Come produrre in Cina? Ce lo racconta Cristiano Bortone
Scopriamo le dinamiche produttive e distributive del mercato cinematografico più esteso al mondo, la Cina, attraverso l'esperienza di Cristiano Bortone e del suo progetto pilastro, Bridging the Dragon
Cristiano Bortone, regista produttore e pioniere, verrebbe quasi da dire. Ad oggi è tra gli italiani più in vista nelle relazioni con la Cina per via dei suoi recenti progetti: i film da regista prima di tutto. L’opera Rosso come il cielo ha riscosso un inaspettato e diffuso successo in Oriente; e la sua più recente produzione, Caffè, è a tutti gli effetti la prima riuscita co-produzione tra Europa e Cina.
Nelle vesti di produttore ha dato il via all’ambizioso progetto di Bridging the Dragon, che ad oggi è un riferimento fondamentale per chi cerca di costruire, appunto, un ponte produttivo tra l’Europa e la nuova forte potenza cinematografica d’Oriente, la Cina.
Abbiamo chiacchierato specificamente di questi aspetti con Cristiano, facendoci raccontare la sua esperienza e di come ha saputo fare breccia nel mercato cinese.
Vieni dalla regia e dalla produzione cinematografica, ma negli ultimi anni ti sei specializzato nel creare un rapporto concreto tra l’Italia e la Cina. Ti chiedo di parlarci prima di tutto del progetto Bridging the Dragon.
Il mio rapporto con la Cina inizia tanti anni fa, negli anni 80, quando da studente delle scuole superiori feci un corso di lingua cinese.
Sul finire degli anni 2000, la Beijing Film Academy, mi invitò a tenere dei corsi estivi.
Questo mi permise di capire cosa stesse succedendo, in quel mercato cinematografico in esplosione. Da lì sono nate tante collaborazioni ed amicizie, fino ad arrivare all’apertura della mia società di produzione cinese. Quindi sono in realtà in qualche modo anche produttore cinese, per quanto possa sembrare assurdo.
A seguire, con altri colleghi europei, abbiamo aperto qualche anno fa questa associazione che si chiama Bridging the Dragon.
Bridging the Dragon è una associazione di produttori sino-europei, film commission e altre realtà, che è stata fondata con l’obiettivo di collegare questi due mondi che ancora si conoscono molto poco, per creare dei legami che possano diventare nel tempo una rete di relazioni e risorse.
Siamo il crocevia di tutto quello che ha a che fare con l’Europa e la Cina. Abbiamo un laboratorio progetti annuale, forniamo servizi di consulenza specifici per i nostri membri e partner, abbiamo un ufficio a Pechino e quindi siamo diventati veramente un punto di riferimento importantissimo.
Devo dire che questa cosa, forse è stata pioneristica anche questa, ci è un po’ esplosa tra le mani. È diventata parte del Festival di Cannes, di Berlino, organizziamo per loro tutti gli eventi Cina, e abbiamo tanti partner in Europa, siamo supportati dalla maggioranza dei fondi cinema Europei, ad esclusione purtroppo di quello italiano.
Una delle altre ragioni per cui si è costituita questa realtà è proprio perché la Cina è così grande e così complicata e l’Europa così frammentata, che noi riteniamo fondamentale unire tutte le risorse, le conoscenze i contatti e le relazioni in modo tale che possa essere un beneficio per tutti.
Hai realizzato il primo film co-prodotto da Italia e Cina. Ci piacerebbe approfondire come sei arrivato a intessere la co-produzione: come hai coinvolto la parte cinese e cosa quindi è richiesto ad una produzione italiana per fare breccia.
Io ad oggi ho realizzato una serie di lavori sia sotto l’ombrello di Briding the Dragon sia come produttore e regista. Sono stato un po’ un pioniere, diciamo, perché il primo film di co-produzione italiana è stato Caffè, il mio film da regista. È una co-produzione italiano-cinese-belga ed è stato un film singolare, in tre parti, di cui una genuinamente cinese (in lingua cinese e ambientata in Cina).
È stata un’esperienza avvincente che mi ha fatto attraversare tutto il percorso ufficiale che porta alla co-produzione. Un percorso difficile, che è partito dallo sviluppo di un contenuto che potesse funzionare nei due mercati, sia dal punto di vista tematico che dal punto di vista della censura – il nostro film aveva delle particolarità per cui si sono dovuti operare certi adattamenti -. Perciò è stato molto interessante.
