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La nostra Letizia Battaglia. La speranza è una causa per cui combattere

Scomparsa la storica fotografa italiana. La nostra ultima intervista

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Si è spenta a Palermo Letizia Battaglia, 87 anni, storica fotoreporter, che per anni ha lavorato per il quotidiano L’Ora raccontando con i suoi scatti la guerra di mafia. Insignita di numerosi premi, tra cui lo Eugene Smith Grant, è stata anche assessore comunale nel capoluogo siciliano e poi deputata all’Assemblea Regionale; ha fondato e diretto il Centro Internazionale di Fotografia a Palermo. Tuttavia, come ha scritto in Mi prendo il mondo ovunque sia, odiava le «etichette» e considerava sé stessa, sopra ogni altra cosa, «una militante».

La ricordiamo qui attraverso l’intervista rilasciata ad agosto a Taxidrivers, in occasione di Kinéma.

 

La mia Battaglia di Franco Maresco, ultima proiezione di Kinéma alla Valle dei templi. Un ritratto-cortometraggio su Letizia Battaglia, anno 2016, prodotto da Lumpen e MAXXI con il patrocinio del Comune di Palermo.

Il film, seguìto da una conversazione con la fotografa, ha chiuso la prima edizione di una rassegna molto partecipata e curata con intelligenza; un fremito per una città caparbiamente sonnolenta.

Nella breve opera di Franco Maresco, la sua Battaglia diventa nostra. Il regista palermitano ha consegnato alla collettività un ritratto dell’amica immediato, intimo e sintetico, privo di chiacchiere e di elementi superflui. Trenta minuti di bianconero, di primissimi piani di lei, con alcuni tra i suoi scatti più noti. È una riflessione dopo più di quarant’anni di carriera, ma senza ritornelli celebrativi, solo sensazioni. Sensazioni su Palermo, sull’omertà mafiosa, sulla lotta politica, su quel che resta. E ancora i «maestri» di lei: Diane Arbus, Sally Mann e ovviamente Josef Koudelka.

Se è vero quel che scrisse Émile Zola, celebrando l’avvento del dagherrotipo, cioè che non hai visto davvero qualcosa finché non l’hai fotografato, allora Letizia Battaglia ha visto più di chiunque altro in Sicilia.

I morti ammazzati dalla mafia, metà della sua opera, sono un documento storico internazionale e un reportage di guerra (duecento vittime a Palermo solo nel 1982), mentre la «bellezza» rappresenta l’altra metà. Un termine, bellezza, di per sé inerte, abusatissimo, retorico; nell’esperienza estetica della fotografa, però, è diventato un antidoto. Il conforto di un immaginario altro e ancora illeso.

La nostra Letizia Battaglia

«La tua è speranza con un po’ di dubbio» dice Maresco all’amica «il mio è dubbio con un po’ di speranza». Per la fotografa la speranza è una promessa da mantenere, un obbligo verso sé stessi; «io la speranza me la invento», dice.

Mario Monicelli la pensava diversamente; in una delle sue ultime interviste, il regista scomparso nel 2010 dichiarò che la speranza è un alibi. Un alibi per attendere, rinviare e non agire.

Qualunque lettura se ne voglia dare (il latino spēro può voler dire tanto «sperare» quanto «temere», «attendersi») si tratta di forme diverse di resistenza, sia pure nella consapevolezza che oggi, agli occhi della generazione della Battaglia, la lotta per un mondo diverso è disfatta. «Abbiamo perso?» chiede Maresco, «Perso?» risponde Letizia «Ieri avevamo perso. Oggi abbiamo straperso!». Seduti dalla parte del torto, per dirla alla Brecht, perché tutti gli altri posti erano occupati.

«Odio le etichette. E io non voglio essere rinchiusa dentro nessuna etichetta, mi considero una militante».

Letizia Battaglia, Mi prendo il mondo ovunque sia, Einaudi

Franco Maresco ha scelto di presentarla così, insomma, nell’unico modo forse concesso: con spontaneità e amarezza, senza liturgie, con il rischio di farla arrabbiare ma senza annoiarla. Letizia Battaglia, nella sua biografia Mi prendo il mondo ovunque sia (con Sabrina Pisu, Einaudi 2020), ha scritto di aver cominciato una nuova vita dopo i trent’anni – dopo aver cominciato a fotografare.

Da allora, forse, non ha avuto più tempo per le ciance. Tuttavia, in alcuni contesti, raccontarsi le dà gioia. Spetta a lei, quindi, decidere cosa è importante e cosa no, quando interrompere e dove volgere altrimenti lo sguardo.

