Prodotto da Kon Tiki Film e distribuito da Fandango Il giorno e la notte di Daniele Vicari riflette sul presente del cinema somatizzando il tempo della pandemia con un racconto sulla vita ai tempi del lockdown. Visibile su Raiplay a partire dal 17 giugno, Il giorno e la notte è l’occasione per fotografare la nostra epoca assieme a un autore che non si accontenta di verità preconfezionate
Il giorno e la notte inizia laddove finisce Aria. Mi sembra che questo sia un buon punto di partenza per iniziare a parlare del tuo nuovo film.
Non c’è dubbio che questi due racconti, uno con un carattere fortemente documentario, l’altro con una elaborazione drammaturgica del tutto soggettiva, risultino complementari. Realizzandoli entrambi in quel periodo di sofferenza comune, mi si sono aperti molti squarci riguardo alle possibilità di interpretare il contemporaneo. Anche considerando che vivevamo in una situazione molto al di sopra della nostra capacità di comprensione. Ci metteremo degli anni a elaborare quello che è realmente successo. Intanto ne paghiamo le conseguenze sul piano psicologico, come sta succedendo ai soggetti più fragili; in seguito pagheremo dazio sul piano politico, filosofico e morale, perché questa cosa ha messo in gioco in maniera traumatica il destino della nostra società.
A fronte di questo, fin dall’inizio con Francesca Zanza e Andrea Porporati abbiamo sentito la necessità di fare entrambi i percorsi, appunto perché sono complementari: uno – Il giorno e la notte – ci ha permesso di scavare dentro le nostre difficoltà di tipo etico morali, relative alla sfera psicologica e affettiva, l’altro – Aria – attraverso le vicende di testimoni sparsi in tutto il mondo, ci ha permesso di capire a livello globale il modo in cui le persone hanno vissuto la reclusione che ha impedito loro di ricongiungersi. Si tratta di questioni destinate a procedere insieme, quindi secondo me hai individuato perfettamente il legame.
Anche in conseguenza di quello che è stato Aria ho trovato potenti ed efficaci due cose. La prima riguarda la presenza di una elaborazione creativa senza la quale Il Giorno e la notte sarebbe diventato un documento sulla cronaca di quei giorni. La seconda è una conseguenza della prima, poiché nella trasfigurazione della realtà hai riassunto il clima di cospirazione globale che si respirava in quei giorni.
Il tassista che mi ha appena portato a casa corrisponde alla questione che hai sollevato: per lui il COVID rientra all’interno di un complotto, con i poteri forti decisi a chiuderci in casa per gestire il mondo. Questo pensiero è molto più diffuso di quanto si creda per vari motivi: di fronte all’inesplicabile, la fuga più veloce è quella che porta al complotto, con qualcosa o qualcuno che ci costringe e che decide per noi. All’inizio della pandemia però c’era una cosa che per me era molto chiara: forse perché da Diaz in avanti ho fatto un certo tipo di percorso, sta di fatto che quella cosa che noi chiamiamo sospensione della democrazia e dei diritti l’avevamo sperimentata in lungo e in largo durante lo scorso ventennio, abituandoci all’idea di rimanere chiusi in casa con le nostre città militarizzate. A Roma dal 2017 ci sono i militari a presidiare la metropolitana. Tutto questo è sembrato a me e all’altro sceneggiatore, Andrea Cedrola, un’occasione per riflettere su quel processo lento e apparentemente inesorabile che poi ha portato a una clausura totale. Ovviamente non significa che ci sia un collegamento tra la pandemia e gli attentati terroristici di questi anni; semplicemente nel mondo nuovo consideriamo chiuderci in casa rimanendo isolati come una sorta di chance, un’opportunità. Forse perché i tanti strumenti di comunicazione ci danno l’illusione di esistere comunque socialmente. Le persone definite Hikikomori, disposte a chiudersi in casa comunicando con il mondo attraverso internet, sono una novità. Prima c’erano altre patologie “sociali”, ma non così estreme; quindi da questo punto di vista credo che sul piano politico dobbiamo chiederci se siamo davvero sicuri che questo stile di vita ci conduca verso lo sviluppo della democrazia anziché al suo arretramento. Questa è la domanda.
