Premiato al Sundance e in anteprima italiana al Biografilm Festival, Sabaya illustra le vicende dell’organizzazione di volontari Yazidi Home Center.
Fondata da Mahmud e Ziyad, mette insieme un gruppo che segue le tracce di un traffico di donne Yazidi*, rapite in giovanissima età dai Daesh, ossia l’ISIS. Dopo aver assistito inermi all’uccisione degli uomini amati, la loro destinazione diventa Al-Hol Camp (al confine tra Siria e Iraq).
Vendute, fatte sposare e ingravidate dai loro stessi rapitori, subiscono ogni giorno percosse, maltrattamenti, umiliazioni e sono condannate per sempre a un’esistenza di schiavitù. Il titolo Sabaya sta appunto a indicare “schiava del sesso”.
Sabaya | Un racconto di coraggio estremo
Diretto da Hogir Hirori, il documentario possiede una forza intrinseca, derivatagli dallo stesso racconto. In Siria sono quasi 2000 le donne Yazidi ancora disperse. Le poche fortunate, che hanno incontrato sulla loro strada dei veri e propri angeli salvatori, hanno dovuto affrontare la peggiore delle esperienze.
Nel corso dei 90 minuti di durata, Sabaya rende perfettamente l’idea di quanto accade. Lo sguardo del pubblico viene pilotato dalla macchina da presa: la visione è parziale, come se avvenisse attraverso il velo delle donne, mentre alcune sembrano riprese di nascosto, dal basso verso l’alto.
«Il pericolo più grande è quando le cose sono tranquille.»
La percezione di pericolo e minaccia costante, di vulnerabilità estrema, va di pari passo con il coraggio di uomini e donne impegnati ogni giorno nel salvare quante più vite possibili.
Lontano da casa, nella tana del lupo
Tra gli incaricati di studiare mappe, fare ricerche e interrogare persone, c’è anche chi sceglie di agire in veste di “infiltrato”. Ovviamente il compito non può che spettare alle donne, alle quali viene chiesto di comportarsi come Daesh, mescolandosi alle altre presenze femminili nel campo, e di non svelare nulla nel caso in cui vengano scoperte.
La missione richiede sacrificio, abnegazione; la paura ne fa parte integrante e serve anche a mantenere alto il livello di attenzione e prudenza. Lo stesso personaggio di Mahmud incarna tutto questo. Lo vediamo lontano da casa e dalla sua famiglia, con la moglie e i figli che cercano di sfruttare al massimo ogni istante insieme a lui.
Il tempo gioca un ruolo cruciale in tutti i sensi: per chi vive in uno stato di schiavitù, per chi vuole riabbracciare i propri cari, per chi aspetta di ricevere una chiamata.
Se il ritorno a casa non rappresenta la pace
La comunicazione è un altro tassello imprescindibile. Non a caso vediamo spesso Mahmud alle prese con problemi di ricezione del suo cellulare, arrivando infine ad avvertire gli inconfondibili suoni di notifica come un segno del cielo. Perché tanta speranza è, per ovvi motivi, riposta nella velocità dei messaggi.
Ma dietro l’agognato salvataggio e il conseguente ritorno alla “normalità”, si intravedono situazioni comunque complesse. Dalla voce di una delle donne ritrovate, appare evidente la difficoltà di reinserirsi. Dopo aver trascorso anni – fondamentali per la crescita – in un luogo ostile, l’idea di casa è difficile da visualizzare. La solitudine, il senso di colpa, il pensiero suicida sono elementi che non abbandoneranno più queste donne.
«Come può Dio permettere tutto ciò?»
Sabaya restituisce così parte del loro dolore, risvegliando la coscienza di un’umanità troppo a lungo sopita. L’esempio di Mahmud e Ziyad dovrebbe essere diffuso, conosciuto e seguito ovunque.