L’intervista alla nostra Battaglia

Letizia Battaglia, vorrei cominciare chiedendole: tra i film più recenti che ha visto, ce n’è qualcuno che ha amato? Negli ultimi anni, per esempio.

Non ricordo nessun film che mi sia rimasto dentro… allora, allora rimanevano dentro: Antonioni… tutti gli altri. Era un’altra epoca. Ora possono fare film buoni, ma non sconvolgono la nostra vita. Fellini sconvolse la mia vita; ebbi una litigata con mio marito per diceva «Perché ti piace?» e io… Comunque, oggi, non sono sconvolta dai film.

Ha raccontato questo episodio con il suo marito di allora in Mi prendo il mondo ovunque sia. Quindi non ci sono registi siciliani, italiani o stranieri che l’hanno colpita, che le hanno lasciato un segno.

Quello che ha fatto Festen, come si chiama? [Thomas Vinterberg, 1998, premio della giuria a Cannes] Ho visto Nord [Rune Denstad Langlo, 2009, presentato al Festival di Berlino]… I film italiani… sono bravi ma a me non toccano.

Immagino lei non guardi le piattaforme di streaming, non trovi nulla d’interessante nelle varie piattaforme oggi disponibili.

Italiani?

Italiani o stranieri.

Quando dici piattaforme… de che?

Netflix, Amazon Prime… c’è anche Raiplay…

Guarda, c’ho un elenco qua dei film che ho visto… tutti recentissimi, tranne la Coppola. L’unico che non mi sia piaciuto è di una donna. È strano, lei l’adoro. Mi è sembrato banale. Allora… dai, parliamo di altro.

Parliamo di altro. A proposito del rapporto tra immagini e dolore, in Mi prendo il mondo ovunque sia lei scrive: «Le foto che non ho fatto mi fanno più male di quelle che ho fatto. Le ho tutte dentro la mia testa». Si riferisce alla strage di Capaci.

La strage di Capaci… quella di Borsellino…

Ecco, mi è venuta in mente Susan Sontag, la quale ha definito l’arte una «caparbia prova di durezza»; riteneva che l’arte abbassasse «la soglia del dolore», rendendo quindi da un lato il mondo più tollerabile, dall’altro – se mi è concesso parafrasare – rendendo noi tutti più assuefatti alla tragedia, più cinici. Qual è il suo rapporto con il dolore, il dolore filtrato attraverso l’immagine fotografica? E c’è un suo modo personale per non diventare cinici, per resistere a questa…

Io non sono cinica di natura! Non posso diventare cinica. Il dolore l’ho sempre condiviso, come qualsiasi persona. Non è che, perché faccio fotografie, ho un dolore maggiore o più bello… L’ho condiviso con il dolore che vivevano gli altri. È stato… è stato pesante… È stato pesante vivere tutti quegli anni continuamente con il dolore degli altri e che diventava anche mio, diventava nostro.

Il giornale L’Ora era un giornale che si batteva. Io ero lì dentro con una macchina fotografica, che piano piano è diventata più importante di… Proprio con il dolore, con la frequentazione… sono cresciuta così fotograficamente. Per cui di mattina incontravo il giudice Chinnici ammazzato e invece di pomeriggio cercavo una di quelle bambine che io cerco e fotografo, o una donna o un’altra situazione. Sono stati anni di dolore ma alternati alla ricerca della bellezza, sennò non avrei potuto sostenere tanto impatto. Mi manca il fiato, un attimo.

[Pausa]

Io lo so che tu mi vuoi fare scivolare sul piano più intellettuale, ma io non ci scivolo. Perché io voglio essere semplice.

Volevo prendere spunto da una citazione di Zola per la prossima domanda, ma la taglio subito e arrivo al punto: se non ci fosse stata la sua macchina fotografica, senza la sua Pentax…

Pentax e poi Leica.

… E poi Leica. Se non ricordo male lei cominciò allora con la Pentax K1000.

Era una Pentax K1000, meravigliosa, non sbagliava un colpo. Invece oggi con l’elettronica sbaglio. Comunque… allora…

Le volevo chiedere se lei immagina una dimensione d’impegno senza la macchina fotografica. Cioè, se non ci fosse stata Letizia Battaglia fotografa, ci sarebbe stata Letizia Battaglia…

Io ho cominciato come giornalista. Io da piccola avrei voluto fare…

La scrittrice.

… La scrittrice. Poi da sposata volevo fare la scrittrice ma non mi fu possibile perché non andando a scuola mi sentivo inadeguata. E come giornalista ho in effetti cominciato. Può essere… forse potevo scrivere. Alla stessa età però: a quarant’anni avrei cominciato. Ancora oggi mi dico «scrivo un libro». Non la mia biografia ma un libro.

