Conversation

‘Brotherhood’: Conversazione con il regista Francesco Montagner

Brotherhoof di Francesco Montagner racconta la giovinezza di un paese attraverso una storia di formazione di tre fratelli

Published

on

Brotherhood di Francesco Montagner, uno dei due film italiani in concorso al Festival di Locarno, presentato ad Alice nella città, arriva al cinema il 21 Aprile distribuito da Nefertiti Film di Nadia Trevisan e Alberto Fasulo.

Brotherhood racconta la giovinezza di un paese, la Bosnia, attraverso l’emancipazione di tre fratelli dal loro padre padrone.

Dopo Piccolo Corpo, Brotherhood è un altro film  prodotto dalla Nefertiti Film.

Brotherhood inizia con la descrizione di una natura idilliaca: la luce è calda e dorata, l’andamento della scena cullante. Poi, però, qualcosa si incrina e l’armonia del  paesaggio comincia a mostrare delle crepe. Resti di case abbandonate annunciano il calare della notte, mentre la furtiva  apparizione del lupo che attraversa per un attimo il campo della mdp rimanda a un senso di minaccia incombente.

La tua descrizione coincide con il significato che ho voluto dare alle sequenze iniziali ed è vero che la natura, diventando sempre più tetra, partecipa alla storia come elemento narrativo. In effetti ad attrarmi, della vicenda dei tre fratelli bosniaci Jabir, Usama e Uzeir, è stato il fatto che si svolge in campagna, in un ambiente bucolico già presente nel mio primo film (Animata Resistenza dedicato a Simone Massi, ndr). Mi colpisce il contrasto tra le sembianze bucoliche e idilliache dell’ambiente e le fratture e i traumi che dietro ad esso si nascondono. Dalle mine, lascito della guerra, agli animali selvaggi, i pericoli appaiono più grandi o più piccoli a seconda di chi vi deve far fronte: così, per il gregge portato in pascolo dai tre ragazzi, la presenza di un lupo diventa una questione molto importante. In generale, questo senso di pericolo imminente rientra nello spirito di un film che, come dicevi, racconta la frattura di una fratellanza, conseguente all’arresto di Ibrahim, il padre dei tre ragazzi. Un’assenza, che per i tre ragazzi diventa un’opportunità quasi inconscia per crescere ed emanciparsi da questo padre padrone.

Del conflitto che ne segue, necessario per affermare le identità dei giovani, mi ha interessato ritrovarmi di fronte a tre diverse personalità, ognuna delle quali portatrice di un suo archetipo: opportunista, quello del fratello maggiore, ideale e romantica quella del mediano, complessa e ancora in via di formazione quella del più piccolo. Quest’ultimo, capace di essere la sintesi degli altri due, allorché non mancherà di criticare tanto il  radicalismo religioso di Usama quanto la mondanità di Jabir.

Di fatto Brotherhood si può considerare come un vero e proprio romanzo di formazione: non gli appartiene solo il percorso di emancipazione dei tre fratelli, ma anche la proposta di archetipi come l’amore, l’amicizia, il tradimento, capaci di rendere la storia universale. Nato come documentario d’osservazione, Brotherhood è destinato a diventare altro, per esempio una storia di crescita personale e collettiva.

Come autore c’è sempre la volontà di scegliere cosa osservare della realtà: dal momento in cui sono arrivato, non ho imposto la mia voce, poiché ciò che ho trovato era già di per sé una storia con accenti medievali, una favola tetra con questo pater familias che prima di andare in prigione lascia il potere, e cioè la casa e i suoi beni, al primogenito, costringendo il secondogenito a diventare un’anima errante, obbligato com’è a dover portar il gregge al pascolo. Al più piccolo dice di studiare perché probabilmente un giorno dovrà prendere il suo posto come Iman della comunità in cui vivono. Da qui  il  percorso lungo e complesso compiuto dai tre fratelli per diventare uomini e la commistione tra favola e documentario che quest’ultimo mi ha ispirato.

