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Il bilancio della 74a edizione del Festival del Cinema di Cannes

La rassegna di chi vince e chi delude tra lunghi applausi, delusioni e commozione.

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bilancio cannes 2021

La 74a edizione del Festival di Cannes è giunta a conclusione dopo dodici giorni (dal 6 al 17 luglio), in cui si è tornati a respirare e godere di ottimo cinema sulla Croisette dopo l’astinenza forzata del 2020 causata dalla pandemia. Come ogni cosa che giunge al termine, è tempo di fare un bilancio di quanto visto sul grande schermo dei sette teatri, che a Cannes hanno ospitato le opere in concorso. Ed ecco, quindi, il bilancio di Cannes 2021.

Nel complesso positivo il bilancio di Cannes 2021

Annette apre il Festival senza deludere

Il Festival si è aperto sulle note del musical drammatico, Annette, primo film in lingua inglese diretto dal regista francese Leo Carax. Il film era molto atteso e, alla fine, non ha deluso, nonostante sia stato al centro di una serie di contrattempi ed avvicendamenti nel cast, che hanno fatto temere il peggio per la riuscita. I protagonisti, Adam Driver e Marion Cotillard, interpretano rispettivamente un cabarettista dall’ego smisurato e una cantante lirica di fama internazionale, che si innamorano.

cannes 2021

La storia d’amore, che si avvera tra realtà e fantasia e su cui nessuno avrebbe mai puntato, dura fino a collassare quando nasce Annette, la loro “bimba/bambola” prodigio. Il film esalta l’anima oscura dello spettacolo da palcoscenico tra la ferocia dei media, i flash di fotografi affamati di celebrità e l’interpretazione che perde peso a sipario alzato, ma finisce per ritrovare respiro nella musica del gruppo rock americano degli Sparks.

La catarsi di Navad Lapid in Ha’Berech

Il regista israeliano Navad Lapid porta a Cannes il film Ha’Berech (titolo in inglese Ahed’s Knee). La pellicola è volutamente personale. Scritta a un mese dalla morte della madre Era, sua fidata collaboratrice, la sceneggiatura è stata girata in soli diciotto giorni contando su un budget ridottissimo.

Da una scena del film, la disperazione del regista Y. (Avshalom Pollak).

Onesto, diretto e brutale, il film racconta l’esperienza dell’israeliano Y. (Avshalom Pollak), regista quarantenne dissidente, giunto in un villaggio sperduto nel deserto del Negev per presentare il suo ultimo lavoro. Qui, assieme al dolore per la perdita della madre, scopre gli intrallazzi di un paese prigioniero di se stesso, la cui libertà è destinata a morte certa. Come recita il monologo finale dell’uomo in cima al monte. Il regista pluripremiato ed acclamato dalla critica negli ultimi anni scrive e dirige un film intimo nato dalla necessità fisica di elaborare un doppio lutto personale.

Successo per Tout s’est bien passé di François Ozon

Tout s’est bien passé del regista francese François Ozon è un melodramma intenso, interpretato da un’eccellente Sophie Marceau nel ruolo di Emmanuéle. La donna è la figlia dell’ottuagenario collezionista d’arte André Bernheim (André Dussollier), che, rimasto paralizzato dopo un ictus, desidera morire per suicidio assistito, piuttosto che vivere per sempre un’esistenza umiliante. Tuttavia, la vitalità negli occhi dell’uomo e il carattere pungente rendono difficile una presa di posizione da parte della giovane, il cui rapporto con il padre è sempre stato spinoso. La richiesta paterna è spiazzante.

Da una scena del film girata in ospedale, da sinistra Emmanuèle (Sophie Marceau) con il padre André (André Dussollier).

La scelta etica che la figlia è chiamata a fare perde d’intensità a favore dell’esplorazione della relazione diadica padre/figlia, ben interpretata dai due attori francesi. Adattamento semplice e intelligente condito da inaspettate punte di tenerezza dell’omonimo romanzo della scrittrice Emmanuèle Bernheim, il film non annoia mai. Il cast completato da Charlotte Rampling, nel ruolo della madre Claude, e da Géraldine Pailhas, l’altra figlia Pascale, è un ritratto familiare tinto di segreti presto rivelati, che è interpretato davvero bene.

