In bilico tra profondo dolore e voglia di vivere, Micaela Ramazzotti (qui per un’altra intervista di Taxidrivers all’attrice) continua a raccontare storie di donne che sentono troppo e che troppo amano. Per l’attrice romana Naufragi di Stefano Chiantini è l’ultima tappa di una carriera cinematografica vissuta in totale aderenza con i suoi personaggi e di una prova d’attrice totale. Naufragi è distribuito da Adler Entertainment su Apple TV/ iTunes, Google Play, Amazon TVOD, Rakuten e Chili e il 16 luglio su Sky.
Micaela Ramazzotti ne Gli anni più belli
Prima di parlare di Naufragi, il film di Stefano Chiantini di cui sei protagonista volevo tornare per un attimo a Gli anni più belli che in questi giorni è stato selezionato nell’ambito dell’Italian Berlin Film Festival e dunque sarà presentato in anteprima al pubblico tedesco. Uscito poco prima dell’inizio della pandemia il film di Gabriele Muccino, dopo una partenza record al box-office, è stato tolto dalle sale per le note ragioni. In quel lungometraggio tu sei l’unica esponente femminile di un gruppo di colleghi – Kim Rossi Stuart, Pierfrancesco Favino e Claudio Santamaria – che insieme a te rappresentano il meglio di un’intera generazione d’attori. Ti volevo chiedere un ricordo di quella esperienza.
Hai messo subito a fuoco una cosa importante perché noi siamo usciti al cinema poco prima del lockdown. Gli anni più belli è stato l’ultimo film di cui ho preso parte a un’anteprima: dopo quella presentazione abbiamo fatto un piccolo tour prima che il film fosse tolto dalle sale. Ovviamente sono stata molto contenta di avervi partecipato perché tra le altre cose mi ha permesso di ritrovare Kim Rossi Stuart con il quale ho fatto tre film e di cui mi è capitato spesso di essere moglie sullo schermo. De Gli anni più belli ho trovato interessante molti aspetti, uno tra tutti il passaggio del tempo, tema con cui ho avuto molto a che fare nel corso della mia carriera. Mi viene in mente La prima cosa bella ma anche altri titoli nei quali bisognava riflettere sui cambiamenti causati dal passare degli anni.
Per un attore lo trovo un lavoro molto interessante dal punto di vista psichico: al di là del cambiamento d’età che comporta una trasformazione fisica, il grosso della questione ha a che fare con la rappresentazione dei mutamenti interiori. Nel film riprendiamo i personaggi a un’età molto inferiore rispetto alla nostra perché i personaggi interpretati da me e dagli altri attori hanno circa ventitré anni. Riprendere quell’entusiasmo giovanile non era semplice. Se per le metamorfosi del fisico il trucco ci aiutava a entrare nella parte, i sentimenti e la vivacità di quegli anni sono diversi da quelli che ti porti dietro magari per tutta la vita. Dunque la parte più complicata è stata proprio restituire i sentimenti dell’età giovanile.
Peraltro quello è un film storico perché dopo The Irishman di Martin Scorsese anche Gli anni più belli utilizza il digitale al posto del tradizionale make up per invecchiare gli attori.
Sì, penso che sia stata una grossa sfida anche per la produzione, per il regista e per noi attori perché nella post produzione potevamo anche rischiare di risultare goffi e invece devo dire che mi è sembrato un lavoro davvero buono. Anzi, io sono rimasta colpita del risultato perché vedendo il film i cambiamenti sui nostri visi sono risultati molto naturali.
Il personaggio di Micaela Ramazzotti in Naufragi
Naufragi conferma Micaela Ramazzotti attrice capace di mettersi sempre in discussione. Rispetto a Gli anni più belli quella di Chiantini è una produzione indipendente nella quale, a differenza del lungometraggio di Muccino, sei presente in ogni scena, spesso da sola o in compagnia di attori non ancora famosi. Quello di assumerti la responsabilità di un film è un fatto che succede spesso nella tua filmografia: come pure quella di recitare con dei bambini, cosa che succede anche in questo caso.
Sì, mi capita spesso di scegliere film più complicati dal mio punto di vista. Naufragi lo era innanzitutto perché sono in scena per tutta la durata del film: in questo ho un po’ sfidato la sorte, tant’è che prima di decidere di farlo ci ho pensato non poco, poi la storia di Maria mi ha talmente conquistato da farmi assumere il rischio di fidarmi di lei. Rischiare è anche una cosa che mi diverte, poi qui c’era il fatto di lavorare con dei bambini.