Il giorno e la notte ha una caratteristica da sempre presente nei tuoi film, poiché la cronaca della realtà, qui come altrove, diventata il punto di partenza per un’elaborazione in cui non manca l’analisi critica del momento che stiamo vivendo. A tale coerenza Il giorno e la notte aggiunge anche un altro aspetto ricorrente del tuo cinema, ovvero un punto di vista comprensivo dei sentimenti dell’uomo comune.
Beh, secondo me il tema è quello lì. Se è vero che i sistemi politici ed economici dei nostri giorni, quella cosa che chiamiamo capitalismo, prevedono che le persone non possano o non debbano fare grandi movimenti, il cinema se ne deve occupare. Se la settima arte è diventata quella che è, lo deve al fatto di aver raccontato la vita delle persone ed è per questo che sono stupito solo in parte dell’abbraccio che il pubblico ha tributato nei confronti di questo film. Su Raiplay, Il giorno e la notte la prima settimana ha viaggiato a una media di 12.000 spettatori al giorno, che è quasi il doppio del normale: solo i film americani, quelli con gli attori di grido, hanno questo livello di visualizzazioni. Al di là quindi dei difetti, dovuti alle difficoltà in cui è stato realizzato, il film tocca le questioni sentimentali e la condizione delle persone che lo guardano in maniera dinamica. Questo lo trovo estremamente interessante perché tutti ci stiamo chiedendo che funzione possa svolgere il cinema dopo la pandemia: ecco una delle possibili funzioni del film, e cioè aiutarci a posizionare la nostra esistenza nello spazio e nel tempo presenti.
Di fronte al cambiamento epocale, Il giorno e la notte prova a riflettere su come ricollocare le traiettorie della nostra affettività e delle nostre vite.
Ma, guarda, è esattamente questo; non per un motivo teorico ma perché noi che l’abbiamo fatto avevamo in testa questa domanda. Con attori e tecnici ci vogliamo bene, siamo un gruppo di lavoro che si conosce da sempre, ma il punto è capire cosa vuole dire volersi bene in rete, in questo luogo strano nel quale ci incontriamo virtualmente. Più banalmente, cosa diventa il mestiere del regista dentro questa virtualità? Ecco, queste sono tutte domande interessanti sulle quali sono stato spinto a riflettere attraverso l’esperienza di fare cinema nella condizione di clausura.
Ho trovato Il giorno e la notte simbolico rispetto a quello che succedeva agli inizi della pandemia. Mi riferisco alle prime immagini del lockdown, in cui alla stazione di Milano abbiamo visto migliaia di persone precipitarsi verso i treni per raggiungere i propri familiari. Il film sembra dirci proprio questo e cioè che nelle crisi conta il rapporto con le persone più care, nella necessità di ridefinire le nostre relazioni.
Mi ripeto nel dire che i propositi artistici c’entrano poco rispetto alla vita che stavamo facendo in quei giorni. Per esempio, Giordano De Piano ha fatto le riprese da solo perché la sua fidanzata era a Milano. Dunque lui mentre faceva il film stava vivendo il dramma della separazione forzata. Non essere liberi di raggiungere chi si ama cambia la vita. La stessa cosa succede nella situazione contraria, ovvero essere costretti a una convivenza forzata. D’altronde, siamo in un cambio d’epoca nella quale non si ridisegna solo il sistema produttivo ma anche i rapporti e le relazioni. Credo che possiamo tornare a guardare con interesse anche agli autori “esistenzialisti” del dopoguerra: penso a Michelangelo Antonioni che interrogava la solitudine, l’anomia. Ecco, riproporre tali questioni oggi è di nuovo di grande attualità ed è necessario farsi certe domande tanto nella vita quotidiana quanto nel cinema.
Si dice che ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. In questo senso Il giorno e la notte è del tutto coerente a tale affermazione, perché nel film non è fantasmatica solo la quotidianità dei personaggi, ma anche e soprattutto l’orizzonte del reale, dominato dal supposto di un complotto terroristico che mette in assedio la capitale, costringendo le persone a chiudersi in casa.