In effetti quello che racconti è un vero e proprio rito di passaggio. In tal senso, rispetto al documentario, le tue immagini si caricano di archetipi, di rimandi ancestrali e fortemente simbolici. Alla scena del padre che entra in prigione seguono due sequenze, una dietro l’altra: nella prima vediamo la macchina guidata da Jabir entrare e uscire dal tunnel; nella seconda osserviamo Usama e Uzeir tuffarsi in un lago. In entrambe i casi si sottolinea il passaggio a nuova vita, suggerito tanto dalla presenza dell’acqua quanto dallo scarto tra ombra e luce che investe l’autovettura.

Sì, certo, anche in quelle sequenze si verifica la frattura di cui parlavo prima, una rottura con il passato. Quanto dici è vero anche perché il luogo dove vivono i personaggi è pieno di questi simbolismi. Per questo dico che, nonostante in molti punti sia percepibile la mia voce, la natura di Brotherhood resta comunque documentaria. Talvolta succede che la mdp, volendo dare un interpretazione a un momento privato, possa arrivare anche a un certo grado di simbolismo. Poi interviene il montaggio, che sottrae alla realtà ciò che non serve, dando spazio a quegli elementi in grado di rappresentare la psicologia del personaggio. Io sono molto legato al cinema dei fratelli Dardenne e dunque a un cinema asciutto e che però, se guardato da vicino, è pieno di simbolismi o di elementi reali che riflettono la psicologia del protagonista.

A proposito di doppi significati, Brotherhood racconta anche di Ibrahim, il padre dei tre ragazzi, Imam radicale accusato di essere andato in Siria per sostenere la Jihad islamica. Nel film la questione dei Foreign Fighters entra in gioco, sia come fatto contingente, ma soprattutto in quanto prototipo di quella cultura patriarcale con cui i figli devono fare i conti nel tentativo di emanciparsene

Certo, esattamente. Dal punto di vista storico la guerra in Bosnia e l’11 settembre sono due eventi che hanno segnato la mia giovinezza, per averli vissuti da ragazzino attraverso l’emotività dei miei genitori. Una volta cresciuto, mi sono imbattuto nel servizio televisivo in cui si parlava di Ibrahim e dei suoi tre figli e a quel punto è scattato qualcosa dentro di me. A scuola avevo studiato insieme a ragazzi bosniaci senza aver mai pensato che le differenze religiose ci potessero in qualche modo separare.  Culturalmente i Balcani sono mediterranei e anche se la gente parla una lingua diversa e professa un’altra religione la sento comunque molto vicina.  É stata la guerra a far emergere queste differenze culturali, perché ha permesso all’odio religioso di infiltrarsi nella mente di chi come Ibrahim l’aveva combattuta. I traumi da essa prodotti hanno permesso alla religione di radicalizzarsi e questo ha fatto nascere in me la domanda su quale potesse essere il futuro dei figli di Ibrahim, ovvero di ragazzi che, senza essere altrettanto radicali, stavano cercando di sopravvivere nella speranza di trovare il futuro migliore per loro. Fare il ritratto di uno Jihadista non è una novità, ma chiedersi quale fosse il comportamento dei figli al riguardo forse lo è. Come si fa ad affrancarsi da un padre così incombente sul proprio futuro e come stavano cambiando le  Quindi mi interessava scoprire cosa stava succedendo alle nuove generazione di mussulmani in Bosnia; erano le domande a cui volevo rispondere attraverso il film. Per questo, pur essendo una favola, ritengo Broterhood un’opera molto contemporanea, perché cerca di dare risposte a cose che stanno accadendo in questo preciso momento storico.

 

Beh, il tuo film mi è sembrato una sorta di parabola spirituale sul destino di un intera nazione. La storia dei tre fratelli che in mancanza del padre entrano in conflitto tra di loro sembra di fatto la metafora di quello che è successo nei Balcani prima e dopo Tito. 