Quando hai a che fare con loro – e qui ce ne sono due davvero bravi che sono fratelli anche nella vita reale – può essere più complicato, però ti regalano anche tantissimo perché sei tu a dover seguire loro. Durante le prove cerchi di portarli nella tua direzione, poi magari in scena loro cercano quella libertà espressiva a cui ti devi agganciare. Facendo così non sbagli mai: seguire il loro ritmo infantile e bambinesco per il mio personaggio, che lo è altrettanto, era perfetto. Io poi sono stata abituata a recitare con ragazzi e bambini fin dall’inizio della mia carriera: uno dei miei primi ruoli è stato proprio quello di madre. Nonostante fossi giovanissima hanno pensato di farmela fare, quindi per me non è una cosa così particolare (ride, ndr).
Naufragi, con il suo titolo, allude alla condizione di Maria e degli altri personaggi, sopravvissuti a una tempesta inaspettata inaspettata. In particolare il tuo si trova impreparato di fronte alla responsabilità di allevare i propri figli.
È una difficoltà che vediamo fin dal principio, nelle discussioni con il marito, oppure quando lei accompagna i figli in ritardo a scuola e come reazione decide di portarli al mare. Maria ha un approccio con la realtà molto difficoltoso. Il suo senso del tempo è come se fosse alterato al punto da essere o troppo lento, o troppo veloce. La vediamo chiedere spesso l’ora in giro per la città perché lei non ha idea di quando arriva il pulmino della scuola; insomma, è come se avesse difficoltà a ricordare le cose in maniera vivida. Il suo punto di vista è un po’ offuscato, come se avesse un disturbo dissociativo.
Maria me la sono studiata a livello psichico. Chiedendomi cosa potesse avere, sono arrivata a credere che il suo possa essere un disturbo dissociativo capace di non fargli distinguere tra coscienza, realtà e memoria. Essendo un’appassionata di psicologia, mi sono avvicinata a Maria prima di tutto dal punto di vista clinico (ride, ndr).
Il film secondo l’attrice
All’inizio c’è questa sequenza bellissima che introduce il tuo personaggio senza fargli pronunciare una parola. In essa vediamo Maria andare da una parte all’altra senza una meta precisa e con lo spettatore impossibilitato dal capire la necessità che la muove. Questo ci dice già molto della sua instabilità e della mancanza di un punto di equilibrio. La gente che la scansa, fraintendendo le sue intenzioni, ci dice molto del complicato rapporto con il mondo esterno, dell’incomunicabilità che lo caratterizza. È una scena senza suoni né parole nella quale avevi solo il linguaggio del corpo per restituire il malessere della protagonista.
Beh, lì mi sono lasciata andare, pensando che le persone avessero un po’ paura di questa donna vestita quasi come una stracciona, con questi capelli da leonessa selvaggia che saltella da una parte all’altra. Purtroppo quella scena rappresenta anche la paura della gente verso il diverso. Come attrice vado spesso alla ricerca di questi personaggi pensando che la diversità non deve fare paura, ma va accolta come una risorsa.
Al contrario, a inquietarmi sono le persone pronte ad affermare di stare sempre bene e di non avere nessun problema. Dimostrare la propria diversità non deve spaventare, perché insomma, siamo umani e, come tali, pieni di debolezze con cui dobbiamo abituarci a convivere per trovare la nostra strada nel mondo. Mi piace fare questi personaggi proprio perché sento che socialmente sono vicina a certe donne e a certi uomini.
Sovente nella tua carriera hai interpretato ruoli di madri imperfette o, per dirla come si usa nel cinema, di femmine folli: penso alla Donatella de La pazza gioia ma anche alla Serena di Anni felici.
Sì, è vero nel film di Daniele Luchetti lei addirittura scappa di casa. Comunque è vero che interpreto spesso donne molto tormentate.
Nel farlo sembra che tu ti abbandoni al personaggio. In Naufragi, per esempio, Micaela Ramazzotti diventa talmente Maria da farmi pensare che oltre a un interesse artistico da parte tua ci sia un empatia particolare verso un certo tipo di umanità.