Tanto coraggio e tecnica cinematografica per Lingui

Entusiasmo e applausi per Lingui, The Secret Binds la produzione franco-germano-belga-chadiana del regista Mahamat-Saleh Haroun, in cui si racconta la difficile quotidianità delle donne del Ciad, spesso lasciate sole a crescere i propri figli ai margini della società. Il film si pregia di lunghi e meditativi silenzi, di una cinematografia straordinaria, nitida e dai colori vividi, che valorizzano la storia di Amina (Achouackh Abakar Souleymane), una madre, che vive a N’Djamena con la figlia quindicenne Maria (Rihane Khalil Alio), rimasta incinta.

lingui

Da una scena del film, la giovane Maria con la madre Amina.

Il film affronta la calda tematica dell’aborto, considerata reato nel paesevergogna per la religione, ma che è ugualmente perpetrato di nascosto in nome di un legame, il cosidetto lingui, che rappresenta un profondo senso di solidarietà tra donne. Il pubblico di Cannes ha riconosciuto il coraggio del regista. Molto buona la performance del collettivo tutto al femminile per questo “film da festival”.

La piacevole sorpresa del norvegese Verdens Verste Menneske

Verdens Verste Menneske (titolo in inglese The worst person in the world), dark romantic comedy in dodici capitoli del regista norvegese Joachim Trier è la sorpresa del Festival di quest’anno.

The worst person

Da una scena del film,

Julie (Renate Reinsve) è una trentenne anticonformista, che non sa cosa vuole dalla vita. Il film racconta la vita imperfetta di questa giovane, che si dipana tra cuori spezzati, conseguenza di scelte sbagliate, e aspettative disattese. Julie è davvero dipinta come “la persona peggiore che esista al mondo”. L’originalità del film sta nella caratterizzazione di una donna, i cui comportamenti sono anti-canonici per il genere. Ogni scelta ha delle conseguenze e la vita presenterà il conto alla fine. Il film è birichino e, per questo, piace.

Flop inatteso per lo scabroso Benedetta di Paul Verhoeven

Era grande l’attesa per lo scandaloso Benedetta del regista olandese Paul Verhoeven, dramma in costume basato sulla vera storia di Benedetta Carlini, suora vissuta nel XVII secolo, punita per il proprio orientamento sessuale considerato deviato. Il film espone il tabù di una relazione omosessuale tra due novizie Benedetta (Virginie Efira) e Bartolomea (l’esordiente Daphné Patakia), che si desiderano in un’atmosfera fatta di tradimenti, l’ipocrisia cristiana e la moralità ambigua della badessa Suor Felicita (una magnifica Charlotte Rampling).

Benedetta

Da una scena del film, la novizia esperisce l’orgasmo sotto la lunga veste circondata dalle consorelle.

Le scene di nudo e sesso quasi animalesco non contribuiscono a rendere l’erotismo di questa relazione, che diventa più efficace quando solo alluso. La ricca produzione di stampo hollywoodiano rasenta toni camp tra i veli e le candele accese di una messa in scena, che può arrivare a offendere una parte di pubblico. Flop inatteso.

Responsi discordanti per La Fracture di Catherine Corsini

Attuale nei temi, La Fracture, diretto dalla regista francese Catherine Corsini, è ambientato a Parigi in piena protesta dei Gillet Gialli. La borghese Raf (Valeria Bruni Tedeschi) fa coppia da dieci anni con Julie (Marina Foïs), ma il loro amore è arrivato al capolinea. A causa di un banale incidente, Raf si procura una frattura al gomito. Durante il suo ricovero in ospedale, incontra Yann (Pio Marmaï), un camionista rimasto ferito durante gli scontri con la polizia.

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Da una scena del film, Raf (Valeria Bruni Tedeschi) e Julie (Marina Foïs) nel pronto soccorso dell’ospedale in attesa di cure.

I due, poli opposti della società francese, si confrontano in un pronto soccorso sovraffollato, con il personale in sciopero e preso d’assedio a seguito delle violenze durante le dimostrazioni. La tensione sociopolitica della Francia degli ultimi anni percorre il film dall’inizio alla fine. Momenti divertenti sbucano inaspettati dalla performance della Bruni Tedeschi, che regala attimi di strano e nevrotico intrattenimento. Tuttavia, la sceneggiatura perde progressivamente di mordente. Il set dal sapore apocalittico è esagerato e il tono sfocia in un pesante paternalismo. Peccato.

