In prima linea di Matteo Balsamo e Francesco Del Grosso, una produzione Giotto Production in collaborazione con Merry-Go-Sound, distribuito da Trent Film e premiato come miglior documentario all’edizione 2021 dell’International Filmmaker Festival of New York, arriverà in sala il 10 giugno.
Tredici fotoreporter di guerra si mettono a nudo davanti alla macchina da presa, togliendosi di dosso tutti gli stereotipi associati a questa figura professionale molto spesso considerata borderline, spavalda del pericolo, avida di situazioni adrenaliniche. Uomini e donne, di differenti generazioni, stili, esigenze personali, abbracciano la scelta di raccontare realtà terribili e disumane, l’unica possibile per loro. Freelance solitari, chiamati inconsciamente o casualmente a una vita perennemente nomade, lontana dagli affetti o priva di legami stabili, imprigionati emotivamente nell’inferno che guardano e fissano con le loro istantanee fotografiche.
In prima linea: un documento di testimonianza
Il documento che In prima linea ci offre resta relegato nella struttura della testimonianza. Isabella Balena, Giorgio Bianchi, Ugo Lucio Borga, Francesco Cito, Pietro Masturzo, Gabriele Micalizzi, Arianna Pagani, Franco Pagetti, Sergio Ramazzotti, Andreja Restek, Massimo Sciacca, Livio Senigalliesi, Francesca Volpi ci mostrano con le parole cosa significhi essere un fotoreporter, perché si è scelto di raccontare per immagini e perché raccontare proprio la guerra.
Tutto il materiale girato, compresi i documenti fotografici e le immagini, dipana una matassa che umanizza e relativizza profondamente un mestiere così particolare. Sul campo si arriva dopo essersi documentati politicamente e storicamente attorno al luogo di guerra scelto. La logistica è imprescindibile: salva la vita. Tutto va pianificato a dovere. Il rapporto attuale con i media, il mutamento del modus operandi con l’avvento del digitale. Una prima parte necessaria ad inquadrare chi è di fatto un fotoreporter. La stessa identità di freelance rende più vulnerabili, anche se più liberi, con tutti i limiti, compresi quelli economici, di cui tenere conto.
In prima linea: come si sceglie cosa scattare
L’aspetto più coinvolgente è quello emotivo, nel rapporto non privo di contraddizioni e lotte interiori su ciò che il fotoreporter sceglie di scattare. Fino a dove può spingersi, quanto può andare oltre la violenza apparente della macchina fotografica al momento tragico che si osserva. Il legame con la morte, la consapevolezza di averla sempre accanto, di sentirla, di non poterle sfuggire. Le ferite interiori di tutti gli orrori in cui si è immersi, incancellabili, il rapporto con una normalità destabilizzante a cui doversi adattare nei luoghi di pace del dopo.
In prima linea, però, per scelta, si tiene distaccato visivamente da tutto questo, forse troppo. Riusciamo ad empatizzare con le singole individualità ed esperienze dei fotoreporter, ma non a superare quella demarcazione tracciata dalla macchina da presa. Un solco tra la parola e una dimensione lasciata prevalentemente all’immaginazione e agli scatti fotografici, unica soggettività visiva che ci lega a una frontiera osservata da lontano. Nell’editing che asciuga tutto, che estetizza, anche in una musicalità troppo monocorde e raffinata, un mondo nella sua realtà privo di qualunque filtro.
Resta l‘alto valore di testimonianza del fotogiornalismo che In prima linea offre, la scoperta di coloro che mettono in gioco se stessi alla ricerca di una verità da mostrare, specie nelle sfaccettature più spietate e violente che l’essere umano continua a seminare.