Dopo I figli della notte e la serie Baby realizzata per Netflix, Non mi uccidere è il terzo capitolo di un romanzo cinematografico volto a esplorare le inquietudini dell’universo giovanile. Nel metterlo in scena Andrea De Sica fa di Alice Pagani un’icona del suo cinema. Dal 21 Aprile sulle principali piattaforme digitali.
Non mi uccidere è un film in linea con I figli della notte. Entrambi raccontano di un viaggio iniziatico e anche qui la conclusione coincide con una presa di coscienza capace di superare la morte.
Sì, assolutamente. Ci tengo a dire che Non mi uccidere compone un mosaico sull’adolescenza, cominciato con il mio primo film e poi sviluppato attraverso la regia della serie Netflix, Baby. Dunque per me Non mi uccidere è come se fosse l’ultimo capitolo di una trilogia, in cui c’è questo coming of age difficile, amaro e drammatico, tipico di quando si cresce. E’ una fase della vita che racconto sospesa tra vita morte perché in quei momenti sembra decidersi tutto.
In effetti i tuoi lavori sembrano appartenere a un unico grande romanzo, in cui torna la sottile contiguità tra bene e male, tra bianco e nero: come succede ne I figli della notte con la dialettica tra il bianco della neve e l’oscurità della notte. Temi che da sempre appartengono alla tua poetica.
Mi fa piacere che tu lo dica, perché in tutti c’è una coerenza di fondo; anche nella presenza dei locali notturni che, nei miei lavori, sono intesi come luoghi del cambiamento, in cui ci si libera e ci si lascia andare. In essi tutto è destinato a diventare un po’ più sfumato e il desiderio diventa centrale.
Centrale nei tuoi lavori è anche la contrapposizione tra Eros e Thanatos. In Non mi uccidere i suoi nessi sono presenti in maniera più scoperta.
In Non mi uccidere la contrapposizione è esasperata, perché il genere mi ha dato modo di essere più graffiante, di poter osare di più senza pormi limiti rispetto alla credibilità di certi passaggi della narrazione. Grazie al genere sono riuscito ad esprimere la dialettica tra Eros e Thanatos in maniera molto più estrema e metaforica.
Parlando dei riferimenti di Non mi uccidere, volevo partire da quello più ovvio per poi proportene altri. Rispetto a Twilight, mi sembra che tu lo prenda in considerazione come punto di partenza per poi rivoluzionare lo status dei personaggi ma anche i toni e i significati.
Come hai detto nella seconda parte della tua domanda, in realtà per me si trattava di andare oltre Twilight. Non lo dico in tono dispregiativo, perché in un primo momento, guardando Mirta e Robin, pensi subito a quello, mentre in realtà si tratta di un film molto diverso. Il focus di Non mi uccidere è incentrato quasi del tutto sul personaggio di Mirta, mentre la storia d’amore, essendo filtrata attraverso la memoria, è destinata ad assumere contorni irreali. Senza svelare il finale, si potrebbe dire che si tratta di un illusione.
La componente onirica presente nel film si esplica attraverso una sequenza molto significativa, in cui il passaggio relativo alla morte e resurrezione di Mirta viene associato alla scena in cui vediamo la madre destarsi improvvisamente dal sonno. Il che conferisce al tutto una dimensione fantasmatica, come se quanto abbiamo visto fosse il risultato di un sogno.
Sì, esatto. Subito dopo c’è una sorta di incubo in cui la donna vede la figlia ancora viva in un locale dove i maschi sembrano degli orchi. Quando prova a chiamarla lo fa quasi in uno stato di delirio.
In effetti tra i sottotesti di Non mi uccidere c’è quello dell’emancipazione femminile messa in relazione con la tracotanza della controparte maschile. Se all’inizio si parte dalla stessa posizione, alla fine del percorso i ruoli risultano opposti e le donne passano da vittime a carnefici.