Ha anche scritto un libro con Goffredo Fofi, per Contrasto.

Più che altro è lui che fa domande e dice tante cose meravigliose. Con Goffredo… Goffredo… [Pausa].

Ancora a proposito della stagione d’impegno in cui lei ha vissuto… Ha conosciuto…

Ehi! Io vivo sempre nell’impegno! Non solo la stagione, che era cronaca. Sempre.

Però mi chiedo: è stata una stagione drammatica ma anche eccezionale dal punto di vista…

Diciotto anni è durata!

… della coesione, della solidarietà, della convinzione politica…

Ho fatto anche l’assessore, ho fatto il deputato [regionale], per cui non solo con la macchina fotografica…

Mi chiedo: lei ha conosciuto personaggi come Giuliana Saladino, Vittorio Nisticò, Franco Zecchin, Umberto Santino e Anna Puglisi…

E questo che vuol dire?!

Mi chiedo, alla luce di quella stagione che – ripeto – è stata una stagione storica molto importante, vede oggi forme d’impegno altrettanto…

No. Non vedo neanche persone. In questi ultimissimi anni non abbiamo neanche persone nuove che emergono, che vogliono cambiare il mondo. Questa parola, questa frase semplice, cambiare il mondo, è quello che m’interessa. L’aria inquinata, il mare inquinato, i pesci che muoiono, la terra che brucia; i popoli affamati, le guerre…

Ci sono le cause, ma non ci sono le persone?

Non ci sono abbastanza persone. La politica poi è deludente… deludente, veramente. […] E poi le donne. Le donne… sono poche quelle che vanno a governare, tanto poche che non influiscono un cazzo. La parola poi la cambi. Ma è un cazzo. Le poche donne che ci sono là non influiscono. Per esempio una come la Meloni governa come un uomo, non governa come…

Cosa vuol dire governare come un uomo…?

Con la testa di cazzo. [Risate e applausi delle persone attorno]. Voi come governate? Malissimo. [Rivolta alle persone attorno] Non governano male?

Probabilmente ce lo meritiamo.

Probabilmente?! Non c’è amore, non c’è un albero, non una creatura… c’è interesse solo a mantenere i posti, il prestigio… a noi che cazzo ce ne frega… Comunque andiamo avanti.

In autunno inizieranno le riprese di una serie tivù sulla sua vita, una serie per RaiUno firmata da Roberto Andò e prodotta da Bibi Film. Vorrebbe raccontarci qualcosa? Qualcosa del dialogo tra lei e il regista.

È chiaro che la serie non mi può appartenere in pieno. Andò ha parlato con Patrizia, mia figlia, che non ha voluto alcune cose. È stato attento Roberto. Ma ciò che è determinante è che io sono presente. Ora, in questi anni. Poi il film è con l’attrice… Isabella Ragonese. Bellina, brava. È proprio carina, una persona carina. L’ho accettata. Mentre era in ballo… come si chiama… Donatella… [qualcuno suggerisce] Finocchiaro. Lei voleva farlo, ma è stata scelta Isabella.

Inevitabilmente tutte le serie tivù hanno una parte romanzata.

Però stanno cercando di essere molto fedeli. Pensa che fanno me bambina, hanno voluto le foto di quando ero bambina. Marta, mia nipote, ha lavorato con loro proprio in questa ricerca in archivio di com’ero, come mi vestivo, i miei fidanzati… quelli importanti, i minori non ci sono. Allora…

Faccio l’ultima domanda e poi…

E poi mi lasci e mi portate via.

… L’ultimissima, giuro. Lei ha studiato da autodidatta. Oggi dirige il Centro internazionale di fotografia a Palermo. Supponiamo – probabilmente una circostanza già successa – venga da lei un giovane fotografo, una giovane fotografa, alle prime armi; cerca un tema, un tema sensibile, un tema eloquente per questi tempi, un tema urgente… lei cosa… quale…

Gli immigrati. [Pausa]. La vita degli immigrati. [Pausa]. Questo… anche se i giornali fanno poco, solo quando arrivano. È molto doloroso vivere umiliati quando cerchi solo di risolvere la tua vita, di non fare del male a nessuno… [Volge lo sguardo altrove] Guarda che bella bambina là. Chi è quella bambina, meravigliosa? [La bambina si presenta: «Sara»] Lei è una di quelle bambine che io fotografo. Allora?

Abbiamo finito.

E la bambina?

Intervistiamo anche la bambina.

La bambina. La bambina è… fondamentale per me. È mantenersi bambini dentro. [Con un filo di commozione] Questo è bellissimo.

 

Fotografia in copertina: Roberto Timperi.

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