Negli anni Settanta sono uscite una manciata di pellicole che hanno destrutturato, rivisto e aggiornato il genere dei detective privati, in voga soprattutto tra gli anni Trenta e Cinquanta. I capolavori The Long Goodbye (1973, Robert Altman) e Night Moves (1975, Arthur Penn) sono da tempo entrati nella storia del cinema, ma ci sono altri due film – praticamente sconosciuti – che sono da annoverare tra i migliori esempi del genere, The Late Show (1977) e The Big Fix (1978), entrambi con al centro un eroe che più “anti” non si può.
Scritto e diretto da Robert Benton (uno che non ha bisogno di presentazioni), The Late Show è uno dei classici dimenticati degli anni Settanta, nonché una elegante commistione di generi (noir, commedia, murder mystery, pulp, dramma). La premessa è la seguente. Cosa succederebbe se un Marlowe in età pensionabile fosse coinvolto in un caso tipico dei suoi? Art Carney (in gran forma, come anche nell’anno seguente in Going in Style, pellicola di cui parleremmo in futuro) dona il volto a Ira Wells, un detective ormai sessantenne ancorato fermamente ai valori del passato. Tutto inizia quando Ira riceve l’incarico di ritrovare un gatto scomparso. Quello che sembra un caso fin troppo facile si trasforma subito in una sequela di omicidi, ricatti, false piste e doppi giochi in pura tradizione chandleriana.
Un solitario che ha visto ogni cosa almeno una volta di troppo, Ira è il classico private eye sopravissuto a tutto e tutti, per rimanere da solo in un mondo che l’ha lasciato indietro da tempo. Non si fa fatica ad immaginarlo giovane, seduto in un bar a scambiare due parole con Phillip Marlowe o Sam Spade. Entra in scena l’eccentrica quanto neurotica new age hippie Margo, un personaggio decisamente inusuale per il genere, interpretata da Lily Tomlin. Sarà lei a ridare un senso alla vita del nostro. Sognatrice, spesso irritante, senza la minima idea di cosa sta accadendo, Margo è però anche l’unica a capire la solitudine e il dolore interiore di Ira. Non la trama elaborata, bensì la dinamica della relazione tra queste due persone, che non potrebbero essere più diverse e che diventano amiche, è al centro di questo gioiello in attesa di essere (ri)scoperto il più presto possibile.
All’epoca della sua uscita The Late Show (prodotto da Altman e qui il cerchio si chiude) raccolse ottime critiche, soprattutto per la coppia protagonista, nonché una nomination per la miglior sceneggiatura (il lavoro sui personaggi e dialoghi è semplicemente favoloso), e anche al botteghino non se la cavò male. Da non perdere.
Molto meno apprezzato invece fu The Big Fix che, ancora più del film di Benton, gioca con i codici del genere. Diretto da Jeremy L. Kagan e sceneggiato da Roger L. Simon partendo dal proprio romanzo, è probabilmente l’unico film a mischiare il genere dei PI con il movimento di protesta sessantottino, o meglio con quello che ne rimaneva alla fine del decennio seguente. Considerando il sottotesto anti-establishment in Chandler, l’idea si rivela piuttosto azzeccata.
Moses Wine, ex-studente radicale disilluso e cinico, nonché incallito fumatore di marijuana, ora si guadagna la pagnotta come detective. Quando la sua vecchia fiamma dei tempi dell’Università lo contatta per investigare su un possibile sabotaggio ai danni della campagna elettorale nella quale è impegnata, lui accetta soprattutto perché spera di portasela a letto ancora una volta. Segue un intricato susseguirsi di twist e personaggi, ma il punto è che, durante l’indagine, Moses viene messo di fronte a persone e scelte del suo passato, che lo obbligano a fare i conti con se stesso. In questo senso, la splendida scena in cui assiste ad una proiezione delle rivolte studentesche è il momento cruciale del film. Tutto giocato in primo piano con le immagini che si riflettono sul suo volto, il sorriso nostalgico con lo scorrere del filmato si trasforma lentamente in un fiume di lacrime.
The Big Fix racconta il post ’68, la sua generazione ribelle e tutti i compromessi che questa ha fatto in seguito, fino ad arrivare al collasso totale. Lo fa però da una posizione avvantaggiata. Le memorie si sono già trasformate in mitologia. Alla fine non tutto torna, e anche se il mistero sarà risolto rimangono domande senza risposta. Proprio la sensazione di confusione, alienazione e incompletezza è funzionale nel raccontare lo stato mentale di Moses, tanto da permettere allo spettatore di immedesimarsi pienamente nel protagonista. Buona parte del merito va a Richard Dreyfuss, qui al picco della sua carriera, che attraversa l’intera pellicola con il braccio ingessato dandone una spiegazione diversa in base alle convinzioni politiche o morali delle persone con cui parla (una running gag memorabile). Non interpreta il personaggio, ma semplicemente è Moses Wine. I fratelli Coen quando hanno girato il loro capolavoro The Big Lebowski sicuramente l’avevano in mente.
Paolo Gilli