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La cordigliera dei sogni. Conversazione con Patricio Guzman

Guzman nella nostra intervista esclusiva racconta con il suo film il Cile tra mitologia del paesaggio e realismo della Storia

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Ultimo tassello di una trilogia iniziata con Nostalgia della luce e proseguita con La memoria dell’acqua, La cordigliera dei sogni di Patricio Guzman racconta il Cile attraverso una recherche proustiana in cui la mitologia del paesaggio e il realismo della Storia danno vita a una narrazione poetica e visionaria. Distribuito da I Wonder Pictures a partire dal 10 giugno, de La cordigliera dei sogni abbiamo parlato con Patricio Guzman

Dopo Nostalgia della luce e La memoria dell’acqua, anche ne La Cordigliera dei sogni la natura conserva la memoria delle vittime. Le fa in qualche modo tornare in vita anche al cospetto di chi non le vuole vedere. Forse è per questo che il potere tende  a farcela dimenticare, se non a distruggerla?

Penso che per il Cile la Cordigliera sia una frontiera enorme, un vero muro. Da una parte rappresenta il punto in cui finisce il paese, dall’altra è la barriera che lo separa dall’Oceano Pacifico,  anch’esso un’immensità enorme e terribile. Dunque, noi siamo in questo corridoio tra il mare e la montagna e questo è un modo  molto interessante di considerare la Cordigliera. 

Piuttosto che del mare e della montagna il governo preferisce parlare di economia, che poi è un modo per nascondere altre verità e per oscurare mentalità  diverse dalla sua.

I cileni sono un popolo incredibilmente sensibile e capace di inventarsi un modo di vivere  in un territorio difficile, quello tra la Cordigliera il mare; considerando che a nord di Santiago c’è un deserto altrettanto inospitale.

Siamo un popolo attaccato al nostro territorio, alla terra, alle vallate, alla montagna. Per noi non è naturale parlare solo delle questioni economiche e  governative. Ma la memoria è enormemente  dimenticata, nessun governante ne fa menzione. L’educazione popolare invece fa esattamente il contrario, occupandosi principalmente del passato e della memoria.

Esemplare è la sequenza in cui vediamo l’immagine della Cordigliera nella metropolitana, mentre le persone le passano accanto senza accorgersi della sua presenza. Ne La cordigliera dei sogni, come anche in altri film, il sentimento arriva anche attraverso la composizione di immagini poetiche, in cui il paesaggio fisico viene trasfigurato in un luogo dell’anima.

Credo ci sia una cospicua parte della popolazione che parla della Cordigliera, riuscendola a sentire. D’altronde è una montagna veramente grande, che occupa buona parte del territorio del nostro paese.  Ci separa dal mare, per cui è una barriera naturale, impossibile da dimenticare. Lo vediamo dai contenuti e dalle parole della nostra vita quotidiana in cui è sempre presente. Ma Santiago ha milioni di abitanti; è una città moderna, dove ci sono tante cose da fare, tanti percorsi da coprire. Quindi non ci si pensa. La si dimentica. Ma se tu inizi a parlarne con qualcuno, all’improvviso i ricordi della Cordigliera si manifestano chiari alla memoria. Così fa il mio film, addentrandosi un poco alla volta nelle sue propaggini, considerandone le cime come lo si farebbe in un viaggio intorno ad esse. A poco a poco nella Cordigliera le montagne vi diventano protagoniste come già lo sono nei libri di storia e nelle fotografie.

Viverci dentro però è un’altra cosa. Dall’esterno è impossibile. Sembra vicina,  invece è lontana. È  come l’immagine di un altro paese o, come appare nelle immagini dei cartelloni pubblicitari, una sorta di biglietto da visita da mostrare nella sua bellezza a tutti i paesi del mondo.

La Cordigliera dei sogni è una sorta di recherche proustiana perché  è attraverso  gli elementi del paesaggio, i suoni, i colori e i sapori che la memoria del passato viene a galla. 

Sì, è un’operazione intellettuale e teorica, quella utilizzata dal film per il ritratto del Cile. In generale, se tu  non menzioni  la Cordigliera nessuno ha un’opinione: la Cordigliera è là, ma è invisibile,  anche mentalmente. Nessuno parla della solitudine che rappresenta. Di fatto è un muro, una frontiera. Gli siamo accanto, ma facciamo finta di non esserlo, come succede quando non vogliamo indagare le parti sconosciute della nostra vita. 

Al suo interno non ci sono città, anche  se una parte di Santiago si estende al suo interno, iniziando a salire di quota. Dunque siamo vicini ad essa, ma lontani, per le ragioni appena dette.

In effetti la storia del paese, e in particolare della dittatura di Pinochet, sembrano nascere dal contatto con quel paesaggio, come se quest’ultimo fosse in grado di far rinascere la memoria sopita. Nei tuoi film, e anche in questo, la visione del paesaggio naturale è antecedente a quello storico. 

Sì, forse. Ma la Cordigliera è una montagna enorme: non un paesaggio, ma piuttosto un muro, e in quanto tale violento. Non è possibile vivere accanto a queste altezze, sono troppo elevate, anche a quote minori. Come paesaggio è bello in fotografia ma non è un amico vicino e  cordiale. Arrivo persino a dire che è una persona di cui diffidare.

