Distribuito da Marechiaro Film e diretto da Antonietta De Lillo Fulci Talks riporta in vita il regista di Non si sevizia un Paperino e Sette note in nero con una conversazione a tutto campo sul cinema e sulla vita. Da sempre interessata a filmare le vite degli altri, alla De Lillo abbiamo chiesto di raccontarci il suo incontro con Fulci.
Fulci Talks o del cinema ritrovato. Ho aggiunto questo sottotitolo perché il tuo documentario non esaurisce i motivi di interesse nell’oggetto filmico, ma induce a riflettere sul potenziale cinematografico degli archivi e poi sul rapporto tra le immagini e il proprio tempo.
Assolutamente. Intanto ti ringrazio per questa riflessione perché è alla base della ragione per cui dieci anni fa ho fondato Marechiaro Film, ovvero l’idea di guardare al futuro preservando il passato.
L’idea che le nostre immagini possano servire per più racconti l’ho verificata sul campo nelle riedizioni dei ritratti, prima della Alda Merini e ora di Fulci. Fulci Talks, infatti, è un film totalmente diverso da La notte americana del dottor Fulci, pur partendo entrambi dallo stesso materiale, e avendo entrambi la stessa regista e lo stesso protagonista. L’unica cosa che è cambiata è il tempo, il mio sguardo su quel materiale.
Il progetto di Fulci Talks ce l’avevo a cuore da tempo. Recuperare il materiale è una cosa molto faticosa: bisogna prendere le cassette, capire in che stato stanno, constatare quanto è rimasto del girato. È un lavoro di pazienza e di passione, per il quale devo ringraziare anche Fabrizio D’Alessio che si occupa di archivi e che mi ha aiutata nel recuperarlo.

A proposito di percezione, a cambiare è quella nei confronti del regista, il cui pensiero un tempo era considerato fuorilegge, bandito dai salotti buoni, mentre oggi risulta addirittura visionario. Lette ai nostri giorni, le parole del regista sembrano pronunciate oggi e non trent’anni fa.
Sì, questo dipende dall’incontro di più elementi: di Fulci, del montaggio e della magia di cui è capace il cinema quando le cose si incastrano bene. Io ho incontrato il regista grazie a Marcello Garofalo, che ha curato con me l’intervista in un momento preciso della carriera di Fulci: nel momento in cui la critica più all’avanguardia si stava accorgendo di lui e il mondo intorno stava rivalutando il suo lavoro. Questa conversazione è un piccolo miracolo, perché lui si concede con grande generosità, parlando di cinema, e non solo, in una maniera così libera e sorprendentemente attuale da sembrare un’intervista dei giorni nostri.
In questo senso Fulci Talks è una sorta di resurrezione del regista.
Sì, parliamo di un fantasma, perché noi incontriamo Fulci quando non c’è più, ma abbiamo comunque la possibilità di parlargli come se fosse vivo e lottasse insieme a noi.

Entrando nel merito, Fulci parla del suo tempo come conversasse dell’oggi: succede, per esempio, quando mette in relazione il cinema di genere con quello d’autore. In passato era considerato un paragone blasfemo – non considerando che registi della nuova Hollywood come Martin Scorsese e Hal Hasby facevano dei generi la struttura portante dei loro film – mentre oggi un autore come Marco Bellocchio, con Il traditore, dimostra la contiguità delle due forme.
Pur essendo un’intervista di trent’anni fa, resta estremamente attuale; Fulci sembra parlare a noi direttamente. E parla di tante cose, di politica, di famiglia, di cinema, definendosi un maestro dei film di genere, pronto a intraprendere un corpo a corpo tra film di genere e film d’autore. E con molta ironia cita alcuni autori, in particolare Marco Bellocchio, affermando che a differenza sua sono incapaci di “andare in barca a vela”, come metafora del viversi la vita perché troppo intenti ad arrovellarsi la mente con i propri incubi. Comunque dopo trent’anni il cinema di genere è diventato molto più frequentato e questa differenza con il cinema d’autore si assottiglia sempre di più. Infatti, lo stesso Bellocchio con Il traditore sembra sfiorare il cinema di genere.