A seguire c’è stato il cast: approcciare un cast cinese, dirigere un cast in lingua cinese, che per me è stata una esperienza fantastica. E in ultimo la produzione esecutiva, la troupe, girare in Cina, altra esperienza incredibile, e non ultimo il rapporto con il co-produttore, che ovviamente si basa su codici comportamentali e professionali molto diversi dai nostri.
Lo spirito necessario per lavorare con la Cina richiede grande adattabilità, flessibilità e capacità di modificare le cose in corso d’opera.
Cosa ci puoi dire al riguardo dello scarto culturale: ovvero quanto è necessario un mediatore, quanto i progetti devono essere “cinesizzati”, quanto sono rigide le richieste del mercato cinese sul fronte tematico e tecnico.
Sicuramente il prodotto che funziona in Cina è un prodotto che può essere compreso da un pubblico cinese. Il pubblico cinese è interessato o a qualcosa di estremamente esotico, d’importazione, o altrimenti a livello di co-produzione e co-realizzazione, ad un prodotto con cui si può identificare. Quindi preferibilmente in lingua cinese, comprensibile, con grandi elementi di attrattività: una star molto conosciuta, un cast molto forte o una storia estremamente originale.
Di recente i film che hanno avuto successo e spazio in Cina dicono qualcosa che viene compreso da quella società in quello specifico momento storico.
Ad esempio i successi dell’ultimo Capodanno cinese, sono commedie o drammi familiari tipo Hi, mom (你好,李焕英) e Sister (我姐姐), che non sono film pop corn, ma raccontano una realtà molto forte in Cina: le donne e i giovani, che si stanno cercando di emancipare e chiedono per la prima volta di seguire i propri sogni, le proprie aspirazioni e la propria identità.
Forse è un tema che in Italia non viene compreso così tanto, ma lì risuona e crea dibattito, per cui il pubblico comincia a parlarne e determina il successo di un prodotto in pochissimi giorni.
Ricordiamoci che una grande differenza con l’Italia è che la Cina è collegata ai social network, in particolare Wechat; perciò, poche ore dall’uscita di un film, la rete è invasa dai commenti degli spettatori. Quindi se un film è buono, immediatamente viene promosso; se il film è un flop, alla stessa velocità viene distrutto e dopo un giorno nessuna sala lo proietta più. Questo è un fenomeno molto diverso da quello che può succedere in Italia.
Altro punto che ci piacerebbe approfondire riguarda le possibilità distributive che offre la Cina. Altri registi come te hanno avuto questa fortuna, a volte partendo dai festival di punta di questi anni, altre volte con accordi indipendenti. Nella tua esperienza, cosa occorre ad un film realizzato per arrivare nella sale cinesi? Anche attraverso il recente circuito National Arthouse Film Alliance.
I festival giocano un ruolo importante. Qui si sta sviluppando parallelamente, come dicevi anche tu, un mercato di cinema d’autore; ma è comunque un mercato di nicchia.
La Cina ha 77.000 sale circa, neppure il COVID ne ha fatto scendere il numero, e la maggioranza sono sale altamente commerciali. Però ci sono dei circuiti, come appunto la Arthouse Film Alliance, che si sono dedicati ad un cinema di qualità. Le nuove generazioni, soprattutto, che sono più colte, sono interessate a film più sofisticati: ergo, incomincia ad esserci spazio.
Chiaramente essendo un po’ un imbuto di tutta la produzione mondiale, i film che funzionano meglio sono i film considerati oggettivamente di qualità oppure che hanno grande richiamo per via del successo ai festival.
Per quanto riguarda il nostro prodotto: prima di tutto devono essere film accettati dalla censura, ovviamente. E in secondo luogo, prodotti speciali, outstanding, di grande qualità, che quindi possono attirare quel pubblico più selezionato e colto che si diceva.
Di contro, come tu accennavi, c’è il fenomeno contrario: il prodotto cinese sicuramente, anche grazie al grande sforzo che la Cina sta facendo, nei prossimi decenni si farà notare nella nostra società. Diventeremo noi e soprattutto i nostri figli, sempre più famigliari con i visi, con i volti, con le storie. Sarà un fenomeno di assimilazione e di avvicinamento delle nostre culture, e anche un po’ di soft power. È quello che la Cina spera, di imporre un pochino la sua cultura, la conoscenza del suo mondo anche in occidente. È un fenomeno storico che difficilmente riusciremo a bloccare, che avvicinerà e nella migliore delle nostre speranze, arricchirà reciprocamente le nostre società.
