Mettendo in relazione cinema e guerra Massimo D’Anolfi e Martina Parenti con Guerra e Pace ragionano sull’etica delle immagini, esplorando i limiti di ciò che si può filmare, mostrare, archiviare. A fare la differenza è come sempre uno sguardo capace di portare alla luce la verità delle cose.
La pellicola è in streaming su MUBI.
Prodotto da Montmorency Film con Rai Cinema e distribuito da Istituto Luce Cinecittà Guerra e Pace è al centro della conversazione con i registi del film.

La prima immagine del film è quella di una realtà immersa nella penombra e di una persona che lavora su alcuni frammenti fotografici. Parliamo di una sequenza preminente, tanto del film quanto del vostro cinema, perché esprime il concetto e l’azione di portare alla luce una realtà come fosse la prima volta che succede.
L’immagine di cui parli è fortemente simbolica, sia per la presenza dei frammenti di lastre di vetro fotografiche in via di ricomposizione, sia, come notavi tu, per il contrasto tra luce e ombra che svela la presenza delle cose. Fin da quando l’abbiamo girata era chiaro che sarebbe stata l’inizio del film, proprio perché rappresentava un indizio programmatico e simbolico di una ricomposizione: quei pezzi di vetro infatti diventano brandelli di memoria, frammenti di archivi cinematografici.
A questo proposito ti volevo chiedere della sua genesi e cioè se qui, come in altre occasioni, l’idea precede l’immagine o viceversa.
In quel caso c’è stata prima la visione. Però crediamo che la pratica del lavoro non abbia una regola. Spesso ci si imbatte in situazioni impreviste e si capisce subito se si tratta di fatti che vale la pena riprendere. Poi, riguardando il girato, capisci se sono davvero potenti per il film. Nel caso specifico, quel luogo dal punto di vista visivo combaciava perfettamente con l’idea narrativa e drammaturgica che piano piano andava montando nel film. Era un luogo, tra virgolette, anche marginale all’interno delle cose che stavamo filmando, salvo poi rivelare le potenzialità capaci di fare di quella scena una specie di dichiarazione d’intenti.

Mi pare che questa prima scena abbia una caratteristica che invece appartiene all’intera vostra filmografia. E cioè che la visione per voi è prima di tutto un fatto materiale, frutto di un’azione umana incessante, capace di dare nuova forma alla materia.
Sì, esatto, i nostri film hanno sempre a che fare con il lavoro. Non abbiamo fatto nessun documentario in cui c’è un racconto intimo; non perché siamo contrari, ma perché ci piace di più filmare il fare. E questa credo sia la parte più purista dei documentaristi, quella di trovare situazioni in cui le persone fanno delle cose. Si tratta di una caratteristica tipica del documentario, perché nel momento in cui le persone operano su qualcosa lo devono fare come obbligo del proprio mestiere. Per quanto siano influenzate dalla presenza della telecamera, l’attenzione sul lavoro permette loro di svolgerlo al meglio e a noi consente riprese più autentiche, oltre alla possibilità di concentrarci sulla “verità” di uno sguardo che poi è il nostro.
In questo senso la visione e soprattutto il montaggio concorrono a rendere i vostri film molto poetici. Il fatto poi che al centro della scena ci sia la concretezza dell’azione umana funziona come contraltare capace di asciugare lo sguardo dal rischio della retorica.
Quando parliamo di visione parliamo dello sguardo che precede il montaggio, ovvero dell’atto più puro delle riprese. Il montaggio procede a dare forma drammaturgica a quello che è stato già fissato nell’immagine. Con quest’ultimo definiamo quello che prima abbiamo accarezzato con la scrittura e continuato a curare in fase di ripresa. Il montaggio perfeziona queste sue prime fasi. Detto questo, se c’è uno sguardo poetico e saggistico, quello dipende anche un po’ dal film che trattiamo. Sicuramente noi cerchiamo di vedere al di là delle apparenze, sia quando filmiamo gli operai che stanno scavando il tunnel sotto la metropolitana, sia quando inquadriamo la persona intenta a lavorare all’interno del laboratorio al restauro di pezzi di pellicola o di fotografie. Se esiste uno sguardo poetico come credo che sia, questo non è mai lezioso ed estetizzante perché la dimensione in cui lavoriamo non è mai una poetica fine a se stessa, fatta per autocompiacersi. In noi c’è sempre una ricerca profonda della bellezza del gesto, delle azioni, della vita, dell’anima, delle persone, degli oggetti e delle cose.