Compartment n°6, road movie del finlandese Juho Kuosmanen

Basato sull’omonimo romanzo del 2011 scritto da Rosa Liksom, Compartment n°6 è un dramma girato in Russia e ambientato nel 1996. A bordo di un treno, Laura (Seidi Haaria), una studentessa finlandese appassionata di archeologia, parte da Mosca da sola senza la compagna e socialité Irina (Dinara Drukarova) per un viaggio alla scoperta delle famose pietre della città di Murmansk. Durante il viaggio, è costretta a condividere lo scompartimento n°6 con Ljoha (Yurij Borisov) un minatore russo volgare, a cui piace alzare il gomito. Arrivati a destinazione, il cammino dei due si intreccia inaspettatamente.

Da una scena del film, Laura (Seidi Haaria) e Ljoha (Yurij Borisov) iniziano a conoscersi a bordo del treno.

La timida pellicola ha bisogno di tempo, ma viene fuori piano piano, se lo spettatore sa attendere. Le differenze tra questi due individui, apparentemente così diversi ed invece estremamente simili all’occhio attento, non sono giocate sull’onda del sentimentalismo, ma della trasparenza ed onestà d’animo. Il tutto è confezionato in uno spazio angusto, in cui la macchina da presa ha saputo navigare agilmente senza rendere la difficoltà delle riprese in spazi così ristretti e per così tanto tempo. Un film da vedere.

11 minuti di applausi per Tre Piani di Nanni Moretti

Nanni Moretti torna a Cannes dopo una lunga assenza con il film Tre Piani, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo dello scrittore israeliano Eshkot Nevo. Undici minuti di applausi a conclusione della première hanno sancito il trionfo di una pellicola, che racconta i drammi di tre nuclei familiari italiani, che vivono su piani diversi della stessa palazzina.

Da una scena del film, da sinistra Vittorio (Nanni Moretti), Dora (Margherita Buy), Giorgio (Adriano Giannini) e Monica (Alba Rohrwacher) con l’ultimo nato in braccio.

Vittorio (Nanni Moretti) e Dora (Margherita Buy), sono due giudici di successo, ma anche genitori falliti del figlio Andrea (Alessandro Sperduti), condannato per omicidio stradale e per questo ripudiato.

Lucio (Riccardo Scamarcio) e Sara (Elena Lietti) vivono con la figlia Francesca. Molto legati alla coppia di anziani, che abita sullo stesso pianerottolo, finiscono per denunciare l’anziano smemorato per sospetto abuso sessuale ai danni della bambina, con la quale si era allontanato.

Infine, Monica (Alba Rohrwacher) è una moglie incinta, trascurata e insoddisfatta del proprio matrimonio con il marito Giorgio (Adriano Giannini), sempre all’estero per lavoro.

Il genio del film è quello di esemplificare, attraverso tre personaggi chiave – Lucio, Monica e Vittorio -, la teoria psicoanalitica freudiana per cui ognuno di noi deve fare i conti con gli impulsi incontrollabili dell’Es, i tentativi di mediazione di un Io sospeso tra istinto e censura ed un Super Io, che impone controllo e divieti in un mondo in cui la speranza è unica prerogativa femminile.

Il giapponese Drive my car potrebbe sbancare

Basata sulla storia breve L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio scritta nel 2013 da Marumaki Haruki, il regista giapponese Hamaguchi Ryusuke presenta Drive my car, un viaggio in macchina/film di oltre due ore. Il protagonista è Yusuke Kafuku (Nishijima Hidetoshi), attore e regista teatrale, vedovo da poco della sceneggiatrice Oto (Reika Kirishima), morta prematuramente portandosi un segreto nella tomba. Inconsolabile, l’uomo cerca di trovare sollievo nella regia di uno spettacolo, che dovrà allestire ad Hiroshima. Al volante della sua vecchia Saab rossa, che lo porterà al festival, c’è la taciturna Misaki (Tōko Miura). La giovane gli fa da chaffeur lungo tutto il tragitto.

