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La donna alla finestra di Joe Wright. Tra rilettura di genere e amore per il cinema

Il film di Joe Wright guarda al passato per raccontare il nostro tempo e il cinema diventa esperienza visiva!

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La donna alla finestra di Joe Wright (Espiazione, L’ora più buia) si apre con un piano sequenza che, nell’importanza degli elementi – narrativi, simbolici, estetici- presi in considerazione, testimonia come nel cinema del regista inglese la forma sia il punto dal quale partire per entrare dentro il senso della storia. In questo caso il piano sequenza iniziale risulta esemplare nel contenere  tutto ciò che serve per capire cosa sta succedendo ad Anna Fox (Amy Adams), psicologa affetta da agorafobia che vive la propria reclusione attraverso le vite degli altri, spiate dalla finestra, dalla quale una notte assiste all’uccisione della propria vicina di casa (Julian Moore), colpita a morte davanti agli occhi del figlio.

Be Kind Rewind

Dopo aver assistito alla scena in cui poliziotti e il presunto colpevole mettono in dubbio il racconto della donna, considerandolo come il frutto di un allucinazione dovuta alla sua patologica instabilità,  provate a tornare indietro (lo si può fare attraverso il telecomando perché il film e’ visibile in esclusiva  su Netflix) e riguardate il piano sequenza di cui si diceva in apertura, provando a riconsiderarlo alla luce di quanto avete visto.

Grazie alla miracolosa ubiquità di cui come al solito è dotata la mdp del regista, lo sguardo di Wright – dello spettatore e della stessa protagonista ( il primo piano dell’occhio che precede la nostra sequenza è quello della Adams) -, si muovono all’interno di una casa vuota e scarsamente illuminata. (Ricerca degli spazi e simmetrica ostilità degli stessi già viste all’opera, ad esempio e di recente, in un altro film, L’ora del lupo con Naomi Watts, che con La donna alla finestra vanta quantomeno un clima psicologico compatibile).

Immagini replicanti

Più che raccontare la mdp semina indizi: il primo dei quali è destinato a caratterizzare la materia stessa del film per la messa in discussione di ciò che viene mostrato, e ancor di più per la compresenza di realtà e apparenza all’interno della stesso quadro. Un’accezione, quest’ultima,  rivelata  dalla natura degli oggetti e dalla loro collocazione nello spazio: così è la miniatura della casa giocattolo, riferimento alla finzione della vita messa in scena in quelle reali; cosi è, accanto a essa, la proiezione del frammento tratto da La finestra sul cortile, allusione a quanto sta per accadere alla protagonista, ma anche segnale dell’inaffidabilità della vista e dunque delle immagini (una vera ossessione quella del film per la riproduzione delle stesse, replicate attraverso televisioni, computer macchine fotografiche,  telecamere a circuito chiuso). E che dire invece dell’importanza delle fonti di luce (il lucernaio, le finestre), foriere di una liberazione dal buio che per il momento sembra attanagliare la dimensione dell’intero contesto, e che per questo vengono riprese  come in fondo a un tunnel.

Il cinema come palcoscenico della vita

Ancora più che in un horror mentale, come Hereditary – Le radici del male di Ari Aster, del cui inizio echeggia l’apertura de La donna alla finestra, nel film di Wright lo spazio interno diventa il palcoscenico della vita, ripresa con una verosimiglianza che riguarda più l’interiorità dei personaggi, soprattutto quella della protagonista, posta al centro di una rappresentazione eminente psichica della sua avventura: a partire dalla scelta del cognome Fox (come la casa di produzione del film) e di un lavoro (in quanto psicologa per Anna l’esistenza umana è indagata attraverso la scoperta dell’inconscio), ancora una volta specchio della stratificazione esemplificata dalla costruzione del piano sequenza iniziale.

Alla pari di Rifkin’s Festival, anche La donna alla finestra trova nel  genere la struttura ideale per realizzare le proprie ambizioni. A cominciare dalla possibilità di intercettare il tempo presente e, in particolare, di  mettere in evidenza l’essenza fantasmatica delle relazioni umane, talmente virtuali (e quelle della protagonista, vissute a distanza, con figure e voci che appaiono e scompaiono, lo sono) da rendere problematico qualsiasi contatto con il mondo esterno e con coloro che ne fanno parte.

E di farlo attraverso una serie di codici che tirano in ballo le note più ricorrenti del thriller noir, come lo sono i disturbi della percezione (soprattutto la perdita di memoria, l’incapacità di distinguere tra sogno e realtà), incubazione della discesa in un mondo oscuro e minaccioso come quello in cui si ritrova Anna.

Senza trucco

E come Allen, facendo del cinema e dei suoi capolavori un’ estensione della nostra coscienza più consapevole, quella capace di rivelarci come i film ben fatti siano in grado di rivelarci le verità più recondite. Nel caso de La donna alla finestra il nume tutelare è Alfred Hitchcock, citato con attitudine postmoderna (e al di là di tutte le speculazioni sullo statuto delle immagini): ivi compresa  la famosa complicità con lo spettatore, ripresa non tanto nella condivisione dell’identità dell’assassino, quanto piuttosto nell’esibita artificialità della messinscena, di cui, al contrario dei personaggi, il pubblico viene continuamente avvertito attraverso un improvviso eccesso di colore ( il rosso del sangue), dai cambi di luce che investono le figure umane, dalla composizione di scene, come quella in cui veniamo a conoscenza del passato di Anna, di palese importazione teatrale.

La donna alla finestra ovvero il cinema come esperienza visiva

Come molti autori contemporanei, anche Wright fa del suo film una formidabile esperienza visiva e, come tanti, anche il regista inglese non riesce a scaldare il suo dispositivo che risulta troppo perfetto, troppo ragionato e dunque troppo freddo per rendere sul piano drammaturgico lo stato febbrile e l’angosciata partecipazione della Adams, ancora una volta per nulla preoccupata di mostrare il lato più umano (e meno divistico) della sua persona, in una tendenza che l’accomuna al modo di stare davanti alla mdp della collega Frances McDormand.

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