Beh, certamente ho un’inclinazione nel fare personaggi un po’ bizzarri (ride, ndr) e pasticcioni ma anche imprevedibili stravaganti e fantasiosi perché alla fine questi sono sempre un po’ in lotta con la loro parte interiore. In realtà si tratta di donne che vanno alla ricerca della loro emancipazione e nei film li colgo proprio in quel preciso momento. Se penso ad Anni felici, mi viene in mente il momento in cui lei decide di partire per buttarsi in un altro tipo di relazione amorosa, quella con la donna interpretata da Martina Gedeck, grandissima attrice tedesca. Dunque la incontriamo in un percorso di emancipazione, cosa che capita anche ne Gli anni più belli.
Il mio personaggio è una giovane orfana alla ricerca non tanto di un amore quanto piuttosto di qualcuno che le possa dare una casa e una famiglia. Addirittura nella parte napoletana subisce schiaffi botte dal suo uomo pur di avere un nucleo familiare in cui stare. Poi, però, scappa alla ricerca dell’amore e alla fine riesce a emanciparsi, aprendo anche un caffè. Così succede anche a Maria, intercettata in un momento in cui probabilmente la immagino reduce da numerose cure cliniche.
Quando, a circa metà film, c’è questo passaggio di tempo, penso che magari si sia curata, cercando di costruirsi una corazza che le impedisca di pensare perché lei è come se fosse morta: nel motel è viva, ma è come se vivesse il silenzio della morte. Poi, però, la curiosità verso quest’altra donna la porta ad alzare lo sguardo verso gli altri per capire che, come lei, forse anche altre persone sono nella sua stessa condizione. Guardare gli altri spesso aiuta a prendere coscienza, a crescere o almeno a incuriosirsi della vita. I miei personaggi li colgo sempre durante il processo di crescita.
Il percorso di Naufragi
In questo senso Naufragi è quasi un romanzo di formazione perché di fatto Maria, che all’inizio sente di non essere all’altezza del suo ruolo di madre, compie un percorso di consapevolezza anche molto doloroso, facendo i conti con sé stessa come spesso capita ai tuoi personaggi. Succede anche qui perché a lei non basta essere scagionata dalla legge ma ha bisogno di vivere questa trasformazione all’interno della sua esistenza e attraverso l’esperienza che la mette in gioco, assumendosi la responsabilità nei confronti del prossimo.
Sì, hai ragione, una grande presa di coscienza e insieme una crescita. Maria purtroppo nasce già con una problematica importante e, durante il film, la vita con lei non è per nulla generosa. Detto questo il film è pervaso da una grande speranza che permette alla protagonista di sopravvivere al lutto e addirittura di riprendere i contatti con la realtà. Insomma si tratta di un personaggio molto complesso dal punto di vista psichico però questo rende il film più bello e interessante. Maria per me è stato anche nuovo come personaggio perché è parte di un film dove la parola non è essenziale e molto dipende dalle immagini.
Non vedo l’ora di portarlo al cinema insieme al regista perché Naufragi va visto in una grande sala per poter apprezzare suoni e immagini in cui si vede il cielo e questa città portuale ripresa in una maniera tale da non permettere di capire dove sono veramente collocati i personaggi. La riuscita del film dipende anche dall’aver lavorato di sottrazione, di aver tenuto molto dentro, evitando l’over acting, e dando spazio ai piccoli gesti. Sul set facevamo cose anche banali e semplici che però, poi, viste per la prima volta sullo schermo, mi sono piaciute tantissimo. Io generalmente sono molto critica con me stessa, forse anche troppo, però una volta spente le luci si sono spente. Fin da subito sono stata molto contenta di quello che avevamo fatto, Stefano è un grande regista. La sua poesia gli permette di raccontare il mondo con questo suo stile asciutto ed essenziale.
In Naufragi c’è una forte ricerca di realismo che si evince da com’è stato girato, con movimenti di macchina che sembrano rubare il tempo alla vita. Per contro, il film si carica di una poesia che fa della vicenda di Maria una storia simbolica e universale. Basterebbe pensare a come la mdp riesce a sintonizzare il paesaggio, e in particolare il mare, con la condizione dei personaggi. E, ancora, alla scena finale, in cui l’acqua nella quale sono immerse Maria e Rakia diventa il simbolo della loro rinascita. Stiamo parlando di un film stratificato da assonanze e riferimenti che contribuiscono non poco al senso della storia.