A tal proposito torna utile il termine simulacro utilizzato a suo tempo per parlare della rappresentazione cinematografica. Bioy Casares ci ha costruito un racconto meraviglioso, L’invenzione di Morel, ovvero la storia di un luogo all’interno del quale c’è una macchina che fa rivivere i simulacri di persone che forse sono state lì o forse no. Oggi è chiaro che il concetto di realtà è problematico da definire sia in filosofia che nella esperienza quotidiana. Ci sono persone che perdono il senso della “realtà” navigando in rete e che che si sentono super potenti al punto di poter dire di te qualunque cosa. Personalmente, prima del lockdown, non avevo mai bloccato nessuno su Twitter o su Facebook, mentre adesso mi sento libero di farlo perché non accetto che esista questa pseudolibertà, che ha qualcosa di assoluto nei miei confronti: non accetto più che qualcuno possa dire o scrivere di me qualunque cosa gli passi in testa percependomi come simulacro e non come un essere umano. Sento di dover porre dei limiti alla mia stessa “disponibilità”, nel senso dell’essere a disposizione di chiunque per qualunque discussione in qualunque momento.
Durante il lockdown il cinema ha spesso riflettuto sulle sue capacità di adattarsi a quella che hai chiamato riconfigurazione della realtà. Penso per esempio a Steven Soderbergh che in Let them Talk ha lasciato agli attori il compito di dare parola ai loro personaggi, provocando un avvicinamento tra realtà e finzione, tra l’attore e il suo simulacro. Il giorno e la notte contribuisce alla riflessione mettendo gli interpreti nella condizione di diventare registi di se stessi, padroni come non mai della macchina da presa.
Guarda, forse ne abbiamo parlato l’ultima volta che ci siamo sentiti, ma continuo a dire che la funzione della regia nel cinema contemporaneo è la più evanescente e vaporosa. Lo dico a ragion veduta, riflettendo sui meccanismi di produzione seriale. In essa lo showrunner può essere un regista oppure no. In ogni caso è il primo a determinare l’andamento complessivo dell’opera e il suo sviluppo, mentre il susseguirsi di registi nel corso delle puntate incide poco o niente sul risultato finale. Alcuni produttori preferiscono sostituire ai registi i direttori della fotografia. Questo vuol dire che il regista ha perso il contatto con l’opera, cosa che in qualche modo è accaduta spesso anche in passato nell’industria. Cioè la “politica degli autori” è una cosa che abbiamo inventato in Europa. Lo studio system statunitense non prevedeva alcuna “politica” e alcuna “poetica” personali e questo portò a celebri scontri tra produttori e personalità del calibro di Orson Welles che invece rivendicavano la più totale libertà espressiva, fino ad essere estromesso dal sistema produttivo; cosa che per certi versi capitò anche a Charlie Chaplin e a molti altri. Più di recente è accaduto a Woody Allen. Rispetto a quanto già successo in passato, oggi c’è una cosa in più, ovvero un’ evoluzione tecnologica che rende più semplice lo spacchettamento delle varie funzioni della regia. Anziché subire questa novità, penso sia necessario farsene interpreti in maniera attiva. Durante la pandemia ho così finito per condividere volontariamente con gli attori il percorso creativo del progetto che nel caso de Il giorno e la notte è firmato da tutti. Poi è vero che io ho tenuto insieme i vari fili; però gli attori e le attrici hanno svolto anche una funzione registica, è innegabile. Per me si è trattato di un’esperienza molto interessante: lo dico sul piano professionale oltre che umano. È una cosa sulla quale credo valga la pena riflettere.
A che tipo di scoperte ti ha portato questo tipo di esperienza nella regia, cosi come nella direzione degli attori?
