Presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 76, Corpus Christi affronta il tema del delitto e castigo attraverso un racconto di formazione in cui bene e male, ascetismo e mondanità, carnalità e spiritualità convivono all’interno della stessa realtà. Nelle sale italiane dal 6 maggio distribuito da Wanted di Corpus Chisti abbiamo parlato con il regista polacco Jan Komasa.
In Corpus Christi la falegnameria del riformatorio dove lavora il protagonista è il luogo del peccato, ma anche quello di una riabilitazione che passa attraverso un approccio innanzitutto fisico con la realtà. Sei d’accordo con questa definizione?
Penso che quello a cui ti riferisci sia il risultato di un istituzionalismo imperfetto, creato dalla società nella speranza di nascondere il problema della criminalità tra i giovani. Questa violenza sistemica e’ destinata a diventare fisica e dunque a ricreare le gerarchie e le strutture che vediamo in azione nelle sequenze iniziali. Come ne Il signore delle mosche, i ragazzi organizzano rapidamente un sistema basato sull’aggressione e la vendetta.
Il paradosso è che si tratta di un luogo non così distante, ma anzi con diversi punti in comune con la Chiesa in cui Daniel successivamente inizia a esercitare il sacerdozio. Come il riformatorio, anche quella è uno spazio dove si commettono i delitti ma in cui è possibile trovare la redenzione.
Questo è da sempre il desiderio del protagonista, non il piano. Daniel segue il suo desiderio per quanto profano sia, finendo per essere accettato dalla comunità che aiuta a guarire e da cui viene guarito. Farne parte è come un’esperienza religiosa. Esserne espulsi equivale a una punizione dolorosa e, in una certa misura, alla morte simbolica. Daniel entra a far parte di una società e ne trova conforto pur sapendo che la sua missione non si concluderà come lui vorrebbe. Lo fa comunque, come se in ogni caso ne valesse la pena.
L’idea di Corpus Christi è quella che la liberazione dal male si compia innanzitutto all’interno di un quadro razionale e materiale e solo dopo, spirituale. Il fatto che Daniel provi a farlo essendo un peccatore e non un vero prete sembra la conferma di tale concetto.
In questo senso la liberazione dal male è destinata a fallire perché questo fa parte dell’esperienza umana di Daniel così come della nostra, in cui non c’è possibilità di essere completamente liberati dal male. La domanda allora diventa un’altra, e cioè se comunque vale la pena provarci o sarebbe meglio lasciare stare. Forse dovremmo semplicemente camminare nella processione del Corpus Domini, indipendentemente dai peccati che abbiamo commesso, limitandoci a essere consapevoli della loro esistenza e significato? Corpus Christi è una sorta di riflessione su tutti gli insegnamenti che in questo campo ci hanno lasciato le persone più sagge nel corso della storia.
In tal senso è come se Corpus Christi ci dicesse che la trasformazione avviene, sì nel nome di Dio, ma che la stessa si compie nell’uomo e per mezzo dell’uomo.
Direi anche attraverso il rapporto con gli altri. A questo proposito, la comunità funge da mezzo per arrivare all’illuminazione. Ascoltare gli altri e parlare alle loro anime può completare la trasformazione.
Nella dialettica tra sacro e profano, nel suo spiegare il miracolo dell’esistenza con gli strumenti della ragione, Corpus Christi si avvicina alla cinematografia di Krzysztof Kieślowski e, in special modo, al Decalogo. Esiste questo parallelo e in qualche modo è stato per te un modello di ispirazione?
Ovviamente Kieslowski ha cambiato molto il cinema polacco diventando parte del DNA di molti registi. Personalmente cercavo più di trarre ispirazione da Leviathan del russo Andrej Zvjagincev e un po’ dal gotico sudamericano. Ci sono alcuni parallelismi con le raffigurazioni del sacro e del profano presenti ne Le onde del destino (Breaking the Waves,ndr), ma alla fine ciò che nel mio film è lontano dagli altri riferimenti deriva dal fatto di basarsi sull’assurdo aneddoto di un uomo che finge di essere un prete e nel farlo segue le orme di quanto raccontato in Sister Act. Soprattutto questo mi fa sentire Corpus Christi ancora molto diverso da tutti i film di cui sopra.
