Presentato in anteprima ad Alice nella Città e distribuito sugli schermi da Istituto Luce Cinecittà, Non so quando ti mancherò racconta il disagio adolescenziale con forme e stile che lo ricollegano alla tradizione del cinema indie. Poetico e surreale, comico e drammatico, Non so quando ti mancherò lo raccontiamo nella conversazione con il regista Francesco Fei.
La questione dei film a tematica giovanile in Italia non riguarda la produzione, in grado di sfornare ogni anno un numero ingente di film e serie dedicate ai giovanissimi, quanto il suo modello di rappresentazione.
Quando gli adulti parlano dei giovani, lo fanno sempre con uno sguardo dall’alto verso il basso perché di solito è difficile mettersi alla loro altezza. Questo succede anche quando genitori e professori parlano ai loro figli e agli studenti. Penso che il cinema si occupi della questione in maniera più che buona; però, spesso la tendenza è quella di raccontare la realtà attraverso i nostri occhi e non i loro. In Mi chiedo quando ti mancherò ho sempre cercato di stare all’altezza delle due protagoniste, facendo anche un passo indietro dal punto di vista formale e della regia per rimanenere sempre funzionale alla loro storia e alla loro recitazione. Per questo penso che il film sia venuto un po’ strano, diverso da quello che si vede di solito in giro. Non è serioso e autoriale nella maniera in cui siamo abituati, perché tendenzialmente il rischio dei film con i giovani è che prevalga lo status autoriale del regista: a quel punto si perde un po’ di quella giusta altezza nel raccontare la storia.
La prima domanda sottintendeva proprio l’anomalia di cui hai appena parlato. Mi chiedo quando ti mancherò è infatti molto contaminato, sia dal punto di vista dei contenuti che della forma: in generale le produzione italiane si distinguono, come hai detto, tra lungometraggi fortemente autoritari, in generale contraddistinti da toni seri e drammatici, e gli altri in cui prevale la leggerezza a tutti i costi. La difficoltà è trovare una via di mezzo, come hai fatto tu. Mi chiedo quando ti mancherò replica le ansie tipiche dell’età giovanile, ma è pure attraversato da un tono favoloso e surreale, che per certi versi ne fa una versione nostrana di Alice del nel paese delle meraviglie.
Questo perché alla base del film c’è l’omonimo romanzo di Amanda Davis che possedeva proprio questa caratteristica. La scommessa era quella di riuscire a ricreare con mezzi cinematografici e non letterari i toni presenti nel libro, con l’amica immaginaria trattata come se fosse reale. Pensavo che fosse un mix perfetto e per non inficiarlo ho un po’ annullato tutta la mia cultura cinematografica, facendo a meno delle suggestioni e delle atmosfere presenti nei miei film precedenti. Questo mi ha permesso di entrare nella dimensione narrativa della Davis, rinunciando a certi movimenti di macchina e ai miei riferimenti cinematografici. Al centro della mia ricerca c’era la volontà di trasmettere questa situazione un po’ magica, surreale favolistica e poetica presente nel film. Certo, mi sarebbe piaciuto fare questo lavoro in maniera più approfondita, ma bisognava tenere conto che il mio era pur sempre un film piccolo in termini di budget; anche se per come lo abbiamo realizzato, credo che questo non si veda. Operazioni come la mia ce ne sono già state in Italia: mi vengono in mente Favolacce dei fratelli d’Innocenzo e Fortuna di Nicolangelo Gelormini, film che tendono a trasfigurare il realismo in una dimensione più autoriale e seriosa, oppure realizzando opere che sono quasi video arte e altre virate al genere on the road.
Io per esempio ho pensato anche a Sul più bello di Alice Filippi, un altro esempio in cui la realtà della giovinezza è trasfigurata in una dimensione surreale che mescola dramma e commedia.
Sì, certo, a conferma che esiste la tendenza di cercare strade un po’ diverse dalle solite.