Fulci denuncia la matrice ideologica di questa condizione parlando di autori coccolati dalla politica. Più volte ricorda come i critici, pur apprezzando Beatrice Cenci, dicessero che era impensabile dare tre stelle a un regista di film di genere come Fulci.
Esatto! Voglio sottolineare il termine coccolato e non raccomandato, perché il primo esprime uno stato di pigrizia sconosciuto a un regista come Fulci, che invece appare sempre pronto a combattere come deve esserlo un artigiano che con il cinema ci deve vivere: per Fulci il cinema era una passione, ma era anche il suo lavoro. Per questo metteva il suo ingegno e la sua creatività continuamente al servizio del pubblico e non di una élite. Nel ritratto, ci racconta aneddoti divertenti come quello sul film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, in cui, con pochi soldi e senza gli effetti speciali, dovette ingegnarsi per ricreare l’immagine del Cosmo. Nel corso dell’incontro, a Fulci s’illuminano gli occhi quando parla delle soluzioni trovate a suo tempo per certi film dell’orrore, sul come riuscire a fare paura in un’epoca non ancora digitale, ma analogica. Soprattutto Fulci ci dice che per fare il cinema ci vuole una grande ironia.
Un concetto ribadito da Fulci quando, parlando del rivale Dario Argento, ha affermato che la differenza tra loro due era la mancanza di ironia del collega, incapace di prendere le distanze dai propri film, di ridere delle proprie paure.
Nel ritratto il tormentone con Dario Argento è molto divertente. Da questo capiamo il rapporto di Fulci con il cinema: un legame che vede sempre il pubblico in prima linea. Ovviamente Fulci si rammarica del fatto che Argento faceva più soldi al botteghino di lui, ma sottolinea la distanza e il distacco che lui aveva rispetto ai suoi film, al contrario di Argento, e soprattutto la mancanza di ironia nei film di Argento; elemento che al contrario contraddistingue, a suo dire, tutto il suo cinema.
Quando giro un film, sono allo stesso tempo regista e spettatrice, e come spettatrice questa nuova e lunga conversazione con Lucio Fulci mi ha dato davvero molti spunti di riflessione sul cinema attuale. Spero che questa sensazione sia condivisa con gli altri spettatori. È stato un lavoro lungo: abbiamo impiegato più di un anno e mezzo. È proprio parte del mio metodo di lavoro quello di prendermi molto tempo per vedere e rivedere il girato e solo dopo che lo conosco bene iniziare a costruire un discorso, potrei direi, a scrivere la sceneggiatura. Solo dopo aver composto il discorso, mi occupo di confezionarlo, dandogli una forma che mi viene suggerita proprio dai contenuti. Per quanto riguarda Fulci Talks, “ricostruire” questo stile vintage e uncut è stato un lavoro elaborato, realizzato con creatività insieme alla giovane montatrice Elisabetta Giannini.

In Fulci Talks si capisce come, a fronte delle sue smargiassate, Fulci fosse in realtà un fine intellettuale, corrisposto e stimato da alte personalità del proprio tempo.
Nell’intervista si intuisce che Fulci era immerso in un ambiente molto vivace. Tutta la sua vita è ricca di incontri unici, da Truman Capote a Steno, che lui definisce il suo maestro. Fulci era un raffinato conoscitore del cinema, perché, come lui stesso dice, ha amato tutto il cinema, non solo il suo.
L’intervista si è svolta nel momento in cui c’era una rivalutazione del lavoro di Fulci capitanata dal critico Claudio Carabba. Da li in poi ci sarebbe stato quel riconoscimento che ha tutt’oggi lo ha reso uno dei registi cult del nostro cinema.

In Fulci Talks riconosciamo, non solo i pregi dell’artista, ma anche l’attitudine dell’uomo. In lui arte e cultura non diventavano mai posa. Al contrario, Fulci rimane sempre molto pragmatico e concreto rispetto alla propria arte.
