Il documentario Io resto di Michele Aiello, prodotto dal regista e da ZaLab Film, in anteprima italiana al Biografilm Festival di Bologna, mostra la cronaca di una struttura sanitaria bresciana nel marzo 2020. Un racconto per frammenti, un’alternanza di dialoghi e sole immagini, partecipazione emotiva e lunghi silenzi.
La vita dentro l’ospedale
Pazienti e familiari, infermieri, medici e personale sanitario ritratti con naturalezza, senza invadenza. La telecamera è posta al di qua di una finestra, all’esterno della stanza di ricovero; altre volte inquadra un primissimo piano; segue il personale lungo i corridoi oppure riprende stanze vuote. C’è un’infermiera che assiste un anziano paziente in videochiamata con i familiari, gestisce il tablet per lui e partecipa alla conversazione rincuorando i parenti; un’altra regge il telefono a una donna collegata al respiratore che comunica attraverso rantoli, mentre il rumore della pompa di ossigeno e il bip dell’apparecchiatura medica riempiono la camera. C’è spazio per il gioco e la complicità: una giovane sanitaria balla con una vecchia signora in cura. Dentro l’ospedale, pur attraverso le tute, i guanti e le maschere si crea un clima di vicinanza.
«Quindi l’epidemia ci incoraggia a pensarci come appartenenti a una collettività. Ci obbliga a uno sforzo di fantasia che in un regime normale non siamo abituati a compiere: vederci inestricabilmente connessi agli altri e tenere in conto la loro presenza nelle nostre scelte individuali. Nel contagio siamo un organismo unico. Nel contagio torniamo a essere una comunità».
Paolo Giordano, Nel contagio
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Una tecnica prudente
Aiello mantiene un equilibrio tra primissimi piani e una distanza rispettosa. Il contatto fisico tra personale e pazienti è accennato, breve, appena sfiorato dalla telecamera. Al contrario il regista sembra cercare nei volti dei soggetti un’espressività celata da maschere e visiere, concedendo lunghe sequenze dove il carico emotivo è tutto nel linguaggio e nella lucidità della cura offerta. Le immagini privilegiano la compostezza e l’ordine. Ritratti distanti da quei volti, stanchi e piagati, delle fotografie di Alberto Giuliani, raccolte tra il personale sanitario di Pesaro l’anno scorso; le immagini di Io resto mostrano un altro aspetto della scena ospedaliera, ovvero la costanza sul lavoro e il rapporto tra partecipazione umana e distacco. Il problema della distanza da assumere ha riguardato anche Fabio Bucciarelli, nel suo reportage sulla Croce rossa di Brescia per il New York Times, nello stesso periodo delle riprese di Aiello; il fotografo, pubblicato nello speciale di Internazionale, primavera 2020, dichiarava di aver cercato «un punto di vista eticamente corretto». La sensibilità unisce sanitari e reporter come parti della ritrovata comunità di cui ha scritto Paolo Giordano.
«Questo doppio dramma di morire senza i propri cari attorno, e di dover vedere morire qualcuno in solitudine, doveva essere raccontato. Ho cercato di farlo nella maniera più rispettosa possibile».
il regista
Storie e non cifre
Non c’è posto per i dati numerici. C’è solo un giovane membro del personale che racconta a una collega come, nelle prime settimane, morissero quattro-cinque anziani per turno di lavoro. Ai protagonisti e alle vittime del covid viene restituita quella dignità di cui sovente vengono privati dalle cifre giornaliere. La diffusione dei dati su contagi e morti trasforma – da un anno a questa parte – il dramma in consuetudine, il dolore altrui e il dolore collettivo in costume contemporaneo. Per molti, troppi il conteggio è un conto alla rovescia in attesa della riapertura. Io resto, con la responsabilità del suo contenuto, allevia il senso di cinismo che s’instaura tra un’ondata e l’altra, contro al quale non c’è ancora vaccino.
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