Parlando dei riferimenti e sapendo che la fonte è appunto il libro della scrittrice statunitense, mi sembra che lo stile del film ne mantenga le radici. La costruzione della scena in cui vediamo la protagonista andare a scuola risulta in questo senso esemplare: la musica americana che ne accompagna l’azione insieme all’uso del rallenty mi ha fatto venire in mente Donnie Darko e con lui tutti quei film indipendenti capaci di raccontare la dimensione giovanile per i quali l’esiguità dei mezzi non significa abdicare alla fantasia di certe trovate.
Sì, in effetti la ricerca musicale andava in quella direzione, ma questo fin dall’inizio era una caratteristica del progetto. Anche quando ne parlavo con i produttori, l’idea era di costruire un film che non avesse connotati geografici e ambientali tipici dell’Italia. Volevo creare un non luogo un po’ internazionale, un ambiente dove la storia trovasse la sua forza ma non con una forte matrice regionale. Un’altra possibilità era quella di fare una specie di on the road lungo l’Italia ma così facendo sarebbe diventato una ricostruzione da cartolina. Al contrario la Sardegna nel film è presente; però alla fine quella terra mi serviva perché il viaggio doveva comportare l’attraversamento di un mare e quindi uno stacco fisico e psicologico. Non siamo andati in cerca di una caratterizzazione perché le peculiarità tipiche del suo territorio non sono mai declamate. Anche Milano non lo è, con quei palazzi un po’ asettici che la fanno sembrare una città del nord Europa.
A proposito di riferimenti, c’è un inserto in cui la protagonista si trova al banco di scuola, la vista persa sull’orizzonte visibile al di là della finestra. Segue una falsa soggettiva, di poco alterata per simulare lo sguardo verso l’alto della protagonista, in cui la porzione di cielo è spezzata dalla cuspide del tetto. Prima si parlava della forma come possibilità di intercettare i gangli del malessere giovanile. Nella vertigine di quella soggettiva, che rende al meglio la sofferenza di Annabella, ho ritrovato il riferimento a un fotogramma di uguale tenore presente in Rumble Fish di Francis Ford Coppola.
È un film che non vedo da tantissimi anni (ride, ndr), ma lo ricordo ancora come un titolo molto importante.
Non lo so, può essere, in fondo i miei riferimenti cinematografici più che italiani spaziano verso film in cui i luoghi diventano protagonisti della storia. Come succede nei miei film e in quelli del maestro americano.
Un non luogo è quello che utilizzi per entrare nel cuore e nella mente della protagonista. Ciò che vediamo, di fatto, riflette l’interiorità di Amanda.
Beh, sì, in teoria è così, anche se poi abbiamo trattato tutto in maniera molto realistica. È vero che il film presenta molti livelli di lettura.
Eh, sì. Perché creando il doppio di Amanda e facendolo entrare nella storia con pari dignità narrativa hai reso oggettivo il pensiero della protagonista, ovvero un secondo livello di coscienza. Ne hai oggettivato la malattia, di cui dai conto attraverso il rapporto con Amanda come pure il diverso distanziamento tra le due ragazze. Un concetto a suo tempo utilizzato dal regista di Lars e una ragazza tutta sua, in cui la patologia di Ryan Gosling veniva oggettiva dalla presenza della bambola/fidanzata.
La riuscita di quanto dici dipende dalle scelte della sceneggiatura, perché non solo abbiamo raccontato il doppio ma anche mescolato il prima e il dopo. Da qui la strana commistione che per alcuni è risultata addirittura di difficile comprensione, cosa che di per se non è. Detto questo, il concetto era proprio quello di lavorare tra passato e presente, tra doppi e non, al fine di creare una dimensione narrativa abbastanza alterata, per cui a un certo punto non è neanche chiarissimo chi è il doppio: alcuni lo hanno letto come un personaggio reale, mentre per altri è solo immaginario. Questo per dire che tutto un po’ si mischia, perché non volevamo un film che a un certo punto ti svelasse la sorpresa. Mi chiedo quando ti mancherò non è un film costruito sulla risoluzione della sorpresa relativa al discorso mentale, che poi, in quanto tale, è per forza un può confusionario e giocato su più livelli. A questo come ti dicevo abbiamo aggiunto una dimensione favolistica.