Non ho mai amato il termine direzione degli attori, tanto che alla scuola Volonté cerco di convincere me stesso e i ragazzi che è un termine sbagliato perché l’interprete non è una macchina, ma colui o colei con cui bisogna condividere il più possibile il percorso creativo. Mi rendo conto che questo approccio rischia di essere sottilmente ipocrita, perché alla fine è il regista o lo showrunner a prendere le decisioni finali, ma è un territorio di sperimentazione. Io in qualche modo avevo già adottato questo lavoro di condivisione con gli attori ma non fino a questo punto. Se condividere significa fidarsi e io sono da un’altra parte, allora spetta all’attore determinare il modo in cui viene inquadrata quella scena. In mancanza dell’operatore è lui come essere umano a determinare il ritmo vitale della scena. Se così non fosse basterebbe posizionare la mdp e filmare; invece in questo caso gli attori sono sia davanti che dietro la camera, si riprendono uno con l’altro, addirittura realizzano dei movimenti di macchina, impregnando le riprese dei loro respiri. In un quadro simile io e gli attori ci siamo ritrovati in un luogo altrettanto virtuale che è l’amore per quella cosa che stiamo raccontando. Allo stesso tempo si tratta di un punto di vista, di un desiderio: io, l’attore e il direttore della fotografia ci siamo incontrati dentro quella virtualità che è il progetto, l’intenzione, la passione e le idee che vogliamo esprimere.
Prima Aria, adesso il giorno e la notte. Con la produzione di questi due film la Kon-Tiki Film dimostra di saper trasformare i limiti in nuove possibilità e mi spiego: Il giorno e la notte infatti non rinuncia alla possibilità di utilizzare appieno il linguaggio cinematografico ricorrendo a movimenti di macchina più complessi e a una fotografia fortemente espressionista. Sul lavoro di Gherardo Gossi basterebbe riferire della luce abbagliante dalla quale fuoriesce Isabella Ragonese nella scena del suo rientro a casa e all’intensità dei rossi che trasfigurano gli ambienti domestici.
La luce di cui parli dimostra che l’intento era proprio quello di trasformare i limiti in possibilità espressive. Il nostro direttore della fotografia non poteva mettere vele e luci fuori dalle finestre o fuori dalle porte. Anziché non inquadrarlo mai a quel punto abbiamo deciso che il fuori dovesse essere indeterminato ma presente; anche se questo voleva dire rinunciare a tutti i parametri che permettono di controllare l’immagine. Noi quella luce la facciamo entrare nell’inquadratura trasformando il limite tecnologico in una scelta, legata allo stato d’animo del personaggio, quel “fastidio” diventa un elemento espressivo. Si tratta di ragionamenti venuti fuori dai limiti tecnologici dell’operazione. Magari non ci faremo niente, magari sì.
Con molti degli attori presenti nel film avevi già lavorato. Oltre alla loro bravura da tempo consolidata, è stata determinante, come hai detto, la fiducia che avete avuto uno con l’altro.
Questo fatto è decisivo sempre quando si fa un film; poi ognuno interpreta il fare cinema in maniera diversa, quindi credo sia legittimo anche incarnare la figura del regista dittatoriale, che non lascia agli attori nessuno spazio, perché non è una scelta etica ma espressiva. Nel nostro caso quel modus operandi si è reso necessario per la condizione che stavamo vivendo. Fin da subito tutto il gruppo di lavoro si è reso conto che, accettando anche ideologicamente il concetto di distanziamento sociale, avrebbe commesso un grosso errore perché noi non smettiamo di svolgere la nostra funzione di narratori o di attori solo perché siamo chiusi in casa. Tant’è che televisioni e giornali ci chiedevano continuamente di fare dichiarazioni per chiedere agli italiani di rispettare le regole sanitarie. In quei giorni la nostra riflessione è stata: ok, siamo d’accordo, il distanziamento sanitario è necessario, non siamo degli incoscienti perché non si deve rischiare di diffondere il virus. Però altra cosa è trasformare il distanziamento sanitario in distanziamento sociale. Questa è una cosa che culturalmente e anche politicamente ci siamo rifiutati di fare, immaginando un cinema che potesse mantenere vivo il legame sociale, impedendo di farlo sopravvivere solo strumentalmente, rispetto all’emergenza. Accettarlo acriticamente equivaleva a diventare parte di un meccanismo in cui a decidere non sono gli esseri umani ma “entità altre”. Provare a fare il contrario significava accettare un grande rischio perché, ripeto, siamo consapevoli dei limiti tecnologici entro cui è stata realizzata quest’opera; però siamo altrettanto coscienti che averlo fatto ci ha reso meno infelici perché siamo stati capaci di creare qualcosa nonostante tutto. Ecco, se è vero ciò che diceva Pier Paolo Pasolini, cioè che l’utopia è il sogno di una cosa, noi quella cosa l’abbiamo realizzata, concretizzata. Dopodiché probabilmente continueremo a fare cinema come l’abbiamo fatto in passato, anche se credo che certe trasformazioni siano più grandi e importanti di noi, delle nostre abitudini e anche dei nostri desideri. Quindi dovremmo fare i conti con questa situazione, come pure rispetto a un cinema che subisce continue trasformazioni, com’è sempre accaduto, proprio per l’evoluzione della tecnologia. È quest’ultima che trasforma il cinema, ma noi dobbiamo dominarne il processo, a breve potrebbe cambiare il modo stesso di inquadrare e di montare una scena. Gli operatori sempre meno “pensano l’inquadratura” in ripresa e i montatori cominciano a scegliere al posto loro, potendo manipolare file con grande definizione, cambiando così le intenzioni della ripresa. Questa è una rivoluzione del linguaggio più grande di quanto si pensi.