Da una scena del film, Yusuke Kafuku (Nishijima Hidetoshi) è a bordo della macchina guidata da Misaki (Tōko Miura), che lo porterà a Hiroshima.

La pellicola giapponese potrebbe ricevere la Palma d’Oro 2021 per essere un progetto tecnicamente ben concepito, ambizioso al punto giusto, allo stesso tempo semplice e per nulla pretenzioso, ma ricco di angoscia da vivere a pieno stomaco per poter essere superata. E’ un viaggio che vale la pena intraprendere per i personaggi, gli attori ed il pubblico.  

Tra realtà e fiction con la “benedizione” di Bergman

Buon esordio in lingua inglese per la regista francese Mia Hansen-Løve con il film Bergman Island. Nel film, una coppia di registi americani, Chris (Vicky Krieps) e Tony (Tim Roth), si trasferisce per l’estate a Fårö, piccola isola svedese del Mar Baltico, famosa per essere stata il buon retiro del loro idolo Ingmar Bergman.

Da una scena del film, Chris e Tony.

Qui, tra paesaggi mozzafiato, i due cercano ispirazione per il loro prossimo lungometraggio. Il film ruota attorno al personaggio di Chris, che, sopraffatta dal fascino dell’isola e dai ricordi delle sue prime esperienze amorose, si allontana emotivamente dal marito. Bergman Island non è un omaggio al Bergman regista, ma ai luoghi che hanno visto germogliare il suo cinema. La storia nella storia è, a tratti, delicata, ma finisce per tingersi di toni sardonici e tanta amarezza. Il buon Bergman avrebbe probabilmente approvato.

Eccessivo, Petrov’s Flu, il science fiction di Kirill Serebrennikov

Petrov (Semyon Serzin) è un fumettista/meccanico che vive un’esistenza apparentemente ordinaria assieme alla moglie Petrova (Chulpan Khamatova), una noiosa bibliotecaria, che di notte si trasforma in vigilante assassina. Vivono nella quiete della cittadina russa di Yekaterinburg. Come la moglie, anche Petrov conduce una doppia vita tra alcol, poca cura di sé e follie notturne.

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Da una scena del film, Petrova (Chulpan Khamatova) ed il marito Petrov (Semyon Serzin)assieme al figlio nella dell’ordinarietà e tristezza della loro dimora.

Petrov’s Flu, il science fiction russo diretto da Kirill Serebrennikov, è decisamente troppo lungo. I tratti volutamente confusi e surreali complicano la trama. La decisione di contestualizzare la storia durante una pandemia fittizia è inutile. Crimine e corruzione esistono a prescindere. I pochi momenti esilaranti, che consentono ad un pubblico boccheggiante di respirare brevemente per tornare poi ad esperire una cinica apnea, non bastano. Questo cupo ritratto fantascientifico della vita nella Russia moderna onestamente impensierisce.

Mezzo passo falso per Sean Penn con Flag Day

Flag Day, dramma diretto da Sean Penn e basato sull’autobiografia di Jennifer Vogel dal titolo Flim-Flam Man: The True Story of My Father’s Counterfeit Life, è uno dei film che rappresentano il cinema americano a Cannes quest’anno.

La pellicola racconta la vita (tra il 1975 ed il 1992) di John Vogel, padre amorevole, ma truffaldino incallito, attraverso gli occhi della figlia Jennifer (Dylan Penn). La giovane, che vive con il fratello Nick (Hopper Penn) e la madre, che annega il dispiacere per l’abbandono del marito nell’alcool, ama suo padre nonostante tutto e ormai cresciuta cerca di redimerlo.

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Da una scena del film, Jennifer (Dylan Penn) ed il padre John Vogel (Sean Penn).

Se la scelta del regista, ricaduta sui propri figli Hopper e Dylan, e, soprattutto su quest’ultima, appare riuscita, il passo falso di Penn sta nell’aver voluto strafare. Forse, se egli si fosse dedicato esclusivamente alla regia di questa storia, che ha voluto a tutti i costi portare al cinema, il peso delle relazioni reali e fittizie tra i protagonisti non avrebbe viziato la riuscita di questo film, la cui storia meritava di più.

