In concorso al Biografilm Festival, Le Dernier Réfuge è un documentario del 2021 di Ousmane Zoromé Samassékou. Presentato in anteprima mondiale al CPH: DOX, ha vinto il premio più importante del Festival: Il Dox Award.
Samassekou inquadra volti, voci e storie in un film straordinariamente bello e umano sul non avere più una casa una volta che sei partito. Ma l’atmosfera della casa stessa esprime la malinconia dell’esilio.
Le Dernier Réfuge una storia di speranze
Parfois au début tu as tellement d’illusions
La città maliana di Gao è stata per decenni un rifugio pacifico per i viaggiatori africani. Qui, ai margini del deserto del Sahel, si trova la Casa dei Migranti, che è la dimora temporanea di migliaia di persone ogni anno. Quelli che, colmi di speranza, stanno andando in Europa e quelli la cui fortuna si è esaurita e che ora stanno tornando alle loro città e famiglie. Esther e Kady vi arrivano dal Burkina Faso, per recuperare le forze prima di continuare il loro viaggio. Qui stringono amicizia con Natacha, una donna che ha perso la memoria, svanita insieme alle speranze di ritornare a casa. Le tre diventano una famiglia, condividono momenti di gioia, speranza e tenerezza. Ma le ragazze non abbandonano il sogno di emigrare, nonostante le testimonianze di tanti tentativi falliti. Sulla casa sembra aleggiare la voce del deserto, che mormora storie di sogni e incubi.
Le Dernier Réfuge: un porto senza approdo
Comment vous sentez-vous, de quoi avez-vous besoin, lorsque vos rêves sont enfouis dans le sable, ou lorsqu’ils attendent d’être vécus ?
Il film inizia con l’ immagine della morte: un improvvisato cimitero distante dalla città di Gao in Mali, nel sud-ovest del Sahara.
Qui sono sepolti persone e sogni. Spesso anche bambini appena nati.
Solo un accenno all’anno di nascita su fredde lapidi di metallo improvvisate.
Erano abitanti della Casa dei Migranti, che da decenni ospita persone in viaggio verso l’Algeria e poi, si spera, verso l’Europa, o quelli che tornano dopo un tentativo fallito di trovare il loro posto nel paradiso ambito dell’Occidente.
Dal Burkina Faso sono arrivate anche Esther e Kadi, sedici anni, esiliate dalle loro famiglie. Esther, coperta dal chador, è profondamente ferita dentro e manifesta un orgoglio aspro e una forte diffidenza.
Un uomo senza nome, ma affabile, cerca di convincerla a dargli le informazioni personali e inizia a spiegare i pericoli che dovranno affrontare. Racconta con realismo le esperienze di altre donne senza istruzione, vendute come schiave del sesso in Algeria. Solo in quel momento la ragazza lascia scivolare una sola lacrima sulla guancia.
Una scena che da sola trasmette l’angoscia e l’inquietudine dei migranti dinanzi all’ignoto.
Le dernier réfuge e il sogno del viaggio
Le désert semble infini
Ma quante possibilità di riuscita ha il viaggio per loro?
Questi uomini e queste donne provenienti da tutta l’Africa subsahariana devono attraversare il deserto e raggiungere il poco accogliente nord dell’Algeria.
Molti vengono violentati o derubati da truffatori e contrabbandieri. Molti altri brutalmente uccisi da gruppi armati e banditi, tra cui Al Qaeda, che controllano i posti di blocco.
Chi riesce a salire su una barca per andare in Europa finisce in prigione, o annega durante il viaggio o resta imbrigliato nell’idea di un paradiso immaginario fatto solo di discriminazione.
Potente il racconto di un uomo che parla della “menzogna”, detta ai suoi familiari per rassicurarli.
Racconta di avercela fatta, di un’Europa accogliente, vergognandosi troppo per confessare di aver fallito e di aver perso tutti i soldi presi in prestito per finanziare il suo futuro.
Natacha, 48 anni, è nella Casa dei Migranti da cinque anni. Sta seduta sempre da sola, giocando a dadi senza scopo, fino a quando Kadi ed Esther, con le loro magliette del Barcellona e dell’Arsenal, non la portano nel loro mondo.
L’effetto della globalizzazione non riuscita è straniante e un alone di inadeguatezza pervade tutta la scena. La sensazione palpabile è quella di trovarsi ai margini di un limbo esistenziale. Un Non- luogo, fatto di ricordi ancora forti del passato e di un presente senza radici non ancora definito.
Straordinarie le musiche di Pierre Daven Keller: richiamano la sensazione del deserto e i rumori di un arido nulla che non propone obiettivi concreti e opprime i pensieri.
La bellezza poetica del documentario sta proprio in questa presentazione dei suoi personaggi, fatti di carne e sogni, ma irrimediabilmente segnati da amarezza, delusione e traumi indelebili.
I pochi momenti di tenerezza sono legati proprio al ritratto degli abitanti della Casa di Samassekou. Un ritratto che inonda la scena di luce improvvisa, allontanando l’oscurità di questo ultimo, desolato rifugio.
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