Sappiamo del successo che sta avendo Il giorno e la notte su Raiplay, dei livelli record di visualizzazioni. Però, sapendo che si tratta di un film che non rinuncia al cinema, sarebbe bello vederlo anche sul grande schermo. Esiste questa possibilità?
È una possibilità reale, perché il film è distribuito da Fandango e ci sono state già diverse proiezioni pubbliche. Vogliamo che il film arrivi al pubblico anche sugli schermi; però, in questo frangente così difficile, ho voluto portare a un livello ancora più avanzato il bel rapporto che ho stabilito con Raiplay. Credo che come piattaforma pubblica Raiplay sia il futuro della comunicazione in Italia. Oltre ad essere estremamente ricca di proposte la piattaforma si sta progressivamente trasformando grazie al lavoro di Elena Capparelli e del suo vice Maurizio Imbriale. I progressi tecnologici sono tali da non far perdere nulla delle qualità visive dei film nel passaggio dallo schermo alla piattaforma. Siamo in una situazione ibrida, di passaggio, e bisogna esplorare nuovi territori. In Italia in questi giorni siamo ancora un po’ “in presenza” e un po’ “a distanza”; il pubblico non sta andando al cinema, prima di tutto perché durante l’estate non ci è mai andato, ma anche perché obiettivamente è dura uscire per andare in un luogo chiuso, non è scontato. Questo è un fattore psicologico determinate per persone abituate a stare molto all’aperto come noi mediterranei. È inutile fare paragoni con i francesi, il cui rapporto con la sala, anche in termini di sostegno finanziario e di politica industriale, ha una lunga tradizione protezionistica. Ma al di là delle differenze nazionali, io credo che anche la distribuzione cinematografica come l’esercizio dovranno tenere in considerazione tali questioni, altrimenti rischiano di farsi fagocitare dalle piattaforme. Io opto per esempio per una convivenza intelligente tra proposta cinematografica in piattaforma e quella presente nelle sale, una forma di ibridazione. Penso possa persino essere risolutiva di alcuni problemi annosi del nostro esercizio. Come sai meglio di me, esistono ampi territori in cui non ci sono sale cinematografiche. In Calabria ci sono 36 sale cinematografiche per 2 milioni di persone in un territorio vastissimo e anche impervio: questo vuol dire che nonostante il lavoro che per esempio può fare un magazine come il vostro per promuove un film, solo 1/3 o 1/4 degli italiani raggiunti dalla vostra informazione riesce poi a trovare il film in sala. Se si potesse realizzare un sistema integrato sala/piattaforma si colmerebbe almeno in parte il gap. In questo senso la pandemia ha accelerato tutto. Anche nella testa di chi gestisce le sale questo meccanismo comincia a muoversi; infatti alcuni circuiti hanno creato delle loro piattaforme durante il Lockdown. Per questo la decisione di programmare il film su RaiPlay ha come fine quello di permettere a tutti gli italiani di poterlo vedere, senza limitazioni, non rinunciando però alle proiezioni pubbliche. Certo la programmazione regolare è un altro discorso. Dunque porteremo Il giorno e la notte ovunque ci verrà richiesto e chi vi ha preso parte lo accompagnerà nel suo incontro con il pubblico delle sale.
PS. La foto di Daniele Vicari è stata realizzata da Christian Nosel