Autore maledetto del cinema muto americano, Erich von Stroheim risulta ancora oggi, quasi un secolo dopo la sua attività, uno dei registi che più si sono contraddistinti per magnificenza, ferocia, carica tensiva e sensuale. Femmine folli (Foolish Wives), la sua terza regia e prima delle sue opere dai costi esorbitanti e andate in contro a tagli brutali, è disponibile sulla piattaforma di IWONDERFULL e su IWONDERFULL Prime Video Channel.
Con vena iconoclasta, Stroheim cercò di imporsi, tra leggenda e realtà, agli albori del cinema classico hollywoodiano, perseguendo l’idea di totale libertà artistica senza vincoli economici e produttivi. La leggenda è quella che creò lui stesso attorno alla propria identità, millantando origini nobiliari e un trascorso da ufficiale di cavalleria, come leggendario è divenuto il suo cinema, arricchito da un gigantismo scenografico che trova pochi pari nella storia e lacerato da continui contrasti con le produzioni. La realtà è invece quella affrontata e smascherata nei suoi film, con un feroce realismo dei particolari e con la sfida all’ipocrisia della borghesia americana e soprattutto europea, trovando un sottile raffronto con il mondo hollywoodiano.
Femmine folli: la trama
A Monte Carlo, nell’Europa dell’immediato dopoguerra, il sedicente Conte Wladislaw Sergius Karamzin abita in affitto in una villa a ridosso del mare, in compagnia delle due cugine, Vera e Olga Petchnikoff. L’aristocratico russo in esilio e le complici vivono di inganni e truffe ai danni dei ricchi esponenti della mondanità monegasca. L’arrivo di un diplomatico statunitense e della moglie offre al Conte una ghiotta occasione e cerca dunque di sedurre la donna per estorcere denaro.
Dentro e fuori lo schermo
Stroheim, ancor prima che visionario e ribelle, fu un fine osservatore e conoscitore dei meccanismi del cinema americano. Entrò ad Hollywood in punta di piedi, assunto da David Wark Griffith come costumista, assistente, comparsa e attore; un apprendistato fondamentale e prestigioso. Ma soprattutto comprese sin da subito l’importanza di costruirsi un’immagine, che lo portò a creare la fittizia identità del Conte Erich Oswald Carl Marie Stroheim von Nordenwald, nobile austriaco e illustre ufficiale emigrato negli Stati Uniti. Tale illusione trovò continuità sullo schermo, dove sul finire degli anni ’10 si specializzò come attore in ruoli di perfidi ufficiali prussiani, prolungando l’immagine che si era dato. Con Femmine folli, l’allineamento tra la sua persona e il suo personaggio tocca uno dei punti più alti. È proprio Stroheim, infatti, a interpretare il protagonista, che come lui si finge aristocratico, per integrarsi nell’ambiente mondano e fatuo che lo circonda.
Dopo il successo raggiunto con i suoi primi due film, Mariti ciechi e The Devil’s Passkey, andato perduto, il regista nativo di Vienna manifesta in Femmine folli tutta la sua ambizione artistica. Pieno controllo sul set, scenografie sfarzose e colossali, abolizione dei vincoli economici e di durata della pellicola. Fu l’effettivo punto di svolta della sua carriera e se fino a quel momento i produttori, nella persona di Carl Laemmle, avevano sfruttato la sua autorialità basandovi la strategia pubblicitaria, con tanto di cartellone luminoso a Broadway aggiornato con la cifra spesa durante le riprese, quando nella produzione subentrò Irving Thalberg la situazione si capovolse. Le spese di Stroheim vennero considerate insostenibili e il film fu tagliato drasticamente in fase di montaggio.
Stesso destino lo ebbero quasi tutti i film successivi, come nel caso ancor più noto di Greed, portando di fatto all’allontanamento di Stroheim da quella Hollywood che ha tentato di sovvertire e che nel giro di pochi anni lo ha innalzato per poi farlo cadere. Due decenni più tardi, una sorte simile toccò a un altro regista sedotto, seducente e abbandonato: Orson Welles.
La brutalità del reale
Come già Mariti ciechi, Femmine folli affronta il tema della crisi coniugale e dell’adulterio, che nella società e nel cinema americano di quegli anni erano largamente trattati, coniugati soprattutto dalla commedia che vedeva in Cecil B. DeMille ed Ernst Lubitsch i maggiori esponenti. Stroheim, però, non ne fa il nucleo del film e lo pone in relazione alla perfidia, l’ingenuità, l’ipocrisia del mondo rappresentato. Concentra il proprio sguardo sul torbido decadentismo che avvolge l’aristocrazia post-bellica.