Si tratta di divisioni che esistono, non solo tra i vari stati della ex Iugoslavia, ma anche alle singole nazioni, come succede in Bosnia, la cui ripartizione in tre cantoni è motivo di grande conflitto. Nel film la componente archetipica è presente anche a livello psicologico, nel diverso rapporto che il padre ha nei confronti dei tre figli. L’amore sconfinato e ingiustificato verso il primogenito che si prende meno cura della religione e della famiglia. C’è la durezza nei confronti del figlio di mezzo, nonostante sia lui a darsi da fare per rispettare la volontà del genitore e sarà lui poi, al ritorno del padre, ad essere punito.

Emerge in maniera forte il rapporto tra personaggi e ambiente e, in particolare, l’odio amore che i tre fratelli riservano a quella natura in cui spesso si ritrovano, ma da cui cercano di fuggire riparandosi con fortune alterne nella mondanità cittadina.  Anche qui non sfugge il valore simbolico che rimanda alla società bosniaca, come altre nei Balcani divisa tra antico e moderno, con la tradizione, legata purtroppo anche ad avvenimenti drammatici, destinata a rallentarne il processo di crescita.

I traumi della guerra sono per forza di cose ancora molto presenti nella comunità in cui vivono i figli di Ibrahim, come pure all’intero della loro stessa famiglia. Il conflitto ha segnato profondamente le loro vite, creando divisioni in tutte le aree del paese. La stessa enclave in cui vive la famiglia si è creata come conseguenza della guerra, dunque in un contesto di odio e conflitto. Dopodiché vivere in campagna per un’adolescente rappresenta un bene e un male: per molti versi è una prigione bellissima, perché al senso di benessere e di protezione dato dalla lontananza dai problemi della città fa riscontro l’impotenza di non poter raggiungere i luoghi favorevoli alla crescita personale. Dunque, finché non hai diciott’anni e non hai una macchina non può iniziare la tua vita da adulto; per cui  questa incapacità per me è anche una grande metafora della Bosnia stessa, di questo paese per certi versi giovane ma con una tradizione antichissima, sempre a metà strada tra realtà opposte come lo è quella tra il mondo occidentale e quello turco ai quali la Bosnia fa da ponte. Nel 1920 Ivo Andric, autore a cui sono molto legato, diceva di quanto era difficile trovare un paese con più virtù d’animo e di valori e di tradizione come la Bosnia, ma al tempo stesso di come le sue terre fossero inquinate dai fiumi di odio che scorrevano al di sotto di tale apparenza.

Altro tema forte del film è quello che rimanda alla storia personale dei fratelli, ma anche alla nostra: attraverso i personaggi Brotherhood ragiona spesso su come conciliare l’interesse personale rispetto a quelli dell’intera comunità.

É un tema sensibile soprattutto per chi, come i tre fratelli, vive all’interno di una comunità montana piccola e isolata, in cui i rapporti diventano molto stretti ma anche molto forzati. Brotherhood, nonostante il titolo, non parla solo di fratellanza, ma anche del sentimento legato al fatto di essere fratelli. Il termine inglese restituisce questa dualità che si riferisce anche a sodalizi come quello dei fratelli musulmani e di tutti quei movimenti in cui, secondo me, il concetto di fratellanza è presente come valore positivo e non in ottica radicale.

Quando Usama, discutendo con l’altro pastore, dice che i mussulmani in quanto fratelli devono sempre rimanere uniti, esprime un concetto che mi interessa molto in quanto appartenente a una società sempre più orientata all’individualismo. L’Islam propone un grande senso di collettività, che credo sia un valore, per cui il confronto tra Usama e il pastore diventa un modo per mettere in discussione passato e presente, tradizione e modernità, religiosità e secolarizzazione, aprendo alla possibilità  di una convivenza tra le parti.