Lo stile inconfondibile di Wes Anderson in The French Dispatch

Impossibile confondere la regia di The French Dispatch, espressione dell’estro dell’americano Wes Anderson dall’inizio alla fine. Il film è definito “lettera d’amore al giornalismo ed ai giornalisti”, ma forse è da considerarsi più un tributo al genio de The New Yorker, rivista di successo a stelle e strisce, che il regista ama e da cui non nega di aver tratto ispirazione.

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Riconoscibili i volti degli attori Tilda Swinton, Lois Smith, Adrien Brody, Henry Winkler e Bob Balaban. Photo Courtesy di Searchlight Pictures. © 2020 Twentieth Century Fox Film Corporation. Tutti i diritti riservati.

The French Dispatch si fregia di un cast stellare. Come ogni film di Anderson dalla trama complessa e ben articolata, lo stile esagerato ed eccentrico, caratterizzato da gag divertenti e composizioni visive ambiziose, piace o no. Bianco o nero. Non c’è via di mezzo per questa vicenda in cui si riportano tre storie di cronaca da prima pagina per il supplemento francese al Kansas Evening Sun. I sentimenti sulla riuscita della pellicola sono polarizzati. C’è chi sostiene che potrebbe essere il miglior film realizzato dal regista fino ad ora e chi lo considera come il suo peggior fallimento.

Thumb up per Ghahreman dell’iraniano Asghar Farhadi

Il regista e sceneggiatore iraniano Asghar Farhadi, un habitué a Cannes, presenta Ghahreman (titolo in inglese A Hero), un film bello e pulito ricco di onestà, che ruota attorno alla figura di Rahim (Amir Jadidi), disoccupato ed incarcerato per un debito non saldato. Durante due giorni di libera uscita, scopre che la fidanzata Farkhondeh (Sahar Goldust) ha trovato una borsa piena di monete d’oro, che gli sarebbe senz’altro utile per uscire dai guai. Decide, però, di comportarsi da gentiluomo e restituisce il bottino. Per il suo atto, Rahim è salutato come un eroe.

Ghahreman

Da una scena del film, l’eroe Rahim (Amir Jadidi) tiene per mano il figlio. E’ appena uscito di prigione e non sa ancora di essere un vero eroe soprattutto per il suo bambino.

La pellicola iraniana è un esempio di art film, oggi in pole position per aggiudicarsi la Palma d’Oro. In questo film, in cui il prezzo della libertà è altissimo, e per questo non trattabile, l’onore e il rispetto di un uomo per se stesso vincono su tutto. Rahim è un personaggio ingenuo, che non sa districarsi tra compromessi e bugie. Ottima la cinematografia di un film da gustare, che riserva continue sorprese.

Titane, l’esperimento difficile di Julia Ducournau

Il film franco-belga Titane di Julia Ducournau è una mescolanza di generi. Spazia dall’horror al dramma, dall’ossessione per i motori dei film a quattro ruote fino al thriller. Costato sei milioni di dollari, il film ruota attorno ad Alexia (Agathe Rouseelle), ragazza che finge di essere Adrien, un bambino rapito dieci anni prima. Ormai diventata/o adulta/o ed ora libera/o, ritorna a casa dal padre Vincent (Vincent Lindon), che in tanti anni non si è mai arreso alla perdita del figlio. Il ritrovamento di Alexia/Adrien coincide, però, con una serie di misteriosi omicidi perpetrati nella zona, su cui egli deve indagare.

Titane

Da una scena del film, il flashback in cui il piccolo Adrien la scena spiega il titolo del film.

Il film sciocca i più, ma è una delizia per gli amanti del cinema di Julia Ducournau. Un film indiscutibilmente cinematico, psichedelico e ricco, forse anche troppo ricco di significato e per questo non facile. La messa in scena assale gli occhi dello spettatore, che, intimorito, fa fatica ad arrivare alla fine delle due ore. Tuttavia, si consiglia.

Red Rocket, apprezzata la dark comedy di Sean Baker

Il pubblico in sala ha riservato un lungo applauso alla fine della première di Red Rocket, la commedia drammatica di Sean Baker, in cui un energetico e loquace Mikey Saber (Simon Rex), ex-attore di film per adulti, torna in Texas dalla California non avendo altre prospettive.

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Da una scena del film, Mikey Saber (Simon Rex) si gode il suo ritorno a casa in Texas.