Sì, è vero, ma Stefano è stato bravissimo. Lui aveva già tutto in mente. La mattina parlavamo molto su come volevamo fare le scene della giornata. Ci scambiavamo i nostri pareri e, così facendo, ogni volta costruivamo un pezzetto, inventando anche delle cose non scritte nel copione, ma venuteci in mente sul momento. Stefano mi diceva che si poteva inserire qualcosa a proposito di Maria, a me venivano in mente altri dettagli e dall’unione dei due intenti trovavamo la soluzione più adatta. Questo per dire che in un film del genere è molto importante la qualità del rapporto che si instaura con il regista. Per me, poi, è importante capire il tono della storia. Se leggendo la sceneggiatura riesco a stare all’interno del suo tono capisco di poter fare quel personaggio. Al contrario, se sento che non sono adatta, piuttosto preferisco non farlo.
Le interpretazioni di Micaela Ramazzotti
Micaela Ramazzotti è una delle poche attrici che, nelle sue interpretazioni, riesce a trovare un equilibrio tra profondo dolore e grande voglia di vivere. Se uno de due elementi sfuggisse a questa regola i personaggi diventerebbero inverosimili ed esagerati mentre i tuoi sono il più delle volte morbidi e leggeri, anche in situazioni drammatiche
Ti ringrazio per quello che dici. Io penso che il dolore e la voglia di vivere siano complementari. Nella vita tutti noi oscilliamo sempre tra momenti di grande euforia ed entusiasmo e altri in cui ci sentiamo più malinconici. Anch’io spesso sono così: siamo fatti a onde e secondo me è bello raccontarlo perché non siamo solo in un verso. Sarebbe strano se così non fosse, mentre la vita è fatta di alti e bassi che appartengono alla natura umana e che, per questo, provo a raccontare. Dopo la pandemia tutti quanti abbiamo rimesso in discussione tante cose, vivendo momenti in cui eravamo quasi sollevati dal fatto di essere un po’ lontani dalle pressioni lavorative. Allo stesso tempo volevamo ritornare a uscire, in una continua alternanza tra malinconia ed euforia. Questo a proposito di alti e bassi.
Nel tuo modo di essere attrice si sente una forte componente ludica, nel senso che anche nei ruoli più seriosi, quelli con pettinature e abbigliamenti stilizzati e composti in maniera rigorosa – e parlo di film come Ho ucciso Napoleone e Una storia senza nome – alla fine fai percepire tale giocosità.
Sì, sempre un po’ giocoso, assolutamente, perché per me recitare significa comunque giocare. Poi in Una storia senza nome e in Ho ucciso Napoleone è vero che c’era un’estetica molto rigida e che da questa usciva fuori un sentimento ludico. Non ci avevo mai pensato prima però è vero, probabilmente è una cosa inconsapevole (ride, ndr).
Stefania Sandrelli e Anna Magnani. Nella carriera di Micaela Ramazzotti ci sono stati spesso dei ruoli in cui mi hai ricordato queste due grandi attrici.
Grazie, è davvero un bel complimento, magari fosse così. Però è vero che sono cresciuta con i loro film, penso di averli visti tutti. Peraltro in La prima cosa bella ho avuto la fortuna di interpretare lo stesso personaggio (Anna Michelucci, ndr) di Stefania Sandrelli. Si è trattato di un regalo meraviglioso perché per farlo ho guardato tutti i suoi film, le sue interviste, la sua maniera di muoversi e di parlare, il suo modo di girare la testa, perché come lo fa lei non lo fa nessuno. Il suo è un gesto pieno di grazia e di bellezza che sprigiona poesia. Insomma, per la mia generazione, i film di Anna Magnani e di Stefania, così come di Monica Vitti e Silvana Mangano, sono un riferimento imprescindibile. Mi sono nutrita di tutto questo ben di Dio, dei loro capolavori e di quelli di registi come Risi, Monicelli e Scola.
Le conclusioni di Micaela Ramazzotti
Peraltro il personaggio di Maria a me ha ricordato la Grazia di Valeria Golino in Respiro e ancora la Betty Blu interpretata da Beatrice Dalle.
