Presentato a numerosi festival già dalla fine del 2020, il giapponese A family è uscito in patria nelle sale a fine gennaio 2021 e da giugno in streaming in molti paesi del mondo. Il pubblico italiano ne può vedere una versione originale sottotitolata sulla piattaforma Netflix.
Prodotto con il titolo originale Yakuza and the family da Kadokawa Pictures, il film è scritto e diretto da Michihito Fuji. Tra gli interpreti Gô Ayano, Naoyuki Fernandez, Hayato Ichihara.
A family – La storia
Dopo la morte del padre per overdose di cocaina, Kenji Yamamoto, in un moto di ribellione vendicativa, compie un attacco contro uno spacciatore locale, provocando la risposta della banda criminale che controlla quel traffico. L’innesco di una conseguente catena di atti, da un lato mette a rischio la sua vita, dall’altro desta le attenzioni di una più potente banda della yakuza, in declino ma ancora importante, guidata dal boss Hiroshi Shibasaki.
Sebbene inizialmente Kenji rifiuti ogni offerta di affiliazione alla Shibasaki-gumi, sottolineando la sua natura di giovane libero e ribelle, ben presto subisce sia il fascino paterno e autoritario del capo Shibasaki, sia i metodi violenti e spicci in uso alla yakuza per convincere i suoi bersagli.
Dopo l’affiliazione forzata nella banda Shibasaki, che diventa per l’orfano Kenji la sua nuova famiglia, il giovane comincia a nutrire quasi una venerazione per il capo e, tra sentimenti di orgoglio filiale ricambiato, onore e dovere verso la famiglia yakuza, arriva a compiere atti per il quale paga, senza rimpianti, un prezzo altissimo.
Con le buone o con le cattive
L’immagine d’apertura di un corpo sanguinante che fluttua a mezz’acqua è troppo generica e indistinta per lasciarci intuire precisi sviluppi della storia, ma certamente introduce un’atmosfera e un contesto che, in un film di genere come A family, ha più la funzione di timbro autorizzativo. Saremmo quindi autorizzati a vedere fiumi di sangue. In realtà, in A family il sangue non scorre a fiumi, semmai schizza dai e sui volti di molti personaggi, facendoli spesso sembrare maschere grottesche. Prevalgono pestaggi e scazzottate piuttosto che accoltellamenti e sparatorie.
Dal 1999 al 2019 passando per il 2005
Il film attraversa 20 anni della vita di Kenji e ne racconta tre tappe: adolescenza e perdita del padre; gioventù e amori; maturità e responsabilità. E in mezzo, a spaccare in due la sua vita, quattordici anni di carcere per un omicidio in verità mai commesso. Kenji è, infatti, così devoto alla sua famiglia yakuza da addossarsi, senza una richiesta, i delitti commessi dai suoi fratelli e pagarne il pesante scotto.
Una tale devozione, rimasta intatta anche dopo il carcere, si coniuga, più che spiegarsi, con il concetto di dovere (Giri) che è uno dei valori fondanti della società giapponese.
Essere figlio, essere yakuza, essere padre
Tuttavia alla fine del percorso, quando Shibasaki, suo adorato capo e padre putativo è sul letto di morte e un’era si sta chiudendo, all’onore e all’onere dell’appartenenza alla yakuza, si affianca in Kiji anche il dubbio, se non addirittura un vero sentimento di disperazione, per aver preso una strada sbagliata. La nemesi agisce, a quel punto, spietata contro gli unici affetti che gli sono rimasti. L’amata Aiko, cacciata di casa e dal lavoro perché in relazione con uno yakuza.
La trama del film appare un po’ slabbrata, ridondante in certe parti e grumosa nei punti di svolta, spesso affidati a pretesti di poco valore.
La vicenda del protagonista è una discesa all’inferno che si compie troppo velocemente già nel primo quarto d’ora del film compromettendo ogni progressione drammatica successiva.
Il film potrebbe inoltre rinunciare, senza nocumento, ad alcune sotto trame o parti di esse, ed essere ripulito di elementi non necessari. Sarebbe così riportato a un ritmo e una durata più conveniente. Solo per fare un esempio, la minaccia rivolta al protagonista di subire l’estirpazione degli organi a vantaggio di turpi trafficanti, non serve a meglio descrivere il contesto criminale già molto chiaro, ma mette anzi lo spettatore su una falsa pista e diventa un cliché abusato perché il traffico d’organi non fa parte del tema del film.
Certamente un film crudo, con regia e fotografia molto buone a vantaggio della sua godibilità. Fuji, trentaquattrenne con diversi film alle spalle, miscela sapientemente camera a mano con fluidi carrelli, a buon corredo di situazioni e stati d’animo dei personaggi. I personaggi, divisi in due emisferi per genere, cinici e taglienti se maschili, sfumati e remissivi se femminili, presentano troppe poche sfaccettature. Per fortuna entrambi gli emisferi sono capaci di provare sentimenti altri oltre a rabbia, vendetta, onore e tutto il repertorio mafioso. In primo luogo l’amore per il padre. Che in questa storia si direbbe quasi per un padre purchessia. Le figure paterne sono, infatti, tutte figure mancanti, difettose. Il padre naturale morto di overdose di cocaina. Il secondo padre a capo di una banda criminale. Il terzo è lui, padre in carcere senza sapere di essere padre.
Nel suo caso è l’amore a renderlo padre, quello per Aiko, donna che, come tutte le donne nel contesto patriarcale e ipermaschilista di A family, non ha alcuna voce in capitolo. E il loro stesso amore che sembra non avere voce, futuro e importanza. Questo amore che per Aiko sarà fatale.
«Rispondimi, perché sei uno yakuza?»
«È la mia famiglia, non serve un motivo».
È il sentimento di paternità e il suo corrispettivo filiale ad essere il tema dominante del film. Per il protagonista la storia si apre con la morte del proprio padre. Procede con l’acquisizione di un nuovo padre e l’esercizio reciproco o unilaterale di sentimenti come l’affetto, l’ammirazione, il rispetto, l’orgoglio, l’onore o la devozione. Si chiude con la scoperta di essere egli stesso padre. Padre che, per quanto assente, è capace di lasciare nella figlia un segno del suo breve passaggio. Segno che si rivela in chiusura in uno dei pochi momenti poetici del film, il più puro e convincente, quando la giovane Yuka tributa riconoscenza a suo padre purchessia.