Presentato in concorso alla Berlinale del 2020 e vincitore di numerosi riconoscimenti, fra cui il Leone Ceco al miglior film, alla miglior regia e al miglior attore protagonista, Charlatan di Agnieszka Holland torna a raccontare i temi cari al cinema della regista. Da una parte l’ intolleranza e i soprusi compiuti dai regimi totalitari- di qualunque colore- e dall’altra la violenza esercitata sull’individuo che non si sottomette al potere, pagando di persona con la rinuncia alla libertà e agli affetti più intimi . Il tutto affrontando sino in fondo e senza rinnegare i propri ideali una sorte già decisa.
Charlatan una storia vera
Nella Cecoslovacchia del 1958, Jan Mikolásek, cura malati anche gravi (compreso il presidente del paese) somministrando loro preparati a base di erbe.
Per formulare la diagnosi e prescrivere la cura, l’uomo si basa su un campione di urina dell’ammalato, attraverso la cui analisi riesce a stabilire da quale patologia è affetto e trovare per ognuno un rimedio che si rivela ogni volta efficace.
Quando cambiano i vertici del potere, la sua professione viene screditata a quella, appunto, di ciarlatano e impostore e i nuovi dirigenti sono pronti a eliminarlo con false accuse e prove montate ad arte.
Liberamente ispirato alla figura reale di Mikolásek, come riportano i titoli di coda, il film comincia col passaggio di potere fra la vecchia e la nuova guardia e le conseguenze negative che, da tale accadimento, si riversano sul protagonista, presentato qui come un uomo di mezz’età che gode della fiducia dei numerosi pazienti che si affidano alle sue cure.
Charlatan una parabola esistenziale
Presentata la situazione iniziale, la linea temporale alterna sistematicamente al presente, con l’aggravarsi della posizione di Mikolásek, il passato della sua giovinezza quando scopre i poteri medicamentosi delle erbe e decide di sfruttarli per curare malattie anche gravi.
Si giunge poi agli anni dell’occupazione tedesca fino a saldarsi con l’inizio, così da ripercorrere l’intera parabola esistenziale del protagonista.
Tale costruzione narrativa, tuttavia, non si rivela funzionale ad approfondire la personalità del protagonista o a renderlo un personaggio sfaccettato e a tutto tondo. Anzi, la sua figura appare sempre in balia degli eventi, priva di tratti definiti e marcati, incapace d’esprimere un carattere forte ed incisivo. Lo stesso vale per i comprimari, i cui ruoli sono prevedibili come la conclusione stessa del film.
La regia non riesce, nonostante l’alternanza temporale su cui si fonda l’impianto narrativo, a trovare mai una propria incisività e una propria coerenza stilistica, improntata com’è a una convenzionalità che rende l’opera tanto corretta quanto incapace di coinvolgere lo spettatore, sia sul piano emotivo (proprio perché il destino del personaggio principale è ampiamente prevedibile) sia su quello intellettuale, portandolo a riflettere sull’ottusità e la violenza del totalitarismo.
Un ritmo narrativo faticoso
Si aggiunga inoltre un ritmo narrativo caratterizzato da un’estrema lentezza che pone a dura prova l’attenzione anche dello spettatore più indulgente che, insieme alla durata eccessiva, rende la fruizione del film quanto mai faticosa e ardua da sostenere.
L’unico elemento che parrebbe conferire una connotazione stilistica capace di arricchire Charlatan e renderlo più incisivo ( l’opposizione cromatica tra la fotografia luminosa e spesso en plein air delle sequenze ambientate nel passato e quella satura e plumbea dominante invece nelle scene ambientate nel presente) si rivela anch’essa scontata nel suo contrapporre un tempo passato felice ed uno presente carico d’amarezza e disillusione.
Se dunque, come spesso avviene nei film della regista, le intenzioni di base siano lodevoli e certamente condivisibili, la realizzazione lascia alquanto a desiderare per la convenzionalità e la prevedibilità che inficiano la riuscita del film stesso.
Potrebbe interessarti
Rai cinema alla 78 mostra del Cinema di Venezia