A me questo atteggiamento piace moltissimo. Credo sia importante sottolineare le doti di Fulci, un uomo che non ha mai fatto un passo indietro rispetto alla vita, pagandone tutte le conseguenze. Lui stesso si definisce un bugiardo, uno che ha dilapidato tutto il suo patrimonio. Infatti, lui, oltre che un divoratore di cinema, è stato anche un divoratore di vita. In questo momento vedere una persona così affamata di vita e di esistenza penso ci faccia bene.
Fulci era uno che non si faceva problemi a fare nomi e cognomi delle persone a cui si riferiva. Al contrario di quanto succede oggi con il dilagante politically correct, Fulci si prendeva la responsabilità di quello che diceva, andando fino in fondo nelle sue opinioni.
Nella conversazione che abbiamo avuto, Fulci dice chiaramente chi gli piace e chi non gli piace e questo lo trovo non solo molto divertente ma anche giusto. Sembra una cosa scontata, ma troppo spesso invece prevale un atteggiamento condizionato dal politicamente corretto. Io sono d’accordo con lui quando dice che va visto tutto il cinema, non solo il nostro e non solo quello che ci piace. Come Fulci, penso che vada detto chiaramente cosa ci piace e cosa non ci piace e da che parte siamo.
Al di là della concretezza di cui abbiamo detto, nel film si sottolinea la componente concettuale e teorica presente nei lavori di Fulci: dei suoi horror diceva che ruotavano intorno a un’idea di partenza, mentre a proposito di uno dei suoi più grandi successi, e cioè Zanna Bianca, affermava di aver voluto raccontare la violenza degli uomini contro gli animali.
Innanzitutto, bisogna dire che Fulci non è solo Zombie ma tanto altro. Infatti, quando ci parla di Zanna Bianca lo fa alla stregua dei registi di film d’autore, alla ricerca sempre di un sottotesto che lo guidi. E lui questo lo ha sempre fatto anche con i film su commissione. Infatti, Fulci era un serio professionista che sapeva confrontarsi con tutti i generi che gli capitavano, dai film comici, ai film dell’orrore a quelli d’avventura. Poi, in quanto terrorista dei generi, li destabilizzava inserendovi qualcosa di suo; come fanno molti artisti, riusciva a trovare fili invisibili in grado di creare una chiave drammaturgica e formale tale da rendere il risultato molto personale. Per scherzare, lui diceva di aver fatto tanti film ma di averci messo sempre qualche puntarella… magari senza alici! (ride, ndr).

Invece di ripetere lo stesso film, replicando i film di maggiore successo, Fulci andò sempre alla ricerca di qualcosa di diverso, lavorando all’interno del genere con soluzioni che ne andavano a violare regole e codici.
La cosa bella di Fulci era la generosità, non solo nella vita ma soprattutto nel cinema. Al di là della creatività, le scelte che faceva avevano sempre l’obiettivo di dialogare con il suo pubblico e di sorprenderlo. Fulci non ha mai fatto delle cose per sé stesso: il pubblico è stato per davvero il suo interlocutore. Dirlo sembra una banalità, ma non lo è, perché troppo spesso chi si occupa di creatività fa delle immagini il riflesso di sé stesso. Un atteggiamento che Fulci non ha mai avuto rispetto ai propri film e che lo ha portato ad essere scoperto e amato da un regista come Quentin Tarantino, maestro apprezzatissimo del cinema contemporaneo. Fulci infatti non è solo un poète du macabre come lo definivano i francesi all’epoca, ma si è confrontato anche con film politici, nei quali però non mancava mai una punta di ironia. Parlando del suo film All’onorevole piacciono le donne con Lando Buzzanca, Fulci si chiedeva come mai i registi non facessero più film politici alla sua maniera, ovvero non seriosi ma divertenti e leggeri, in grado di arrivare alle persone. Diceva, e aveva ragione, che la cosa più difficile e sorprendente era riuscire a renderli divertenti piuttosto che impegnati.