Come vedi il futuro della presenza del prodotto cinese sul mercato internazionale nei prossimi anni e viceversa l’apertura del mercato cinese al prodotto Europeo?
In questo momento in cui gli Europei si approcciano alla Cina, purtroppo c’è ancora una grossa impreparazione. In occidente abbiamo un po’ una tendenza “occidentocentrica”. Quello che ci dimentichiamo è che la Cina ha 5000 anni di tradizione, per cui che ci piaccia o no, il carattere che definisce la Cina, 中国 (zhong guo), il regno di mezzo, ci fa già capire che nel concetto della cultura cinese sono loro al centro dell’universo. Questo nei prossimi anni purtroppo si scontrerà con la nostra di visione. Anzi si sta scontrando già adesso.
Ci confrontiamo con una realtà che è molto diversa.
In Cina non ci sono fondi pubblici, il cinema non è un’attività culturale, in linea di massima, ma piuttosto un’attività commerciale, proprio perché i film totalizzano cifre enormi dato che c’è un pubblico enorme (1 miliardo e mezzo di spettatori potenziali).I film di successo incassano centinaia di milioni di euro l’uno.
Per questo sono sostanzialmente i privati che investono, con l’intenzione ovviamente di recuperare. Questo si scontra con la nostra visione, che è molto più spesso culturale, perché abbiamo un mercato piccolo dove i film, specialmente quelli d’autore, difficilmente rientrano dell’investimento, per cui servono nei nostri Paesi dei supporti di sostegno all’identità culturale. Sono due mondi molto diversi, insomma: la Cina è molto più vicina a Hollywood di quanto lo sia al nostro cinema d’autore.
Perciò se si vuole lavorare insieme bisogna trovare un punto d’incontro, capire che una coproduzione con la Cina non è automatica.
Dal nostro canto, siamo un pochino schiavi del nostro provincialismo, per cui ognuno di noi vuole i propri film, nel proprio paese, con la propria lingua, con la propria cultura. E questo chiaramente difficilmente si traduce in una semplice collaborazione. La realtà è invece che la Cina è un mercato molto dinamico, come fu l’Italia degli anni ’60, se vogliamo. Con un entusiasmo incredibile, con un numero enorme di giovani e di giovani operatori, con un pubblico onnivoro che è interessato ad ogni tipo di prodotto che sia nuovo, di ogni genere.
Insomma si sta sviluppando tutto, anche la televisione e le serie tv. C’è davvero una grandissima attività, che noi purtroppo conosciamo molto poco. Ecco, questo è il limite.
Quello che Bridging the Dragon sta facendo è ampliare la conoscenza di questo mondo di modo che un domani ci possa essere veramente uno scambio più alla pari.
La Ricetta Italiana – un frame in esclusiva per Taxidrivers
Raccontaci adesso della tua recente co-produzione La ricetta italianadi Hou Zuxin, siamo curiosi di poterla visionare nei cinema, quanto meno in quelli cinesi…
La ricetta italiananasce da una sceneggiatura di Alberto Simone (Colpo di luna), regista, sceneggiatore e produttore italiano, vincitore di una Menzione Speciale alla Berlinale. È una commedia romantica, diretta da una giovane regista cinese, Hou Zuxin, diplomata in California, autrice di bellissimi documentari e pubblicità.
Il film ha cast in gran parte cinese, tra cui spicca Huang Yao (protagonista di The Crossing), ed è una storia cinese ambientata però principalmente a Roma: la protagonista sogna di diventare un giorno una chef ispirandosi alla figura mentore di Antonino Cannavacciuolo, che è il suo idolo.
Il film punta principalmente ad un mercato cinese, ma la troupe è interamente italiana. Quindi è un’operazione interculturale molto originale e particolare, mai realizzata prima; soprattutto il coproduttore cinese è una realtà enorme in Cina, Beijing Mahua Funage Pictures, che ha realizzato alcuni dei block buster comici più grandi degli ultimi anni (Never say die, Hello Mr. Billionaire, Goodbye Mr. Loser, film da 300 milioni di incasso sala).
Il film è stato terminato nonostante il COVID. È stato anche un impegno da quel punto di vista e ci auguriamo che esca nei prossimi mesi, in estate. Se il film avrà successo, sarà un’operazione mai tentata prima, che spero possa creare le condizioni e la fiducia per tanti altri esperimenti simili in Italia e in altri paesi d’Europa.
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