Infatti ho trovato davvero molto bello ed efficace il montaggio, non solo perché rende lineare e leggibile il flusso interiore della protagonista, ma proprio perché dal punto di vista del senso i continui andirivieni rendono bene la frammentazione dell’io che sta vivendo Amanda.
Sì, sì. Ti ringrazio di questa nota perché l’idea era proprio quella. In più, la frammentazione a un certo punto riguarda anche lo stile che prende derive un po’ horror, supponendo di rendere quello che succede nella mente di lei, quando il cervello perde il controllo. Certo, devi stare al gioco; il mio non è il classico film da Festival, coerente, preciso, serioso dove tutte le cose sono messe a punto per soddisfare critici e cinefili. Non volevo fare cose a tavolino e avevamo una base come quella del libro la cui ispirazione era totalmente fuori dalle righe. Ed è su quello che ci siamo trovati.
Il tuo invito al viaggio è una specie di vida loca perché nel film c’è il circo, ci sono i fantasmi, gli artisti di strada, c’è una fuga, c’è la voglia di superare i limiti. Scansioni successive che tu racconti ogni volta anche attraverso i cambi di look. Dai vestiti e le acconciature più ordinarie, sintomo della sua sottomissione, Amanda passa ad un abbigliamento punk: le calze slabbrate, la minigonna e i capelli corti e tinti, sonore vestigia della sua ribellione.
Sì, in effetti anche i costumi dovevano andare di pari passo con la dimensione narrativa un po’ astrusa del film. A loro volta non dovevano sembrare usciti da uno showroom, cosa che di solito capita. Li volevo realmente vissuti, e questa secondo me è stata un’altra scommessa, peraltro riuscita del mio film.
Si diceva di come l’amica immaginaria diventi la misura del disagio patologico di Amanda e del percorso che le permette in qualche modo di affrancarsene. Si era accennato a quanto la distanza o la vicinanza fisica tra le due protagoniste ci dica delle tappe compiute da Amanda. Esemplare è la sequenza in cui lei si è integrata nel gruppo di circensi con i quali inizia a viaggiare: la prima conseguenza del suo iniziare a sentirsi meglio è la collocazione del suo doppio, distanziata e in fondo alla fila di ragazzi, che cammina lungo la spiaggia.
Esatto. Infatti il suo doppio rimane indietro. La scommessa era però un’altra e cioè quella di rendere felice anche il suo doppio; farla andare via saltellando, contenta di aver compiuto il suo lavoro.
Passando agli aspetti formali, nel film utilizzi rallenty e accelerazioni che danno conto della repressione e dell’euforia di Amanda. Allo stesso modo le sfocature ci dicono del suo isolamento mentre la dialettica tra campi lunghi e primi piani ce ne restituiscono la vertigine esistenziale.
Sai, queste cose son tutte esatte, però quello che mi preme dire è che non sono studiate a tavolino. Cioè mi rendo conto ed è anche bello che questi effetti trasmettano allo spettatore le sensazioni di Amanda, però è stato tutto costruito di pancia, del tipo che siamo arrivati sul set e ci siamo chiesti cosa era meglio fare.
Come ne La regina di casetta e in Onde, anche qui tu hai la capacità di fare del paesaggio uno dei protagonisti del film. L’ambiente è lo specchio dell’anima del personaggio, ma anche elemento che entra in dialettica con la vita di Amanda. I resti post industriali si alternano a una natura di inaudita bellezza, a significare i sentimenti opposti di Amanda.
