Con Rifkin’s Festival , arrivato su PrimeVideo, il ritorno al cinema di Woody Allen ha riproposto temi e situazioni di una poetica in bilico tra sogno e realtà, tra arte e vita, in cui amore e sentimenti hanno la meglio sui mugugni della ragione.
La pellicola è Distribuita da Vision Distribution.
Di Woody Allen e dei suoi film si è detto e scritto tutto quello che si poteva (e forse anche oltre), allargando le disquisizioni sul suo cinema agli aspetti personali della vita del regista, nella consapevolezza – e nonostante la distanza dichiarata da Allen stesso rispetto ai suoi personaggi – che molto di quello che viene raccontato nelle sue opere trasfiguri una parte importante del suo pensiero ma anche della sua esperienza personale.
Una similitudine favorita dal fatto che potendosi considerare, quella di Allen, una filmografia dedicata alle tante varianti della medesima commedia umana, capita non di rado di ritrovare i protagonisti dei suoi film – e quindi anche lui – alle prese con gli stessi problemi, rafforzando quella relazione tra arte e vita che in Rifkin’s Festival, è ancora una volta al centro della questione.
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Tra cinema e letteratura
Non di rado è capitato di ritrovare Allen in viaggio nella vecchia Europa e ancora di più è successo che l’incontro tra antico e moderno abbia dato luogo a incantesimi e meraviglie riconducibili a una indubbia matrice letteraria.
Quello che succede a Mort Rifkin (Wallace Shawn) e a Sue (Gina Gershon), coppia americana in vacanza di lavoro, lui ex professore di cinema amante del periodo classico, lei addetta stampa di un regista in concorso al Festival di San Sebastian, altro non è che un classico del cinema alleniano (Midnight in Paris, Vicky Cristina Barcelona, Magic in the Moonlight), a sua volta mutuato da capolavori di illustri romanzieri, quali sono stati i vari Francis Scott Fitzgerald, Henry James e Ernest Hemingway, nei quali l’incontro degli americani con la cultura europea e con gli usi e i costumi dei suoi abitanti è stato sempre foriero di crisi capaci di mettere in discussione le certezze di una vita, liberando gli avventurieri da inutili e moralistiche sovrastrutture.
Così accade anche in Rifkin’s Festival quando Sue si invaghisce del regista bello e vacuo, interpretato da Louis Garrel; così succede allo stesso Mort quando per caso si imbatte nella bella e giovane cardiologa (la Elena Anaya de La pelle che abito) incaricata di curarlo da un malessere che, come spesso capita nei film di Allen, è la spia di un disagio esistenziale prima che fisico.
Esistenzialismo ludico
Rifkin’s Festival traduce l’epos insito nella materia in questione in una commedia sentimentale in cui a farla da padrone è il gioco di punti di vista innescato dal continuo intersecarsi di realtà e fantasia, dentro il quale Allen riversa per intero il suo esistenzialismo ludico.
A cominciare dalla sua posizione nei confronti della settima arte, chiamata alle armi – sarebbe il caso di dire – quando si tratta di assolvere a uno dei compiti più importanti: quello di rispondere alle domande sul senso della vita, interrogativi sempre di più elusi da un cinema che – secondo Mort – anche nei luoghi deputati alla sua massima celebrazione (in primis i Festival) è diventato piacione e modaiolo, ossessionato com’è dalla realtà (basta che parli della realtà e la critica applaude, dice il regista Louis Garrel).
Sognare il cinema
Alla luce di questo Rifkin’s Festival è, a cominciare dal titolo, un film doppio, perché il festival del titolo non è solo quello reale che dà il là alla vicenda, ma soprattutto l’altro, allestito da Allen e dal suo protagonista attraverso gli inserti che, tramite i tanti remake di classici del cinema (dal Federico Fellini di Otto e mezzo all’Ingmar Bergman de Il settimo sigillo, con la morte interpretata da un sulfureo Christoph Waltz e tanti altri), documentano i sogni dell’angosciato protagonista.
Un legame, quello tra arte e vita, in cui è la prima ad avere la posizione preminente perché sono i film e non le persone a offrire a Mort le risposte che cerca. Prova ne sia la sequenza finale in cui le risposte dello psicanalista, a cui il protagonista chiede di commentare le vicende (del film) appena raccontategli, sono celate allo spettatore dalla mancanza d’audio e poi dalla dissolvenza con cui si chiude il film. Come a dire che per Allen il (suo) cinema ha fatto già la sua parte e che il resto appartiene solo alla vita.