Dalla mitologia del paesaggio al realismo della storia e dei suoi eventi. Nella tua narrazione questo rapporto mi sembra imprescindibile. È così? 

Sì, penso che questa relazione esista . Tutta la storia del Cile è legata alla montagna, però è difficile sapere come interpretare questo legame. Tutti i libri ne parlano. Sia oggi che nel passato, quando si parla del paese si cita sempre la Cordigliera. Nei documenti la montagna è più presente del mare, anche se quest’ultimo occupa 5000 km di costa. Succede perché il mare non lo si conosce, è un mistero, è un compagno imponderabile . La montagna invece si. È più vicina, la ascoltiamo quando piove, quando c’è la tormenta ne udiamo l’eco. L’oceano è sconosciuto, non è sfruttato, non c’è una pesca industriale, nessuno prende un’imbarcazione per andare da sud al nord perché si preferisce utilizzare l’aereo. L’oceano è un altro mistero: sarebbe un bel soggetto per un altro film 

Paolo Conte dice di essere uno scrittore di paesaggi e non di se stesso; Emanuelle Carrère parla della letteratura come il luogo della verità, anche autobiografica. La Cordigliera dei sogni, e più in generale il tuo cinema, mi sembrano una sintesi di questi due aspetti, legati per te uno all’altro. 

Ogni volta che lavoro su una sceneggiatura è sempre la stessa cosa. È come andare sul fondo. Da qui al Cile. Da anni vivo lontano dal mio paese; ciononostante, quando me ne occupo, è come scendere in profondità, dalla terra al profondo del mare. Nel momento in cui questo succede, comincia il film. Non so come si possa descrivere questo viaggio,  ma credo che tale immersione  per me rappresenti la  vera porta di accesso al Cile. È  come se avessi un paracadute che mi permette di volare via ogni volta che finisco le riprese.  Sparisco. È strano questo, ma credo che ciascuno di noi viva una relazione complessa con il luogo in cui è nato.

Dalla dittatura militare a quella economica. Nel film affermi come la prima sia servita al potere per instaurare nel paese uno spietato modello liberista e un’analoga visione del mondo, in cui i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Dunque, la dittatura è ancora viva e anche per questo è necessario continuarne a ricordarla nelle sue nefandezze. 

Oggi il panorama è cambiato in maniera straordinaria: l’ottanta per cento della popolazione  è contro questo ingiusto militarismo neo liberale, e questo per il Cile  costituisce una formidabile immagine da offrire al mondo. È un fenomeno presente in tutti i paesi europei. È un processo strano, militante ma non politico.  Ed è sempre nuovo.

Quando si pensa alle dittature, sono preponderanti le immagini delle crudeltà compiute e non gli interessi pratici che vi stanno dietro. Il tuo film invece rispolvera il concetto sulla banalità del male, rappresentato appunto dalla motivazione dello sfruttamento economico. Il principio ideologico nasconde gli interessi pratici e il tornaconto di una ristretta cerchia di persone. 

Da cui la straordinarietà di quello che succede oggi in Cile, con la costruzione di un fronte unico, capace di pensare a una nuova costituzione. Sento che mi manca un ponte tra il passato ed il presente. Può essere che, se andassi là, potrei fare una riflessione più dettagliata e profonda, forse.

Mi sembra che in questo film, più che i due precedenti, ci sia un’affermazione d’intenti della tua arte, nata dalla volontà di testimoniare verità altrimenti dimenticate. La figura di Pablo Salas in questo senso è esemplare. Lui non ha mai smesso di filmare la dittatura dal 1973 in avanti. 

Paolo è un personaggio straordinario, umile,  silenzioso: ha girato sempre in maniera intuitiva, e continua a farlo ancora oggi. Possiamo comparare quello che faceva prima a quello che fa ora:  in entrambi i casi, lui è sempre in  strada a filmare, a testimoniare la rivolta della nuova gioventù, presentando i loro nuovi leader. È magnifico il rapporto che ho con lui. Lo conosco da tanti anni, ma oggi siamo più vicini, comprendiamo molto bene il nostro lavoro. Questo è molto bello, soprattutto per me. Sono molto contento di questo.

Nel film accenni alla nuova generazione di cineasti cileni, per cui volevo chiederti cosa ne pensi del cinema di Pablo Larrain e di un attore come Alfredo Castro. Anche perché nelle loro opere tornano spesso a  occuparsi della dittatura cilena. 

Penso che Alfredo sia un attore magnifico. Amo il secondo film di Larrain, Tony Manero, enormemente. Ammiro in generale il loro lavoro. È un altro modo di guardare la realtà cilena. Ciò detto, penso che il cinema documentario abbia un’altra dimensione rispetto alla fiction. Quest’ultima non è il mezzo esatto per mostrare la situazione del Cile di oggi. Si possono creare simboli, metafore delle sue questioni, ma penso che la realtà del Cile di oggi sia più importante di qualsiasi altra cosa.

 

PS.  Per la traduzione dal francese ringrazio Paola Lavini senza la quale questa intervista non si sarebbe potuta fare.i

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