Una parte interessante di Fulci Talks è appunto quella che riguarda la politica e la censura di cui anche Fulci fu vittima. In questo senso un film come All’Onorevole piacciono le donne meriterebbe di essere riscoperto, per come riesce a parlare dei nostri tempi attraverso le figure della politica.
Si, lo dovremmo riscoprire e penso che lo faremo. Da questo punto di vista sono ottimista, perché credo che questa orribile pandemia abbia risvegliato in noi una voglia di partecipazione alla vita sociale e politica e quindi mi auguro, come dice Fulci, che si ritorni a produrre un cinema politico, ma anche divertente, che voglia incidere sulla società. D’altronde che cos’era la commedia all’italiana se non un modo di fare un cinema politico, ma estremamente popolare ed efficace e in grado di parlare a tutti?
Uno degli elementi che più appartiene al cinema di Fulci è la curiosità per tutti i tipi e tutti i generi di cinema possibili. Questo suo approccio lo trovo estremamente intelligente e in questo dovremmo imparare da lui.
Penso infatti che sia molto stimolante avvicinarsi a qualcosa che è completamente diverso da noi, perché da questo incontro può nascere qualcosa di incredibile in grado di offrirci nuovi e inesplorati punti di vista sul reale. Io e Fulci, ad esempio, siamo molto diversi, non solo nell’età e nel modo di fare i film, ma anche per il nostro diverso approccio ai generi. Tutto sommato è sorprendente che una donna abbia posato lo sguardo su un regista così distante e apparentemente più adatto a catturare l’animo maschile.
Conoscendo il tuo cinema, si può dire che quello di Fulci è quanto di più lontano dal tuo.
Ad un primo sguardo sì, e questo è importante sottolinearlo, proprio per eliminare tutti quei pregiudizi che spesso limitano la nostra curiosità. Il cortocircuito e l’arricchimento si verificano proprio quando c’è un incontro così apparentemente distante, ma in cui, al contrario, puoi trovare un sacco di punti di unione.
Anche perché a un certo punto è stato considerato un regista misogino, nonostante continuasse a dire di amare le donne.
Io non lo so se fosse misogino oppure no. Sta di fatto che si è fidato di una giovane regista, per giunta donna. Da parte mia invece c’è stata la lungimiranza di andare contro lo stereotipo di chi pensa che le donne debbano fare solo film su determinate tematiche, senza invece avere la curiosità di andare a conoscere qualcosa di diverso da sé stesse.
Fulci Talks ha una forma efficace, perché molto pensata. Il tuo film infatti non ci restituisce solo le parole e la dimensione spirituale del regista, ma lo presenta in carne e ossa. Nel senso che sei in grado di far venire fuori la schiettezza e la personalità dell’uomo. Ci riesci mettendovi dentro quello che di solito rimane fuori campo e che invece integri nella narrazione, dando sostanza al discorso cinematografico, ma anche alla componente umana di Fulci.
Innanzitutto, ti ringrazio molto per questa osservazione. Quando mi approccio ad un soggetto nuovo, mi piace trovare di volta in volta la forma più adatta a rappresentarlo. Da qui il fatto di non riferirmi mai a strutture che ho già usato. Ascolto sempre la materia dei miei film e in questo caso mi ricordavo che quando avevamo montato La notte americana del dottor Fulci, io e Giogio Franchini, all’epoca molto giovani, ci aspettavamo dei racconti più splatter, più surreali. Essendo stato proprio il suo parlare senza fermarsi mai ad averci creato molte difficoltà, invece di dargli libero sfogo, lo costringemmo a stare dentro un montaggio molto serrato in modo da contenerlo. Da allora sono passati tanti anni e invecchiare non è sempre solo un danno, ma ti dà anche l’opportunità di accogliere meglio quello che ti viene dato dall’esterno. Così, quando ho rimesso mano a quel materiale, la soluzione migliore mi è parsa quella di restituirlo come se non ci fosse stato nessun montaggio: in questo senso avremmo favorito la sensazione di Fulci come un fiume in piena, inserendo all’interno del film tutti i fuori set, compresi quelli in cui dice “andiamo”, “riprendiamo”, “attenzione, suonano al campanello”. In questo modo è come se rivolgessimo la camera verso di noi, presenti non solo in quanto registi ma prima di tutto come onnivori ascoltatori. Durante il montaggio, abbiamo tentato di ricostruire tutte le code in maniera digitale. La chiave è stata la stessa che guida da sempre Marechiaro Film, ovvero il recupero del passato. Per farlo è stato determinante l’uso degli effetti digitali, che dico sempre essere come l’aria condizionata: se la conosci non ti uccide e ti fa bene. Questo per dire che bisogna usarli, ma in maniera parsimoniosa e partendo, come ho fatto io, dalle vere code e le vere barre, da immagini analogiche trattate con le potenzialità che il digitale oggi ci offre.