Corpus Christi è una parabola sulla lontananza degli uomini da Dio. In essa però entrano in gioco aspetti più generali dell’esistenza umana, come il bisogno di credere in qualcosa, anche a costo di farsi ingannare dalle apparenze. A Daniel basta tirare fuori dallo zaino l’abito talare per essere creduto.
È la religione stessa che crea questo spazio arbitrario in cui vive ciò che si crede. Così sono rimasto affascinato dal modo in cui le regole della fede interferiscono con la fede in sé e per sé. L’interferenza potrebbe essere percepita come una contraddizione ed è qui che le cose diventano davvero interessanti.
Sul piano della forma narrativa, Corpus Christi assume le valenze di un film noir, soprattutto nella presenza del cosiddetto eterno ritorno, per cui il personaggio principale è perseguitato da un passato che lo costringere a ritornare sui propri passi.
Ho messo un po’ di toni noir per evitare che gli elementi di riflessione sovraccaricassero il film. Si tratta semplicemente di una questione di gusto e nello specifico quello di ritenere il genere in questione il più adatto per presentare i contenuti di Corpus Christi. Ho sentito che un pizzico di noir e di mistero avrebbe reso tutto meno ovvio.
Le immagini di Corpus Christi sono dominate da accostamenti opposti, a cominciare dalle sequenze iniziali segnate da composizioni in cui bene e male, ascetismo e mondanità, carnalità e spiritualità convivono all’interno della stessa scena. C’era questo intento nella messinscena del film?
Tutto questo deriva da una pura contrapposizione di sacro e profano. Nel film abbiamo i rappresentanti di questi mondi, poi destinati a confluire in una sola persona. Quale delle due posizioni è falsa? In realtà esiste anche una correlazione tra sacro e profano. Si tratta di legami molto forti che spingono in direzioni morali diverse. Cos’è allora la moralità? E’ solo una scure su cui scivoliamo quando proviamo a procedere con le nostre vite? Mettendo in gioco tra di loro alcuni elementi cardine della nostra società all’interno di una situazione estrema, voglio porre una domanda che possa essere riferita a chiunque di noi.
Quando il parroco si rivolge a Daniel affermando che la confessione non è servita a liberarlo dal male, inquadri la faccia del ragazzo da un punto di vista centrale, illuminandola con una tonalità molto vivida. Diversamente, quella del suo interlocutore lo è solo in parte, anche perché il viso è inquadrato solo in parte. Hai girato così per suggerire il loro differente stato d’animo rispetto all’esperienza religiosa, con Daniel aperto e fiducioso e il parroco in parte deluso?
E’ stata una naturale conseguenza della diversa condizione psicologica dei personaggi, dal momento che il vecchio prete in quel momento stava esaminando se stesso e non aveva bisogno di connessione con Daniel, dal quale voleva solo essere ascoltato. Mentre il vecchio sacerdote parla di un “peccato del passato che non può essere cancellato”. Daniel ha un illuminazione: lui conosce questa sensazione, poiché egli stesso ha ucciso un uomo. Averlo posizionato di fronte alla telecamera fa sentire a Daniel, ma anche allo spettatore, che il protagonista di quella scena è lui e non chi sta parlando.
Nella scelta di Bartosz Bielenia, quanto ha influito la particolarità del suo volto? Te lo chiedo perché l’intensità del suo sguardo fa il paio con l’alterità dei suoi lineamenti: questi ultimi gli conferiscono un’aria fuori dal comune allo stesso modo in cui lo è Daniel, il personaggio da lui interpretato.
L’aspetto di Bartosz è così straordinario che per metterlo in scena bisogna essere dei registi audaci. All’inizio per la parte di Daniel avevo pensato a Tomasz Ziętek, che alla fine interpreta Pinscher e che è una grande star in Polonia. Nella parte del protagonista, Bartosz mi ha restituito un personaggio diverso da come me lo ero immaginato: a Daniel ha conferito più senso di quanto io avessi fatto in precedenza.