Come abbiamo visto in altri grandi documentari, anche nel tuo la guerra è qualcosa che non può essere mostrata se non attraverso la simulazione. In Brotherhood c’è una scena altamente evocativa in cui i ragazzi si affrontano nella foresta mimando agguati e combattimenti all’ultimo sangue. Anche in questo frangente l’urgenza del documento lascia spazio all’allegoria.

Quasi tutte le scene rimandano a qualcos’altro, avendo un grande valore simbolico e quasi mai una narrazione fine a se stessa. Seppure importante per i personaggi, ciò che accade assume alla mia vista un significato altro o comunque due o tre livelli di senso. Nel film c’è sempre questo forte contrasto tra la spensieratezza della gioventù, con la sua spontanea giocosità, e la tensione conseguente a questa rappresentazione ludica perché il contesto in cui  essa si compie le conferisce un significato molto più ampio. Mi piace quando gli elementi entrano in relazione tra loro e le scene comunicano le une con le altre, a distanza e anche da vicino. Così, per esempio, il modo in cui i pastori trattano le pecore ricorda quello che poteva essere la condizione subita dai prigionieri in una terra in cui ogni luogo è stato testimone di questi drammatici eventi.

Brotherhood è prodotta tra gli altri dalla Nefertiti di Nadia Trevisan e Alberto Fasulo, casa di produzione di cui abbiamo parlato di recente commentando Piccolo Corpo di Laura Samani. A unire il tuo lavoro a quello delle altre produzioni ci sono molti aspetti. Uno però è più forte di altri, e cioè anche i tre fratelli di Brotherhood sono figure eretiche perché hanno il coraggio di opporsi all’idee di una cultura dominante, qui rappresentata dalla visione del padre.

Mi ritrovo molto nelle tue parole anche perché, come dicevo prima, dipende dall’influenza di una forte cultura contadina presente sia nel Veneto, dove sono nato, come pure nel Friuli Venezia Giulia in cui vivono Nadia e Alberto. La stessa raccontata da Ermanno Olmi ne L’albero degli zoccoli – anche se quella si trovava nel bergamasco – ovvero un luogo dove c’è stato un tradimento forte dell’origine contadina dopo il boom economico degli anni Sessanta/Settanta. L’irruzione della modernità, con la necessità di adeguarsi al cambiamento, crea la tensione che Olmi era così bravo a raccontare. Come generazione, io mi trovo a metà strada perché ho vissuto un po’ di quel mondo attraverso i miei nonni, ma appartengo pur sempre a un’età in cui tutto è cambiato. In Bosnia, grazie all’Islam, si cerca di non cancellare il passato e le sue tradizioni, ed è per questo che quando vai controcorrente e cerchi di fermare un certo tipo di modernità vieni sempre visto come un folle, un eretico e, nel caso specifico, come un fondamentalista. Ero attratto dai valori positivi dell’Islam, infastidito da  come vengono presentati i mussulmani e dai pregiudizi nei loro confronti.

Le tue riprese sono molto classiche, ovvero equilibrate nella composizione dell’inquadratura. In essa i personaggi risultano sempre al centro della scena, in perfetta armonia con gli elementi del paesaggio. Secondo me, questo trova giustificazione nella volontà di creare  un osservazione della realtà  capace di evocare archetipi e simboli.

Nel documentario, anche lo stile deve essere qualcosa che parte dall’autore e comunque collegato con la storia che si racconta. Nel caso specifico l’asciuttezza delle riprese corrispondeva bene all’umiltà del contesto in cui vivono le persone del film. Mi sarei sentito a disagio nell’utilizzare uno stile con una cinepresa molto forte. La mdp doveva essere vicina, intima senza però scavalcare i personaggi. Doveva rappresentare il loro punto di vista sul mondo, perché Brotherhood è raccontato attraverso lo sguardo dei ragazzi, quindi anche in un modo abbastanza semplice, ma non per questo meno complesso.

Anche la fotografia è particolarmente pulita, non presentando quelle sgranature e quell’immediatezza tipiche di molto cinema documentario. Anche questa scelta va nella direzione di quanto ti chiedevo prima.