Qui, incontra Raylee (l’esordiente Suzanna Son), in arte Strawberry, giovane dai capelli rossi, che lavora come cassiera in un negozio di ciambelle. Pronto a fare il salto di qualità nel management del cinema per adulti, Mickey dispensa bugie ed inganni. Manipola la ragazza facendole credere di poter diventare una star.

Il film piace perché ruota attorno a un personaggio maschile diverso, buffo e bugiardo, nevrotico e incontrollabile, che diverte con i suoi comportamenti assurdi. Il film rappresenta una bella novità, ma i 128 minuti della pellicola sono forse un pochino troppi.

Buco nell’acqua per The Story of My Wife di Ildikó Enyedi

Esordio difficile per la regista ungherese Ildikó Enyedi e il suo The Story of My Wife, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo pubblicato nel 1942 dallo scrittore Milán Füst.

the story of my wife

Da una scena del film, da sinistra, Lizzy (Léa Seydoux) ed il marito Jacob (Gijs Naber) a teatro con l’amico di lui Dedin (Louis Garrel).

Ambientata nella Parigi degli anni ’20, la travagliata relazione tra Jakob (Gijs Naber), capitano di un mercantile, e l’affascinante moglie Lizzy (Léa Seydoux) è scandita da paure e gelosie, che a lungo andare stancano. La scommessa iniziale, su cui si basa il matrimonio tra i due, è fallimentare tanto quanto le lunghe sequenze in cui l’uomo spia la donna. Le scene mancano di quel tocco sofisticato, che il melodramma richiede, mentre la recitazione risulta poco verosimile per un cast internazionale chiamato a recitare in una lingua diversa dalla propria.

L’amore moderno ne Les Olympiades di Jacques Audiard

Jacques Audiard realizza Les Olympiades, un film che racconta la visione dell’amore moderno attraverso le esperienze di vita di Emilie (Lucie Zhang), ragazza cinese impiegata in un call center, infatuata del nuovo affittuario Camille (Makita Samba), un affascinante insegnante afro-francese. L’uomo, però, si invaghisce di Nora (Noemie Merlant), studentessa-lavoratrice e vittima di revenge porn, che a sua volta si lega ad Amber Sweet (Jehnny Beth), giovane che si guadagna da vivere con porno chat.

Da una scena del film, Emilie e Camille in cima ad uno dei dodici grattacieli del quartiere, Les Olympiades.

Questo dramma, ispirato alla collezione di racconti a fumetti Killing and Dying creati da Adrian Tomine, è ambientato a Parigi nel quartiere de Les Olympiades, in cui svettano dodici altissime torri residenziali. Qui vivono i protagonisti. Lo spaccato di vita di questi quattro giovani è difficile da guardare tanto per la drammaticità che per l’attualità delle esperienze in cui sono coinvolti. La scelta del bianco e nero rende il film crudo, ruvido e, per questo, interessante.

Intensa l’esperienza creata da Apichatpong Weerasethakul in Memoria

Memoria del regista tailandese Apichatpong Weerasethakul è ambientato in Colombia. Qui, Jessica (Tilda Swinton), una scozzese, vittima di un trauma, che le ha causato una sindrome sensoriale acuta all’udito, visita la sorella che vive a Bogotà. In città, conosce Agnès (Jeanne Balibar), un’archeologa, che studia i resti umani ritrovati durante i lavori di scavo per la realizzazione di un tunnel. Jessica fa degli incontri, che la portano ad una insperata chiarezza e calma mentale.

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Da una scena del film, Jessica (Tilda Swinton) immersa nei pensieri e in emozioni sempre troppo forti per lei da sopportare.

Il film è puramente intellettuale. Ipnotica è la necessaria lentezza del ritmo cinematografico di questa sceneggiatura, che diventa quasi intollerabile nel momento in cui gli spettatori si agitano per trovare una posizione comoda nelle poltroncine immerse nel buio della sala non potendo gestire ed intervenire su un animo, che si sente estremamente a disagio. Un disagio fortemente desiderato dal regista.

