Tra le sezioni del Festival di Cannes è sicuramente degna di nota quella dedicata al Cinéma des Antipodes, quest’anno caratterizzata da film molto diversi tra di loro, sia come provenienza che come genere.
Si va dal film epico alla commedia, dal thriller al divertissement che mette in parodia Fast&Furious, fino all’ “eleganza e potenza del cinema Maori e Aborigeno”.
Da oltre 25 anni Bernard Bories porta a Cannes un cinema originale, al crocevia tra il cinema hollywoodiano, divertente ed efficace, e il cinema europeo da cui prende a prestito la sensibilità e la prospettiva sociale e politica, spesso con un plus di feroce umorismo.
Cinéma des Antipodes mira a far conoscere la produzione cinematografica e audiovisiva australiana e neozelandese e, più in generale, la “Cultura degli antipodi”.
The Haka, rivisitando la Storia
Talvolta ad un lungometraggio è stato abbinato un corto, come nel caso di The Haka: il neozelandese Isaac Lee rivisita un celebre episodio della prima guerra mondiale, la cosiddetta “Tregua di Natale”, che vide una sospensione delle ostilità verificatasi in modo non ufficiale in varie zone del fronte occidentale, proprio alla vigilia o nel giorno stesso di Natale del 1914.
In alcuni casi, pare addirittura che reparti degli eserciti nemici fraternizzassero al punto di improvvisare una partita di calcio, proprio nel mezzo della terra di nessuno!
Ed è ciò che accade in The Haka, dove un reparto formato da soldati maori chiede ed ottiene di eseguire la celebre danza tribale, che tutti conosciamo dai trionfi nel rugby degli All Blacks, davanti al reparto tedesco che li aveva sfidati a giocare a pallone.
È commovente la consapevolezza dei soldati – ripresi dall’alto mentre varcano le rispettive trincee, per una volta senza intenzioni bellicose – di condividere la medesima condizione umana con chi porta “la divisa di un altro colore” e con chi, subito dopo la breve tregua, riprenderà a scannarsi.
Vai: Otto registe per una donna maori
Del tutto diverso Vai, che racconta il viaggio di emancipazione culturale di una donna nel corso della sua vita.
Splendidamente girato in sette paesi del Pacifico (Fiji, Tonga, isole Salomone, Kuki Airani o isole Cook, Samoa, Niue e Aotearoa – la Nuova Zelanda) ed interpretato da un’attrice indigena diversa in ogni luogo, è una “delicata esplorazione del significato di crescita, adattamento e, soprattutto, connessione” con la comunità di appartenenza e con la natura, in particolare l’elemento acquatico.
Da notare come in ciascuna delle nazioni del Pacifico la parola vai significhi “acqua”.
E come un sasso gettato nell’acqua produce piccoli cerchi, così ogni passo di Vai tra i mondi che si trova ad attraversare conduce alla trasmissione di saperi ancestrali affinché non vadano perduti, e con essi la possibilità stessa di perpetuare la vita su un Pianeta Terra così fragile.
Vai e i suoi tanti volti
Ecco quindi che di volta in volta vediamo una Vai prima giovane, poi matura e infine anziana affrontare passaggi cruciali: dall’ affermazione della propria condizione di studentessa universitaria legata alla famiglia d’origine, alla lotta contro aziende voraci che minacciano l’ecosistema tanto più prezioso per i popoli indigeni, fino al rito che celebra l’ingresso nella comunità di una nuova vita.
Anche dal punto di vista produttivo e registico la scelta – complessa ma affascinante – è stata di affidare ciascuno degli episodi ad una regista differente, che vogliamo citare una ad una perché lo meritano: Becs Arahanga, Amberley Jo Auma, Matasila Freshwater, Dianna Fuemana, Miria George, Ofa Guttenbeil, Marina McCartney, Nicole Whippy.
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