Con il direttore della fotografia, che è un mio collega ceco, volevamo presentare i personaggi in un modo molto pulito. Peraltro è una forma che ci corrisponde molto perché anche io vengo dalla stessa cultura contadina che fa dell’asciuttezza e dell’essenzialità una delle sue caratteristiche. Una semplicità che nella banalità del quotidiano e della natura vede sempre elementi di poesia e oserei dire, di misticismo

D’altronde, storia e contesto erano di per sé già carichi di forme e di significati, di bellezza e di contrati, per cui asciugarne la resa era l’unico modo per arrivare all’armonia del risultato, evitando il rischio di sovraccaricare la visione.

Sì, è stato non solo un lavoro di riprese ma anche di montaggio e dunque di grande sottrazione e di adattamento drammaturgico fatto insieme a Valentina Cicogna. Insieme a lei abbiamo cercato il più possibile di rappresentare questo mondo per quello che era. Ad un certo punto erano le immagini stesse che ci parlavano e che si volevano fare scegliere.

É chiaro che il montaggio scrive il film, perché come lavoro di osservazione avete visto crescere i personaggi, filmando ore di materiale. Da qui il grande lavoro di scrematura per arrivare all’essenzialità del risultato finale. Riguardo la performance dei protagonisti, tu riesci a non fargli sentire la presenza della mdp. Che tipo di lavoro hai fatto con loro? Quanto sei intervenuto e quanto invece hai lasciato andare?

Prima rivendicavo la natura documentaristica di questo lavoro, perché tutto quello che vediamo è vero. Che poi sia successo in un altro momento e sia stato parzialmente ricreato non toglie la verità del sentimento, che è quello dei ragazzi. In generale, il lavoro fatto con le persone è sempre rimasto in bilico tra documentario e finzione. A volte gli stessi personaggi hanno sentito la necessità di esprimersi non riuscendo a farlo nella realtà di tutti i giorni. In questo senso la nostra presenza è stato uno sprone a manifestare ciò che realmente sentivano. Quindi, pur avendo stilizzato delle parti, sento comunque che il mio è un documentario puro, anche per quanto riguarda la drammaturgia. Il fatto di non far sentire la presenza della mdp è dipeso dalla loro spontaneità, dal fatto che loro percepissero prima di tutto le persone, quindi me  e gli altri tecnici, e poi la presenza della mdp. Avendo fatto quattro anni di riprese, abbiamo avuto modo di conoscerci nel tempo: sono andato in Bosnia regolarmente, abbiamo condiviso un sacco di momenti, siamo stati giornate senza riprendere, costruendo un rapporto di fiducia e condivisione prima ancora che un legame di tipo professionale.

Il tuo cinema di riferimento

Di sicuro il cinema di Roberto Minervini, che ho scoperto dopo aver iniziato a girare il film e che per me è diventato un punto di riferimento per la sua capacità di rappresentare il mondo con un certo tipo di intimità.

Credimi, vedendo il film ho subito pensato a Minervini. In particolare a Stop The Pounding Heart anche per la similitudine del contesto.

Per me il tuo è un grande complimento, anche perché Roberto è un grande poeta e perché ha un’integrità morale ed etica per come lavora con i personaggi che avrebbe molto da insegnare a molti documentaristi. Il suo è un punto di riferimento per il mio sceneggiatore Alessandro Padovani che ha sempre amato Minervini; dunque è anche possibile che nel processo di scrittura e di drammaturgia collettiva sia subentrato anche questo amore per Roberto. I Dardenne sono sempre stati un mio punto di riferimento come anche Bruno Dumont. Sono molto legato al cinema italiano degli anni Settanta e penso ai film di Elio Petri a Pietro Germi a Ettore Scola ai Taviani, a Francesco Rosi e dunque ad autori che riuscivano a rappresentare la realtà in un modo politico senza però essere ideologico.

Alice nella città all’insegna dell’emozione e della ripresa

 

Commenta
Exit mobile version