un maschile inquietante che la sottrae al mondo rassicurante ma prepotente dei genitori per condurla in un mondo sotterraneo dove istinto e ragione parlano la stessa lingua.
Damiano Biondi