‘A Classic Horror Story’ un nuovo corso per il genere in Italia?
Il film di Roberto De Feo e Paolo Strippoli è un horror interamente italiano, scritto in coro. A metà strada tra omaggio e parodia, è un’opera ambiziosa, matura e che tiene alta la guardia contro la retorica del genere. In esclusiva su Netflix dal 14 luglio, vietato ai minori di quattordici anni.
A Classic Horror Story è in concorso al 67° festival del cinema di Taormina.
Prodotto da Netflix e Colorado Film, rappresenta l’opera seconda di Roberto De Feo (dopo The Nest) e il primo lungometraggio per il ventottenne Paolo Strippoli.
La sceneggiatura è firmata dai due registi e da Lucio Besana, Milo Tissone, David Bellini; la pluralità di voci, nella scrittura e dietro la macchina da presa, si è infusa in un lavoro dallo spirito unitario. Nel cast Matilda Lutz protagonista e Peppino Mazzotta.
A Classic Horror Story, una storia di orrore classica
Elisa (Matilda Lutz), Fabrizio (Francesco Russo), Riccardo (Peppino Mazzotta), la giovane coppia Sofia e Mark (Yulia Sobol e Will Merrick) viaggiano in car sharing in Calabria. Dopo essere finiti fuori strada e riacquistato i sensi, si ritrovano a bordo del pulmino ma in un punto diverso dal luogo d’impatto: sono in mezzo a una radura immersa nel bosco; Mark è gravemente ferito a una gamba. Hanno dinnanzi a loro una casa all’apparenza disabitata. Nascosto nella foresta si erge un macabro altare. Giunta la notte visitano l’abitazione e apprendono che una leggenda di folklore adombra questo luogo, quella di Osso Mastrosso e Carcagnosso, i tre Cavalieri dell’Onore che sfamarono il popolo in cambio di sacrifici umani. Una bambina è prigioniera in soffitta. Il seguito è la spirale di terrore tipica del genere, ma il Male ha assunto questa volta modi e sembianze inediti.
«Se non muori, come faccio a prendermi cura di loro? […] La mafia non è più quella di una volta».
A Classic Horror Story, una storia di orrore anticlassica
Roberto De Feo, Paolo Strippoli e gli altri tre sceneggiatori sono autori intelligenti. Avevano in mente un progetto articolato e originale e, attraverso un’ampia scrittura e riscrittura, lo hanno realizzato con coerenza. Le diversità di pensiero non hanno impedito la creazione di un’opera che definiscono – a ragione – «compatta, con un’unica intenzione». Lo screenplay è oltretutto asciutto, non ha battute di troppo né vuoti.
I due registi dichiarano di essere cresciuti guardando film di genere e che per loro «l’horror è una chiesa» (Strippoli). Questa formazione si manifesta in una serie di citazioni: il pulmino (Le colline hanno gli occhi); la casa nel bosco, luogo di terrore per eccellenza; la telecamera nascosta (?) nell’occhio della testa di animale impagliato; la luce rossa di Suspiria; il maglio di Misery deve morire; il culto (The Village?) e certamente molto altro. Tutti questi elementi, esenti dal manierismo, sono un po’ omaggio e un po’ parodia. Sono anzitutto debiti dell’immaginario e andavano riportati; dopodiché gli autori avevano in mente un progetto nitido che potesse smarcarsi da alcune tendenze contemporanee. Una di queste è il limite del low budget, superato con l’appoggio di una robusta produzione; un’altra importante differenziazione è il rifiuto della retorica dello splatter: il film è violento, disturbante e crudele ma dimostra un taglio diverso e – il più delle volte – antimorboso; con le parole di Strippoli: «voleva trasmettere ferocia senza divenire un torture porn […]. Volevamo raccontare il dolore togliendo qualcosa». Qualche stereotipo rimane, per la verità, e al di fuori di citazione; per esempio l’idea che i mostri generino mostri, che la sopravvivenza esiga il sadismo di rivalsa. Ma l’opera è molto valida, giovane e soprattutto matura.
Il montaggio è pulito e ben ritmato. Gli attori sono bravi ed è molto buona l’interpretazione delle ragazze; la Lutz, in particolare, affermano i registi, ha risposto appieno a quella ricerca di un’anima duplice – dolce, materna e combattiva – che immaginavano per il ruolo della protagonista.
L’inizio di un nuovo corso?
A Classis Horror Story non è un film per tutti, e non è un film per i soli appassionati. Al netto dei gusti e della sensibilità-repulsione personale, va riconosciuto agli autori una particolare capacità di concepire l’opera cinematografica, di organizzare e realizzare qualcosa che è prima di tutto riflessione sulla loro esperienza di spettatori.
Roberto De Feo auspica la nascita di un «movimento» per i film di genere, film che possano varcare i confini nazionali e funzionare anche all’estero. Strippoli condivide il sogno e sostiene che si debbano sfruttare i dialetti, i tipi italiani e l’elemento locale; così come è stato fatto nel loro lavoro. In fondo, dice De Feo, la realtà è più terrificante della finzione; un luogo comune, il più delle volte, spesso inesatto, ma in questo caso corrisponde a una valida premessa per un’ampia riflessione sul cinema italiano a venire.
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