Nel film lasci interruzioni, immagini sgranate, in parte rovinate. Mi pare che questa scelta riproduca il senso del personaggio e cioè la stessa anarchia che ha guidato Fulci nel corso della sua carriera. Tu la metti dentro immagini altrettanto anarchiche, in un cortocircuito tra arte e vita che è uno dei punti di forza del film.
Direi che hai centrato il punto. Come ti dicevo prima ne La notte americana del dottor Fulci il mio intento era di contenere la sua energia. Ora invece il regista è presente come un ininterrotto flusso di coscienza. Attraverso le scelte formali da te menzionate volevo dunque riprodurre quella vitalità, quell’essere uomo senza freni che è stato Fulci nella vita.

La critica, quando scrive, rischia di diventare autoreferenziale. Invece nel caso di Fulci Talks l’esercizio dell’ intervista permette al discorso critico di entrare in dialettica con il suo interlocutore. Penso che si tratti di un esercizio utile.
È sempre un esercizio utile incontrare l’altro in qualsiasi situazione. Lo è in particolare modo per un regista. In primis, perché ci fa tornare a casa con un pezzo della vita degli altri, e poi perché ci aiuta a tenere a bada le conseguenze di un egocentrismo peraltro indispensabile per sostenere lo sforzo di chi è chiamato a costruire nuovi mondi. Tutto questo ci insegna a farci invisibili, a fare un passo indietro per far accomodare i nostri personaggi nella maniera in cui dice Fulci, quando rivolgendosi alla mdp dice di essere solamente una nostra idea. Per farlo, devi essere assolutamente capace di nasconderti. Questo esercizio è tanto utile quanto necessario, anche, e direi soprattutto, per i critici, che dovrebbero mettersi completamente al servizio della propria funzione di “primi spettatori”. Ma troppo spesso ci troviamo di fronte a prime donne più impegnate a mostrare la propria personalità piuttosto che a restituirci l’essenza di quello che hanno visto. In tal senso se penso a questo ideale di critico sensibile, con capacità di analisi, che fa il proprio mestiere con delicatezza e raffinatezza, non posso non pensare al grande Alberto Farassino.
Parliamo del cinema che ti piace
Il cinema che mi piace si occupa delle vite degli altri: le biografie mi affascinano e penso che si potrebbe fare un film sulla vita di tutte le persone. Ma come Fulci, anche io amo tutto il cinema, sia quello di genere che quello d’autore. E la sera quando arrivo a casa, mi metto sul divano e appoggio il mio cervello sul comodino. Mi piace passare il tempo guardando film sui disastri aerei, perché la magia del cinema sta proprio nel farti vivere delle situazioni terrificanti, ma in totale sicurezza, rendendole a volte anche divertenti.
Amo i film di Fulci: su tutti 7 note in nero, Non si sevizia un Paperino, Una sull’altra, I quattro dell’apocalisse. Film che oggi si possono vedere sulla piattaforma Cecchi Gori, come pure su CHILI. Inoltre Sette note in nero e I quattro dell’Apocalisse faranno parte di una mini rassegna, accompagnando la visione di Fulci Talks nelle sale italiane.