Peraltro sempre in questa prima parte mi ha colpito un effetto che nel vostro cinema riuscite sempre a creare attraverso il montaggio. In questo senso mi è sembrato esemplare l’accostamento tra i pezzetti di vetro e l’immagine del soldato che sembra aver perso il senno. In quel caso, la frantumazione del vetro va di pari passo con la frammentazione dell’io.
Filmando quei pezzi di vetro avevamo capito che potevano diventare pezzi di memoria e, appunto, la frantumazione dell’io del soldato a cui ti riferivi. Peraltro si tratta di una sequenza emblematica per il luogo in cui abbiamo effettuato le riprese, perché lì sono custodite le prime immagini che illustrano le conseguenze della guerra sulle persone. In particolare dello shock post traumatico sulle persone causato dalla guerra.

I pezzetti di vetro sembrano rifarsi alla funzione del film che mette insieme pezzi di storia e dunque di significato. Le immagini di Guerra e pace diventano così tanti piccoli tasselli di fatti e personaggi che nel loro insieme rappresentano in unica storia.
L’idea era proprio questa: ogni pezzettino contiene qualche cosa su cui basta soffermarsi per regalarsi una storia.
Riflettevo sul significato del titolo in collegamento con il suo impianto narrativo. Dell’omonimo romanzo di Lev Tolstoj nel vostro film ho ritrovato non solo il contesto bellico: come nel libro anche qui c’è la narrazione di un racconto inquadrato all’interno di una cornice storica. Come pure la rappresentazione di un’idea destinata a diventare protagonista. Una struttura che nel suo insieme costituiva la novità del romanzo di Tolstoj.
Innanzitutto grazie. A parte Tolstoj il nostro riferimento è stato anche quello di Vita e destino di Vasilij Semenovic Grossman. Ci ha ispirato nella decisione di dividerlo in capitoli volendo fare un film capace di riavvolgersi su se stesso, un po’ come la pizza di una pellicola in cui tu puoi andare avanti e indietro. Si trattava di un intuizione ancora non del tutto chiara ma già presente. Guerra e pace si può riavvolgere su se stesso. Il futuro è già scritto, dentro gli archivi. Basterebbe solo andarli a interrogare.
Nel primo capitolo mi è saltato all’occhio un omaggio a Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi e al loro Pays Barbarie. Parlo di quei fotogrammi che nel vostro, come nel loro film, riguardano la guerra in Libia e che, come quelli, vengono ricolorati acquistando nuova vita.
Certamente sì. Lucchi e Gianikian sono certamente tra gli autori che a noi piacciano, per eleganza e potenza di significato. Nel nostro film, però, c’è sempre questo aspetto concreto del lavoro, per cui alla fine tutte le immagini non sono mai frammenti rimontati, ma istantanee variamente utilizzate. Nel caso a cui ti riferivi dai restauratori, e dagli studiosi; nel capitolo successivo dai funzionari dell’unità di crisi. Questo per dire che si tratta di un utilizzo diegetico.
Le immagini che vengono colorate provengono dalla stessa fonte utilizzata da Lucchi e Gianikian, ma, mentre loro lavorano sul fotogramma, noi lo facciamo attraverso le persone che le utilizzano, ribadendo ancora una volta il passaggio primario, che è quello del lavoro. Sono colorazioni presenti nel fotogramma originale e che, nel caso del nostro film attraverso la color correction operata in fase di restauro, vengono rifatte digitalmente.