È vero, sì, non ci avevo pensato, hai ragione. In realtà non avevo pensato a loro, bensì alla Gena Rowlands di Una moglie, diretto da John Cassavetes. È un’attrice che mi piace davvero tanto e a cui guardavo ma non mentre giravamo. Sul set infatti sono cresciuta insieme al mio personaggio, cercando di trovare una chiave nuova per raccontare una donna piuttosto instabile e con una grande paura di vivere. Mentre giravamo non avevamo punti di riferimento perché li stavamo trovando in corso d’opera. C’è da dire che dopo una settimana di riprese siamo riusciti a trovarli per cui siamo andati avanti con quelli fin da subito.
Parlando di Gena Rowlands e John Cassavetes non posso non chiederti quanto c’è di improvvisazione nel tuo flusso cinematografico.
Beh, sai, io studio molto il copione. Se ho la possibilità di averlo mesi prima dall’inizio delle riprese gli dedico molto tempo per farlo diventare mio nel profondo. Devo sapere le battute a memoria parecchio tempo prima, devo poterci pensare durante le mie giornate. In qualche modo è come se cercassi di incontrarlo per strada, a volte desidererei incontrarlo per davvero (ride, ndr). Anche se questo non succede, a volte rubo dalla realtà e dalle persone che mi circondano o che incrociano la mia strada. Poi, quando sono in scena, ho a fuoco tutto quello che sta attorno a me, compresa la macchina da presa. Sono tanti anni oramai che faccio questo lavoro quindi non perdo di vista il punto macchina, le persone che ho intorno.
Nel caso di Naufragi mi trovavo spesso da sola, però quando c’erano i bambini sapevo benissimo tutti i percorsi che dovevo fare. Poi se c’è il film giusto per poterlo fare cerco di lasciarmi andare anche alla creatività del set. Non lo si può fare in molti film perché poi tanti di questi sono molto costruiti, per cui magari mi capita di interpretare una scena in maniera esemplare che poi viene bocciata perché non buona per il fuoco. Quando invece la mdp è lontana, quando c’è il teleobiettivo e sono libera di muovermi in campo aperto, allora lì, secondo me ho la possibilità di divertirmi. A Stefano dicevo sempre di dirmi se facevo troppo.
Generalmente però è tutto molto costruito: a teatro sei solo tu che porti in scena quel personaggio mentre nel cinema hai tante persone intorno a te, dunque quando fai quella performance devi farla bene per la macchina, per il suono, per i tuoi colleghi, insomma, la battuta deve essere precisa. Per questo l’improvvisazione c’è quando è possibile. A me piace farlo perché adoro essere imprevedibile anche nei confronti di chi mi sta dirigendo per cui ogni tanto una cosa non prevista cerco di metterla dentro la mia recitazione.
Naufragi mi sembra un film molto attuale, soprattutto nel suo movimento interno. Esso infatti è diviso in due parti: la prima, claustrofobica, concentrata all’interno della famiglia; la seconda, invece, aperta al mondo con le ansie e le paure che questo comporta. Una lettura che lo fa assomigliare a quello che è successo durante la pandemia in cui alla costrizione e all’isolamento della prima fase è subentrato lo spaesamento motivato dall’insicurezza di tornare a fare una cosa a cui non eravamo più abituati.
Abbiamo girato la prima parte del film prima che l’Italia fosse chiusa a causa del covid, mentre la seconda, quella in cui Maria e Rakia s’incontrano nel motel all’interno del quale loro due mantengono una sorta di distanziamento, l’abbiamo girata a giugno ed è stato il primo set a riprendere dopo la fine del lockdown. In effetti sì, come dici tu, i sentimenti presenti nel film hanno a che fare con quello che ci è successo.
Senza nessuna retorica né enfasi, sento che è stato un lavoro sulla sottrazione, sull’assenza, su un vuoto essenziale; scarno e aspro, ma traboccante come sa essere la vita. Posso dire che mentre lo giravo mi sono molto divertita. Il suo racconto si pone in direzione della statura umana dei suoi personaggi volendo indagarne l’anima. Poi ci sono cose che si intrecciano: c’è il disagio psichico, ci sono i rapporti familiari. il senso di colpa, la possibile elaborazione del lutto, il frantumarsi dei rapporti umani e anche il loro ricostituirsi sotto forme diverse. Insomma, Naufragi è un film sul dolore sullo smarrimento che ne consegue.