La rappresentazione cinica e spietata di una parte della società non passa solo dalle azioni dei personaggi, ma anche e soprattutto dai contrasti che popolano la mise en scène. Dietro alle ville, i lussuosi hotel, i casinò, il cuore della Monte Carlo emblema della mondanità e dello sfarzo, l’immagine è contrappuntata da elementi e personaggi che riconducono ad un realismo cinico e speculare. Compaiono soldati su sedie a rotelle, un ufficiale che ha perso entrambe le braccia, una bambina con le stampelle, fogne, luoghi antitetici a quelli precedentemente mostrati, che intessono così un’unione tra realismo e simbolismo ricorrente nel cinema del regista austriaco.
Ipocrisia, meschinità, avidità, brutalità umana dominano in ogni anfratto dell’immagine e del racconto. Il divertimento “nobile” che prevede l’uccisione delle colombe, prese di mira dai fucili dopo essere state liberate dalle gabbie, rispecchia una brutalità profondamente radicata, che ha dato estrema prova di sé nel primo conflitto mondiale da poco conclusosi. È una sequenza che sembra anticipare quella della caccia in La regola del gioco (Jean Renoir, 1939), film dalle simili condanne. Non a caso, Femmine folli, e il cinema di Stroheim, si pone come forte influenza per certo cinema del decennio successivo, in particolare francese. Non solo il succitato Renoir; i contrasti nell’immagine, il tono beffardo, la forte sessualità del film riecheggiano nel cinema surrealista di Luis Buñuel.
Le pulsioni del vampiro
Karamzin domina la scena, in una triangolazione di sguardi con lo spettatore, dati i numerosi sguardi in camera, e i personaggi che lo circondano. È una figura glaciale, crudele, che con l’arma della seduzione tesse la tela dell’inganno ai danni delle donne che gli capitano a tiro. Proprio nel tiro al bersaglio si sta esercitando al momento della sua comparsa sullo schermo, mirando con la pistola a un avversario immaginario. L’inquadratura successiva lo pone frontalmente, mentre punta l’arma direttamente verso lo spettatore, in un’immagine simile a quella del bandito in The Great Train Robbery (Edwin Porter, 1903). Un gesto di natura quasi surrealista, che squarcia il velo di finzione, rappresentato della macchina da presa e legato a un mondo che nasconde una realtà ben più spietata. Ma è anche lo Stroheim attore che guarda e “affronta” lo Stroheim regista, lambendo la sfera psicoanalitica con la rappresentazione negativa del protagonista e le somiglianze con l’autore stesso.
Femmine folli, come l’intera opera stroheimiana, è pervaso da una forte pulsione erotica che, in questo caso, non sfocia mai nell’esplicito. Karamzin, più che dai soldi, è mosso dal desiderio e, sia per la bizzarra colazione a base di sangue di bue che per la stilizzazione lugubre e torva, è come un vampiro che si nutre del controllo che riesce a esercitare. Un desiderio e una sessualità che però vanno incontro a una reiterata repressione, sottolineata simbolicamente dalla presenza di croci religiose in molti dei momenti in cui il Conte si trova in compagnia delle donne da lui sedotte. Sino al pre-finale, in cui la croce viene avvolta dalle fiamme, a testimoniare il decadimento ormai irrevocabile.
Nella sequenza più rappresentativa dell’inibizione sessuale, in un tugurio lontano nello spazio e nel tempo dai luoghi del racconto e abitato da una donna anziana che nella parentesi fiabesca assume quasi il ruolo di una strega benevola, è l’arrivo di un monaco ad impedire al Conte di mettere in atto le proprie pulsioni e di avventarsi sulla moglie del diplomatico. Il desiderio era comparso vividamente in modo voyeuristico con lo sguardo lussurioso di Karamzin, amplificato dall’uso di un piccolo specchio con il quale osserva la donna.
Il dominio del falso
Il decadentismo e le brutture che si nascondono nella società mostrata sono definite dal senso di falsità che domina il film. L’identità del Conte e delle cugine, i suoi sentimenti e le promesse elargite, i soldi ottenuti dal falsario: tutto è falso. Ma il carattere simulatorio finisce con l’oltrepassare lo schermo e giungere nel reale. Oltre alle già sottolineate analogie tra il protagonista e Stroheim, la Monte Carlo che vediamo nel film è stata ricostruita totalmente negli studi della Universal, in un’impresa scenografica che superò la ricostruzione della Babilonia per Intolerance di Griffith. È tramite l’illusione del falso dunque che Erich von Stroheim riflette su di esso, osservando le ipocrisie e l’evanescenza della società aristocratica dell’epoca, che trovano corrispondenze con la stessa Hollywood.