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Giffoni Film Festival

Paolo Calabresi a Giffoni: “Abbiate coraggio”

Tra gli ospiti di questa edizione #Giffoni50Plus, Paolo Calabresi è sicuramente uno dei più conosciuti e amati dal grande pubblico, grazie soprattutto al ruolo interpretato in Boris, pronto a tornare sui nostri schermi. Lo abbiamo incontrato in esclusiva...

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PAOLO CALABRESI GIFFONI

Tra gli ospiti di Giffoni, Paolo Calabresi è noto al grande pubblico per aver dato vita al mitico Augusto Biascica, nella serie fenomeno Boris – di cui è in lavorazione la quarta stagione, a distanza di ben undici anni dalla precedente.

Romano doc, classe 1964, l’attore ha, al suo attivo, una filmografia di tutto rispetto. Da Il talento di Mr. Ripley a I viceré,  da Diaz – Don’t Clean Up This Blood a Tutta colpa di Freud. In mezzo, partecipazioni importanti sul piccolo schermo, quali quelle in BorisDistretto di polizia Il restauratore

Con Sydney Sibilia e la trilogia di Smetto quando voglio leggi qui la recensione del primo capitolo – incontra e ci regala un altro personaggio memorabile, che risponde al nome di Arturo Frantini.

Tra le più recenti apparizioni, poi, citiamo FigliSchool of mafia La bambina che non voleva cantare.

Dal vivo, Paolo Calabresi è una di quelle persone genuinamente divertenti, umili, sensibili e tanto disponibili. Un artista a tutto tondo, se si considera il suo passato da trasformista – recuperate il video in cui si finge Nicolas Cage per entrare allo stadio – appassionato e versatile, di quelli che ce ne sono sempre meno in giro. Un “buono” capace di emozionarsi ed emozionare con una semplicità incredibile e preziosa.

Noi di TaxiDrivers lo abbiamo intervistato in esclusiva al Festival di Giffoni 2021.

Alcuni attori temono di essere identificati con il personaggio che ha dato loro la fama. Qual è il tuo rapporto con la popolarità, o meglio con la popolarità derivante da un personaggio come Biascica?

Dico la verità, perché proprio fa parte della mia storia e della mia formazione di attore. Io sono passato per diverse fasi che hanno avuto a che fare con la popolarità e con “l’antipopolarità”, la riconoscibilità e la non riconoscibilità. Soprattutto perché, quando ero sconosciuto, ho potuto far delle cose a cui tenevo molto, e a cui tuttora tengo molto, ma che non potrò mai più fare adesso che sono diventato molto popolare. Per un periodo lungo della mia vita ho finto di essere delle persone che esistono davvero, e questo me lo concedeva il fatto di non essere popolare. Era il seme del mio lavoro.

A me dello scherzo non importava nulla, facevo queste cose perché l’attore deve far finta di essere un altro. E più altri possibili fa e meglio è per lui, perché così alimenta la sua capacità di fare questo lavoro. Quindi, semplicemente e stranamente, questa cosa dello scherzo nasceva da un periodo di sofferenze mie personali, e l’ho convogliata nel palcoscenico della vita reale, rendendola più eclatante. Però è anche quello che dovrebbe far sempre un attore sul set. Questo per quanto riguarda il mio rimpianto, cioè quello di non essere più irriconoscibile, perché la irriconoscibilità mi avrebbe dato la riconoscibilità in quanto altro da me.

L’altro aspetto è che invece la popolarità fa piacere, perché ovviamente ti rendi conto che se sei popolare per le persone vuol dire che qualcosa gli hai regalato. E quindi questa dicotomia mi porterà in analisi (ride, ndr.).

Oggi quale dimensione senti più tua: la televisione, il cinema, il palcoscenico?

Difficile dirlo, perché il seme del mestiere è sempre lo stesso, poi nel lavoro ci sono un po’ dei periodi. Io che non ho mai rinunciato a nulla, sono passato dalla fase teatro un po’ impegnato al trasformismo, al mondo della televisione che è figlio di quel periodo lì. Poi ho fatto Italian Job, Le Iene. E il cinema è un’altra cosa ancora; però io faccio sempre il mio lavoro, faccio altri, giochiamo a raccontare delle storie fingendoci altre persone. Forse in questo momento il cinema è quello che mi sta più a cuore.

Siamo in un festival di ragazzi, tu che tipo di ragazzo eri? Anche tu amavi l’archeologia come il tuo Arturo?

Io pensavo solo a giocare a basket, essendo molto alto. Appassionato, ai tempi, di calcio, pensavo solo allo sport. Non pensavo nemmeno a quell’altra cosa che non nomino, almeno per molto tempo. Però non dovevo neanche fare questo lavoro, ero molto timido, molto complessato per la mia altezza, cercavo di nascondermi, anche perché vengo da una famiglia molto numerosa. Ero abituato in qualche modo a non essere considerato: sono il quarto di cinque figli.

Questo lavoro mi ha proprio cambiato, sia fisicamente che mentalmente. Ho compensato tutte quelle incertezze che avevo, ma il merito è stato di chi mi ha preso e mi ha messo dentro questo mondo. Era un maestro come ne nasce uno ogni duecento anni: era Giorgio Strehler.

Ne La bambina che non voleva cantare hai interpretato un insegnante. Qual è l’insegnamento più grande che tu hai ricevuto e che vorresti trasmettere a chi verrà dopo di te?

Ho ricevuto come insegnamento da mio padre quello che bisogna avere coraggio e che non bisogna avere paura. Il coraggio ovviamente è legato alla paura. E io credo di aver passato ai miei figli, anche a chi di loro ha scelto delle strade più difficili come il primo che fa il calciatore, questo coraggio, che penso di aver dimostrato proprio in una fase per me molto dura.

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