Sì, torniamo a quello che ho detto prima: i luoghi, gli spazi, sono a loro modo dei protagonisti narrativi. Non a caso, nel cinema che amo di più, contano silenzi e suoni, l’atmosfera e non le parole. Poi non so se sono in grado di riprodurre quel tipo di linguaggio; però è chiaro che quando faccio cinema, per quanto voglia essere istintivo, cultura e passioni vengono fuori e quando entro in uno spazio e soprattutto quando lo scelgo, lo faccio sempre perché possa dare un contributo non solo estetico ma soprattutto espressivo narrativo alla storia.
Volevo soffermarmi su Beatrice Grannò che, nonostante l’età, appare sullo schermo molto sicura di sé e anche capace di alternare ruoli, toni ed espressioni del viso . Nel film lei entra ed esce continuamente dal personaggio.
Sono d’accordo. Beatrice è stata la nostra fortuna. Abbiamo aspettato molti anni per arrivare a fare il film, ma alla fine era necessario perché lei è comunque arrivata. Uno dei motivi per cui alla fine ho deciso di fare il film, nonostante i molti problemi produttivi, è stato il fatto che in primis avevamo la garanzia che l’Istituto Luce ci garantisse la distribuzione, cosa rarissima per un film indipendente; l’altro era la consapevolezza di avere due attrici veramente potenti. In particolare Beatrice, proprio perché, come hai detto, aveva un personaggio che la costringeva a entrare e uscire da diverse situazioni psicologiche. Per Claudia Marsicano penso sia risultato più facile perché il suo personaggio resta sempre quello, mentre Beatrice aveva un vero tour de force, non ultimo in ragione di dovere apparire dalla prima all’ultima scena. Quando gli ho fatto il provino mi sono subito accorto che avevo di fronte a me un’attrice sensibile e con una grande tecnica, il che non è poco. Questo è un particolare decisivo, soprattutto quando si ha un film con un piccolo budget dove non hai tempo di girare più volte; quindi deve avere attori capaci di arrivare al risultato in un tempo relativamente breve. Beatrice è tecnica, istinto e anche bellezza, dunque un’ interprete completa.
Tornare, Gli indifferenti e ora Non so quanto ti mancherò. Secondo me Beatrice è un’attrice di razza e, come ho scritto, avviata a una carriera luminosa. Che tipo di attrice è da dirigere sul set?
Lei è proprio una professionista. Al di là dell’ottima atmosfera, le due settimane sarde hanno messo a dura prova tutti per le condizioni del tempo davvero tremende e per le problematiche che abbiamo dovuto affrontare. Nonostante questo, Beatrice non è mai mancata, non ha fatto mai un passo indietro, mettendo sempre la sua presenza e la sua voglia a nostra disposizione. Il cinema è magico perché fa diventare grandi anche persone che magari non sono dei grandi attori. Lo schermo riesce a esaltare le loro caratteristiche, mentre Alice ha questi due aspetti: da una parte è estremamente naturale, dall’altra ha una tecnica straordinaria e poi una professionalità che a questi livelli diventa fondamentale per poter riuscire. Le auguro di fare una grande carriera; poi, sai. alle volte ci vuole anche molta fortuna. Talvolta bisogna costruirsi anche un personaggio di un certo tipo, però diciamo che tutto quello che sta facendo le viene molto bene.
L’ultima domanda riguarda il cinema che ti piace vedere.
Mi piace tutto quello degli anni 60, in cui c’era una grande libertà espressiva. Un cinema che richiedeva grande partecipazione da parte del pubblico, perché non spiattellata il racconto ma invitava lo spettatore a completarlo. Dunque Antonioni, Bresson. Poi Godard. Ciò che mi ha cambiato la vita è stata la visione a quindici anni di Shining quindi aggiungo Kubrick alla lista. Il film che mi ha detto di più è stato però Derzu Uzala, che ho avuto la fortuna di vedere in virtù di un padre che mi portava sempre ad assistere a un certo tipo di cinema. Per questo sono abituato a viverlo come un’esperienza non solo di intrattenimento ma di pensiero, di riflessione e di emozione. Tra quelli visti negli ultimi tempi mi è piaciuto molto Monos, altra storia a tematica giovanile.