I quattro capitoli in cui è suddiviso Guerra e pace sono caratterizzati dal rapporto tra il cinema inteso come immagini in movimento e la guerra. In realtà nel corso del film, attraverso una progressione temporale, che è anche tecnologica, le immagini vengono declinate a secondo del loro uso. Dalle semplici fotografie ai fotogrammi d’archivio, a quelle impiegate dalla manualistica militare, si passa ai layout utilizzati dalle unità di crisi, fino ad arrivare alle dicotomia conclusiva, quella in cui la spettacolarizzazione della guerra si confronta con il referto delle sue conseguenze, costituita dall’immagine nuda e cruda delle sue conseguenze sui corpi delle persone.
Evidentemente c’è questo percorso, che poi è quello che abbiamo tentato di fare. Per entrare un po’ più in profondità rispetto a questa riflessione, esisteva la volontà di trovare luoghi che ci permettessero di affrontare questo percorso: come la Cineteca dell’Istituto Luce dove appunto stanno restaurando le pellicole di Luca Comerio, che rappresentano la prima volta in cui la guerra viene filmata in modo organico e strutturale.
L’invasione della Libia, ovvero la guerra italo-turca, viene filmata sotto tutti gli aspetti: dagli sbarchi alle marce, come pure nella documentazione delle rovine di quei paesi. Però, come dicevi tu, volevamo lavorare anche sull’evoluzione dell’immagine, mostrando i modi in cui viene lavorata e ricolorata e quindi abbiamo trovato delle situazioni che potessero aiutarci nella scuola di cinema all’interno dell’Ecpad (Archivio Militare e Agenzia delle Immagini del Ministero della Difesa Francese, ndr), e nell’archivio della Croce Rossa Internazionale. Come dire, abbiamo ritrovato un percorso possibile all’interno di queste immagini, cercando dei luoghi che le contenessero. Più di una volta abbiamo detto che questo è un film impalcatura: L’Istituto Luce e la Cineteca italiana, la Farnesina, l’Ecpade e la Cineteca di Losanna sono luoghi di pace che contengono a vario titolo e a vario modo la guerra.

Tra l’altro il vostro è anche un film sul corpo in guerra, sul corpo della guerra. Lo dice la progressione con cui lo presentate: all’inizio si tratta di una presenza fantasmatica, colta nelle fotografie e nei vari filmati d’archivio. Successivamente ne sentiamo solamente la voce, nell’episodio dedicato all’unità di crisi della Farnesina; poi quando li vediamo essi vi appaiono come attori di una messinscena della guerra. Infine, sono presenti in carne e ossa nelle immagini spoglie e crude che ne mostrano le mutilazioni.
Sì, è esattamente questo il vero e proprio percorso di scrittura del film. Cioè, il soggetto di Guerra e pace è stato scritto esattamente con i passaggi che tu hai elencato adesso.
Nel terzo capitolo, dedicato all’attività dei soldati francesi presso l’Ecpad, la messinscena della guerra riguarda tanto gli operatori cinematografici quanto i militari chiamati a esserne attori al fine del loro addestramento. Per contro, il quarto rappresenta il perfetto contraltare del precedente, con la finzione sostituita dalla documentazione nuda e cruda dei corpi menomanti dalla violenza della guerra.
Quello di cui parli è un vero teatro di guerra, dove vanno a fare le prove i cineoperatori militari e poi gli altri soldati. È un posto molto particolare, un enorme poligono dove ci sono villaggi costruiti apposta per simulare le guerre del presente. Lì c’è proprio il gioco della messinscena, con i soldati/attori che si comportano come se si trovassero nel bel mezzo di un conflitto. Ci sono scenografie di villaggi siriani, ceceni, kosovari, ovvero dei luoghi in cui si sono svolti i principali conflitti degli ultimi anni. È un posto molto particolare. È chiaro che poi, a fronte di questo teatro della guerra, ci siano le conseguenze viste attraverso i filmati della cineteca di Losanna, con la sua aria asettica: si tratta di immagini così vere da incidere sulla pelle dello spettatore. Questo è un aspetto su cui abbiamo molto ragionato. La guerra è la guerra per cui le sue immagini non possono non essere cruente e forti: dunque, se è vero che nel nostro film abbiamo tenuto molto fuori campo, in alcuni passaggi certe atrocità dovevano starci. Nell’ultimo capitolo le immagini sono quelle della Croce Rossa Internazionale, ovvero della prima istituzione che a partire dall’Ottocento si è occupata delle conseguenze della guerra.
