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E fu così che spesi 60 dollari in DVD

Illuminazioni dal cinema indipendente americano. Dalla nostra corrispondente da New York Stefania Paolini

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Mi trovavo all’aeroporto JFK qualche tempo fa, stavo lasciando New York per le festività pasquali, e già mi prefiguravo crocifissa al tavolo domenicale. Ore ed ore  ed ore vittima di semi-sconosciuti – i miei parenti – che mi chiedono insistenti perché’ non sei fidanzata, perché non hai figli, dato che insomma hai pure una certa età, cosa fai in America e perché, e come è questa Grande America e via discorrendo.

Questa prospettiva mi sconfortava a tal punto, che decisi di ricorrere ad un semplice esercizio che un’amica psicologa mi aveva insegnato all’indomani della mia separazione dall’uomo di Cro-Magnon.

Fai qualcosa che ti rende felice.

Cosa mi rende felice? A parte secchiate di vodka?

E fu così che spesi 60 dollari in DVD. Ne comprai ben due. I titoli che avevo scelto non sembravano condividere alcun tipo di schematismo latente. Avevo infatti comprato un DVD per “ridere” (American: The Bill Hicks Story) ed uno per corroborare la mia tesi che l’amore non esiste (Blue Valentine). Durante il volo, tuttavia, una volta terminato di vederli entrambi, ho iniziato a notare un tenue fil rouge.

Forse per il valium o per il rifiuto di espormi all’intrattenimento video di bordo – Narnia. No. Grazie. No – fatto sta che ho iniziato a farmi una bella pensata. Sapete, una di quelle appaganti riflessioni dove ti compiaci di aver sì studiato per quell’Esame di Cinema, anche se l’Esame di Cinema mai e poi mai ti pagherà le bollette.

Comunque pensai. Pensai prima di tutto a come ero stata fortunata a trovare un DVD su Bill Hicks. Per chi non fosse familiare con la sua opera, Bill Hicks è uno dei grandi rinnegati della comicità americana. Alla stregua di un Andy Kaufman o di un Lenny Bruce, Hicks fu un rivoluzionario della gag, uno dei pochi comedian capaci di schiaffeggiarti e farti ridere di testa e di ventre in egual misura. Sfortunatamente, lo stile scorretto, maleducato e politicamente acre di Hicks non piaceva ai network televisivi e la sua intera carriera si compì quasi unicamente in fumosi club americani o in più ospitali teatri inglesi. Prima che a soli 32 anni, non se lo portasse via un cancro.

Che strano, pensai, trovare questo documentario su Bill Hicks in una filiale di qualche grande catena di mediastore statunitense! Proprio lui che tanto si era affannato a smitizzare, demolire e smascherare il sogno americano. Ma d’altronde la legge del mercato è questa: pure se ci sei ostile, noi troveremo un modo di trarre profitto dalla tua ostilità. E pure Bill stesso ne parlò in uno dei suoi più famosi sketch, dove invitava pubblicitari e responsabili marketing del mondo a togliersi graziosamente la vita.

Ed è curioso, e terrificante, notare come questo processo di assimilazione forzata operi a tutti i livelli dell’industria culturale, incluso quello estetico. Una nuova formula espressiva ci disorienta, ci scandalizza. Ma giusto per il tempo necessario a qualche creativo di trasformarla in qualcosa di digeribile. Non passerà molto prima che ciò che ci aveva confuso divenga parte integrante della nostra esperienza quotidiana. Addio montaggio classico, buongiorno MTV generation. E nel mezzo i vari Godard e Scorsese.

E così si assiste a degli slittamenti semantici davvero inaspettati. Pensiamo al “Cinema Indipendente”. Cosa è oggi un film indipendente? C’era una volta il Cinema classico, quello dei grandi Studios, quello di facile approccio per il grande pubblico, quello prodotto con immensi budget. Arriva il dopoguerra, il New American Cinema, la Nouvelle Vague. Alla scuola di Cinema ti insegnano che essere indipendenti è una questione di atteggiamento e motivazione. Ogni etica è un’estetica.

2011 – Gli Oscar. Tra i candidati nelle varie categorie anche un film “indie”. Stupore, stupore. Peccato che il film indipendente in questione sia Blue Valentine. Che di indie ha solo un relativamente modesto budget. Nulla in questo film rappresenta una rottura con la tradizione, con l’establishment o con le regole estetiche del Cinema per tutti. Nulla. Due giovani e attraenti star, una storia semplice, un montaggio potabile, qualche vibrazione di camera. Bene.

Cosa significa essere indipendenti? Black Swan – film non indie in competizione – è molto più vivace, esteticamente e formalmente coraggioso. Essere indipendenti per il Cinema Americano di oggi cosa significa? E’ una categoria del pensiero o del portafogli? Basta un finale non appagante per l’audience? E Titanic allora? È sufficiente confezionare una pellicola adottando uno stile dimesso? Parlare della normalità delle cose, quale essa sia? Come se dei temi minuti fossero di per se stessi garanzia di affrancamento dal tanto vituperato Cinema Main Stream?

Ma soprattutto ha senso oggi parlare ancora di Cinema Indipendente?

Da cosa si cerca indipendenza e per quale motivo?

In questa rubrica cercherò di parlare soprattutto di questo. Ovverosia di quei film Americani, che più di altri tentano, o hanno tentato, una riflessione sul Cinema, sulle sue funzioni e sui suoi linguaggi, mettendone in discussione in maniera più o meno sacrilega gli assunti e le convenzioni.

Stefania Paolini

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