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‘Doppia pelle’ di Quentin Dupieux su MUBI: non mettete quella giacca

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Un’occhiata in direzione della macchina da presa: tre giovani in fila, uno dopo l’altro, si sbarazzano della giacca, buttandola alla peggio nel bagagliaio di un’Audi, mentre giurano che mai più ne indosseranno una.

Doppia pelle di Quentin Dupieux, su MUBI dal 14 agosto, inizia così: bizzarramente, in pieno stile del regista francese, altrettanto conosciuto nelle vesti di Dj col nome di Mr. Oizo. Nemmeno è un prologo, a ben vedere: è più un flashforward, o una promessa di follia.

La storia comincia davvero nello sguardo derelitto di Georges (Jean Dujardin), che a sua volta si libera della propria giacca nei bagni di un autogrill – con tanto di water intasato – e si dirige verso un paesino delle Alpi. A una cifra nemmeno troppo modica, un anziano signore (un cameo di Albert Delpy, padre della nota attrice Julie) gli vende una giacca di daino. È l’inizio di un’ossessione, quasi di una storia d’amore. Sì: per la giacca.

La trama di Doppia pelle

Scaricato dalla moglie, col conto in banca bloccato, ma con una giacca di daino di fresco acquisto, Georges si confina in un alberghetto tra le montagne, pressoché unico cliente. Ma è un’altra l’unicità a cui aspira: essere il solo al mondo a indossare una giacca. Con la sua, peraltro, scambia chiacchiere in campo e controcampo. Grazie alla videocamerina ricevuta in casuale omaggio dal signore che gli ha venduto la giacca, Georges comincia a girarci un falso documentario.

Vi si aggiunge la gentile collaborazione, anche economica, della cameriera Denise (Adèle Haenel, più volte vincitrice dei César), montatrice amatoriale, che annovera a curriculum l’impresa di aver rimontato in ordine diverso Pulp Fiction. Ora non resta che girare. Ed eliminare tutte le persone che indossano una giacca.

“Uno stile malato”

Doppia pelle di Quentin Dupieux arriva su MUBI da Cannes 2019, dove fu presentato in apertura della 51ma Quinzaine des Réalisateurs. Effetto sorpresa, ma anche déjà-vu, per il musicista e regista francese, già segnalatosi per soggetti inusitati. Rubber (2010) aveva per protagonista una gomma d’auto assassina, mentre Wrong (2012) s’incentrava sulla telepatia tra uomini e animali. Il recente e successivo Mandibules (2020, presentato a Venezia 77) sarebbe stato su due malviventi che addestrano una mosca gigante per fare soldi facili. Né lo sgangherato spunto iniziale, dunque, né lo svolgimento ricco di sketch balzani e umori surreali sono una novità per l’autore, che si è spesso identificato esplicitamente con “uno stile malato”.

Curioso, in questo caso, il sodalizio con Jean Dujardin (volto iconico di The Artist), chiamato a un’interpretazione burbera e fisica, da controfigura grottesca di un cowboy killer. In una delle tante scene spassose cerca di togliere il cappello e la fede nuziale al cadavere dell’impiegato dell’hotel nella camera ardente. Il matrimonio dell’attore con Dupieux sembra ben riuscito, così come con la giovane veterana Adèle Haenel. Hanno negli occhi la stessa follia da stile malato: insieme precipiteranno verso il trionfo dell’assurdo finale.

Ai confini della surrealtà

Le daim, Il daino, è il titolo originale di Doppia pelle di Quentin Dupieux. Un’immagine di Jean Dujardin completamente vestito di daino in riva a un ruscello è una scherzosa scheggia western in un film che non ha frontiere, se non la solitudine e la follia. Di cui, sia chiaro, si sorride senza amarezza. Ma il mix è più complesso. Il film trapassa dal dramma esistenziale allo slasher, accompagnandosi sempre all’umorismo della dark comedy. Diversamente da parte della produzione di Dupieux, lo stile è tuttavia più crudo, simil-documentario. All’esuberanza in crescendo dei contenuti surreali, si abbina di contro un’adesione epidermica all’immagine reale: camera a spalla, visuali in apparenza casuali. La dicotomia – o doppiezza – tra surreale e reale è tra le cifre stilistiche di Doppia pelle.

La poetica del nessun motivo

Ma il film ha davvero, poi, una doppia pelle? Si presta, cioè, a letture metaforiche che travalichino la dimensione superficiale? Non è mancata – e non manca mai – l’ala più ardimentosa della critica internazionale a diffondersi su letture che vanno dalla psicoanalisi al meta-cinema. Mentre l’autore transalpino, beninteso, non faceva che dichiarare a destra e manca di aver voluto fare per lo più un film “marrante”divertente, buffo. La gratuità del cinema è  infatti tra i capisaldi della poetica di Dupieux, al punto da far mettere in bocca al Tenente Chad (Stephen Spinella), in apertura di Rubber, un autentico apologo sul tema:

Tutti i grandi film, senza nessuna eccezione, contengono un importante elemento di nessun motivo.

Metacinema o cinema senza meta?

È vero che in Doppia pelle i riferimenti alla settima arte sono ben scoperti: la videocamera di Jean Dujardin, il suo (non)progetto di girare un film, l’incontro casuale con la montatrice amatoriale. C’è persino una sosta in auto all’esterno di una sala, con le sei lettere – c-i-n-e-m-a – in bella evidenza nell’insegna al neon un po’ retrò. Si tratterebbe, tuttavia, di decostruzioni, e non di costruzioni da metacinema. In altre parole, è un continuo ammiccare al non prendersi sul serio. Basti pensare all’ironia delle scelte: la videocamera è acquisita in maniera del tutto accidentale; Georges s’indigna quando è scambiato per regista di porno; la montatrice scova significati improbabili nelle riprese strampalate dell’uomo (la giacca come metafora della maschera che si è costretti ad indossare!). La rabbiosa reazione di un personaggio alle riprese insistenti dello pseudo-regista, sulla stessa falsariga, sembra smarcare il cinema da ogni pretesa altisonante:

– Riprendi chi non vuole essere ripreso? Che razza di lavoro è il tuo?
– Si chiama “girare un film”.

Altro che doppia pelle, quindi, e doppi significati con tripli salti mortali di ermeneutica avanzata. Appena fai un azzardo critico, una risata lo seppellirà. Pur indossando la giacca del film elegante, per le sue scelte alternative e inusitate, Doppia pelle di Quentin Dupieux si presta per lo più a divertire con la propria imprevedibilità. Divertendosi, a sua volta: nell’assecondare l’estro, anche istintivo, di chi lo gira; seminando false piste d’interpretazione, per chi lo guarda. E può bastare, per ora. Purché, prima o poi, Quentin Dupieux, assestato su questi toni sin dagli esordi, faccia un cambio di stagione.

La recensione di Sabrina Colangeli

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