France di Bruno Dumont non piace

Il film France del regista francese Bruno Dumont è la storia di France de Meurs (Léa Seydoux), ricco volto di una rete televisiva francese, la cui carriera da reporter da zone di guerra e prima donna nei dibattici politici in TV è in continua ascesa. Il successo svanisce quando la giornalista causa un incidente stradale con la sua macchina e investe lo scooter di un pover’uomo (Jawad Zemmar). La donna cerca il proprio riscatto.

Da una scena del film, France de Meurs si trova in una zona di guerra.

Tecnicamente ben realizzato, ma ripetitivo, lungo e privo di una visione d’insieme, il film di Dumont delude, perché non suscita poi granché nella platea. Il ritratto della star, vittima e carnefice del piccolo schermo, che, dagli altari, finisce nella polvere, è interessante, ma è dipinto in modo troppo freddo e superficiale. Il film può capitalizzare qualcosa al botteghino solo puntando sullo star status della bella Léa Seydoux. Ma nulla più.

Buone le chance del marocchino Haut et Fort di Nabil Ayouch

Il lungometraggio marocchino Haut et Fort (titolo in inglese Casablanca Beats) di Nabil Ayouch segue l’ex-rapper Anas (Anas Basbousi), che lavora come insegnante in un centro culturale di Casablanca. L’uomo incoraggia il cambiamento sociale stimolando i propri studenti ad esplorare le proprie passioni e ad esprimersi liberamente in barba a tradizioni costrittive ed un sistema castrante.

Haut et fort

La locandina del film marocchino.

La pellicola, ricca di riferimenti tratti dalla biografia dello stesso regista, è potente per il suo crudo realismo. A suon di musica rap ed hip pop, graffiti e balli scatenati la sfida dei giovani contro il sistema vigente è innescata. Haut et fort ha più di una chance di vincere la Palma d’Oro, perché si affida a un cast giovane e puro, che crede nel potere della musica, dei sentimenti e delle sensazioni per portare avanti una battaglia di libertà, che non necessita di armi per essere vinta.

Nitram, un film per non dimenticare la storia recente

Tra tutti i film in concorso, Nitram è forse il più duro, un vero cazzotto allo stomaco, di quelli che lasciano senza fiato. Il film si ispira alla carneficina di Port Arthur in Tasmania tra il 28 ed il 29 aprile 1996, quando Martin Bryant uccide a colpi d’arma da fuoco 35 persone e ne ferisce altre 23. Il film racconta i fatti che hanno portato all’esplosione di tale violenza senza mai fare alcun riferimento al nome dell’assassino o esibendo scene violente.

Nitram

Da una scena del film, Nitram è il soprannome del giovane assassino interpretato dall’attore Caleb Landry Jones.

Nitram (Caleb Landry Jones) incarna Bryant, l’assassino, la cui vita è contraddistinta da un profondo senso di inadeguatezza e un’insopportabile solitudine. Il film non cerca gli applausi del pubblico, ma chiede di non dimenticare un evento della storia australiana. Auspica di riaccendere il dibattito contro l’uso delle armi. Il film non trova il favore del pubblico di casa, che preferisce dimenticare, ma avrà sicuro campo libero sul mercato americano dove il pubblico brama denunce di tale portata, visto il mancato controllo delle armi da fuoco nel paese d’oltreoceano.

Gli ultimi drammatici applausi per Les Intranquilles

Per quest’anno, l’ultima pellicola in concorso è Les Intranquilles, film diretto dal regista belga Joachim Lafosse. Ispirato dalla malattia mentale del proprio padre, Lafosse racconta la dolorosa storia d’amore di Leïla (Leïla Bekhti) con il pittore Damien (Damien Bonnard) e la loro vita con il figlio Amine (Gabriel Merz Chammah, nipote dell’attrice Isabelle Huppert). La loro relazione è messa a dura prova dal disturbo bipolare dell’uomo. I repentini cambi d’umore, le follie e i suoi colpi di testa si susseguono e si intensificano fino a diventare intollerabili.

les intranquilles

Da una scena del film, la coppia di artisti Damien e Leïla, al lavoro nel loro studio.

Lafosse tratta il difficile tema della malattia mentale con tenerezza e comprensione per quest’uomo che è sempre sull’orlo di una crisi, ma è la performance della Bekhti ad eccellere nel dipingere le trasformazioni di una donna, che, indurita dal dolore, nessuno può permettersi di giudicare.

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