In effetti Guerra e Pace è anche una riflessione sull’etica delle immagini ed è particolare che a farsene portatore sia l’istruttore militare. Ragionare su ciò che si può mostrare, filmare e archiviare sono domande che il film si pone attraverso uno dei personaggi.
Chiaramente queste sono domande che ci poniamo sempre quando facciamo film. Guerra e pace è un film pacifista; certo è che l’unica persona a proporre una “morale” è un militare. Il che paradossalmente ci dice come la sua posizione sia più chiara della modalità dominante del nostro presente, in cui tutti filmano (spesso per soldi) senza capire le conseguenze e il potenziale del girato. Anche per questo nel film comunque non c’è uno sguardo giudicante sui militari, ma solo una lucida e profonda analisi del contesto da noi indagato perché con i facili giudizi non si arriva lontano.
La spettacolarizzazione delle immagini del terzo capitolo è ancora più forte, anche per il confronto con quelle di tenore opposto del capitolo che segue. Alla luce di questo rigore, il racconto della guerra di certi war movie ne esce ridimensionato, sia in termini drammaturgici che morali.
Alcune delle immagini a cui ti riferisci sono quelle dell’esercitazione finale girate dagli stessi militari francesi. Queste hanno un linguaggio mutuato dal cinema hollywoodiano, costruite con un montaggio serrato, una musica forte, accattivante e ipnotica, un cinema super panoramico. Noi le abbiamo utilizzate tenendo conto del loro linguaggio. Un altro tentativo del film è quello di essere esso stesso un archivio. Alla fine abbiamo provato a fare una riflessione un po’ più approfondita su alcune immagini per comprenderle meglio.
Nel film lo studioso dice una cosa interessante e cioè che le immagini di guerra da sole sono cieche. Se non sono contestualizzate non hanno valore. Alcune possono avere in sé una grande potenza, ma vanno comunque studiate e interpretate.
Alla fine il vostro film sembra volerci dire che nella guerra non conta l’atto di uccidere, da voi posto spesso fuori campo per evitare tentazioni voyeuristiche, quanto piuttosto la messa in primo piano delle sue conseguenze. Lo è nell’ultimo capitolo la costruzione del racconto, affidato alle sole parole e alle immagini della cineteca di Losanna; queste ultime spogliate di qualsiasi retorica e spettacolarità, quando si tratta di mostrare le menomazione dei corpi
Intanto quelle sono immagini della Croce rossa Internazionale, filmate con un senso preciso e cioè per far vedere cosa si fa nei centri di riabilitazione. Vanno oltre la Guerra e vengono girate per formare il personale che poi si dovrà occupare dei pazienti. Non sono spettacolari e non servono per fare soldi ed è proprio questa la cosa potente di quelle immagini. Ciò non toglie che dalla loro funzionalità può trapelare un senso profondo. La Croce Rossa lavora sui feriti e sulle conseguenze della guerra ed è proprio quello che volevamo come epilogo del film, così come volevamo che a un certo punto la testimonianza vocale attraverso la parola prendesse in qualche modo il sopravvento.
Che percorso distributivo avrà Guerra e pace?
Il film è uscito nelle sale in questi giorni distribuito da Istituto Luce. È stato proiettato già a Milano, Palermo, Messina, Brescia, Mantova e altre città del Nord Est. La sua è una distribuzione nella forma del tour. In alcuni casi come Milano, Roma e Firenze ci sarà anche attraverso una piccola tenitura, con noi presenti nelle sale per presentarlo agli spettatori. La cosa che ci auguriamo è che in autunno possa essere ripreso per fare un altro viaggio nelle città italiane anche accompagnandole con visioni per le scuole, perché riteniamo che sia un film da far vedere ai ragazzi della classi superiori.