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‘Valley of the gods’: Recensione

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Valley of the Gods è un film di Lech Majewski che intreccia generi e personaggi diversi e persino antitetici per offrire uno spaccato dell’America insolito e originale, osservato dall’occhio di un regista europeo capace di cogliere in profondità tutte le sfaccettature e le ambiguità di quel paese e valorizzato come sempre dalla continua ricerca formale che ne costituisce il tratto distintivo. Il film, prodotto e girato nel 2019, ha ricevuto la candidatura a numerosi e prestigiosi premi in diverse competizioni (dal Festival di Sitges per il Miglior film al Polish Film Festival e al Polish Film Awards). È disponibile su Amazon Prime Video con abbonamento CG Collection.

La struttura di Valley of the Gods

Aperto da un prologo e suddiviso in dieci capitoli, il film presenta una struttura narrativa volutamente complessa e articolata in diverse sottotrame intrecciate alla principale, che rischiano di confondere e spiazzare lo spettatore abituato ad un forma di racconto più convenzionale, improntata alla chiarezza e alla sequenzialità.

Tuttavia, chi conosce il regista sa come il significato profondo dei suoi film sia da ricercarsi non tanto nella logica narrativa, quanto nella forma del racconto, nel modo in cui la trama viene raccontata e- ancor di più-, nella cura e nella ricercatezza formale, al limite della sperimentazione, che costituiscono il vero centro di gravità dell’opera, gli elementi che maggiormente interessano al regista e che divengono più importanti di quella chiarezza narrativa cui Majewski non hai mai in prima istanza badato.

Non stupisce quindi se il regista- oltre che unico soggettista e sceneggiatore-, sia anche direttore della fotografia e montatore (in collaborazione rispettivamente con Pawel Tybora e Norbert Rudzik). Se dunque il film non segue una narrazione regolare non è certo per incapacità del regista e autore, quanto per una scelta voluta e coerente all’insieme dell’opera.

I modelli del regista

I rimandi a classici del cinema come Quarto potere o ai più recenti film di Malick– pur rivestendo una loro importanza nell’insieme dell’opera-, non risultano tuttavia essenziali alla riuscita dell’opera stessa; anzi, sono forse i suoi aspetti meno necessari o comunque meno pregnanti.

Piuttosto, è nell’esplorazione di un paesaggio estremo ed inconsueto come il roccioso e inospitale deserto dello Utah, illuminato da una luce tanto vivida e intensa da accrescerne il fascino e il senso di mistero che lo pervade che si concentra l’attenzione del regista.

In tal senso, i modelli cui guarda Majewski saranno piuttosto da ravvisarsi in Herzog e Tarkovskij, per l’attenzione al paesaggio e alla sua resa attraverso l’obiettivo che con tanta cura e meticolosità il regista ricerca in ogni singola inquadratura. Se un’obiezione si può muovere- che non inficia comunque la riuscita complessiva del film-, è nell’uso della grafica digitale in alcune sequenze, che contrasta almeno in parte con quella ricercatezza formale di cui si diceva.

Rimane comunque un’opera di notevole complessità e ricchezza, tale da renderla fra le più interessanti e meritevoli d’attenzione nel panorama cinematografico attuale; sia per la complessa articolazione narrativa, sia per la capacità del regista di creare immagini di forte suggestione visiva, che ne confermano la spiccata e riconoscibile personalità autoriale.

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