In Non mi uccidere il mondo maschile è caratterizzato da un forte senso di prevaricazione, per questo la catarsi di Mirta è così evidente. Il suo coming of age si compie nel momento in cui riesce a mettere sotto i maschi. La violenza della sua reazione è parte del processo di accettazione della parte oscura, quella di Luna, antieroina sanguinaria. Parlando di riferimenti cinematografici, è importante citare un titolo fondamentale della mia adolescenza, che poi è quello a cui mi sono ispirato e cioè Nikita di Luc Besson. Si tratta del primo grande film in cui l’eroina è messa sotto dal mondo degli uomini e delle istituzioni. Prima ancora di Kill Bill, è stato un film molto anticipatore, tra l’altro foriero di un nuovo linguaggio cinematografico.
Partendo dal fatto che all’inizio l’amore di Mirta nei confronti di Robin è una vera e propria dipendenza, il film si sviluppa facendo dell’assuefazione chimica, ma anche psicologica, dei personaggi un richiamo a certo cinema di Gaspar Noé; a Climax in particolare, per come viene resa la dimensione allucinogena, ma anche per la maniera di associare suono e immagine.
Mi fa piacere perché si tratta di un autore che io e Alice Pagani amiamo molto. Lui ha questa idea quasi ipnotica del cinema, molto claustrofobica, molto nera. Anche in Noé c’è il contrasto tra il giorno e la notte, tra rapporti sani e malsani; però in Non mi uccidere tutto questo entra in campo in maniera più sfumata, perché la protagonista è quella con cui empatizzi ma allo stesso tempo è anche il mostro della storia.
Dicevamo di come Non mi uccidere rivoluzioni l’idea di Twilight: il percorso psicologico di Mirta ne è un esempio. Peraltro quello di Catherine Hardwicke, pur con la presenza di elementi fantastici e orrorifici, era di fondo un teen movie, con tanto di primi piani sognanti dei due protagonisti, e con le amiche di Bella il più delle volte buffe e divertenti: caratteristiche assenti in Non mi uccidere che invece è un film molto più cupo.
Sono d’accordo, nel senso che in Non mi uccidere c’è il cambiamento dall’interno della protagonista, mentre Twilight era quasi una storia d’amore impossibile e un po’ maledetto. Il mio film è molto più sporco, dove con questo termine intendo anche più realistico. Mi piaceva l’idea di fare qualcosa con un assunto di fondo molto surreale e folle, per poi trattarlo come una materia assolutamente realistica, credibile, ambientata nel nostro mondo: come se i sopramorti fossero gli adolescenti che vivono con noi, strane creature che hanno questa vita segreta. Un po’ dannati, e con questa rabbia che poi è quella che anima i nostri figli. Secondo me, questo è un segno distintivo dell’adolescenza.
Un’altra suggestione che richiami è quella di The Beguiled di Sofia Coppola, con Mirta vestita di bianco, inquadrata in campo lungo nel verde della foresta. Anche in quel film le donne si vendicavano del maschio, finendo per vampirizzarlo.
The Beguiled è un remake di un grande film di Don Siegel, mentre Sofia Coppola è sempre stata una regista che ha messo il punto di vista femminile in primo piano. In questo mi piace l’accostamento con il suo film. In Non mi uccidere i personaggi femminili sono il fulcro del film, quelli portatori dell’energia e che mandano avanti la storia.
Tra l’altro la trasformazione di Mirta non è solo psicologica, ma anche estetica, perché a un certo punto da ragazza della porta accanto acquisisce una sensualità e una sessualità molto più fluida.
Assolutamente sì, nel senso che in Non mi uccidere si riflettono i rapporti di sorellanza e tutte queste categorie che sono nuove come linguaggio, ma che poi di fondo sono sempre esistite, solo che non se ne poteva parlare. Mi riferisco a legami fra donne molto più profondi del solito, ma anche a questo senso di solidarietà estremo e più fisico che è presente nel film. Rispetto ai rapporti di amicizia maschile, quelli femminili sono sempre più blandi: io invece volevo fare il contrario, dando alle donne la possibilità di fare la parte del leone.
Tra l’altro con questo film intercetti lo spirito del tempo, cioè le difficoltà vissute dagli adolescenti a causa del covid 19 . In realtà che il cinema registra attraverso il teen dramedy in cui a essere rappresentato è il superamento della morte (sociale).
Sono d’accordo, e aggiungo che di fondo questo è un film con un grande attaccamento alla vita, espresso da un modo di accertarsi e di accettarla, talvolta anche violento. In realtà Mirta è morta, ma alla fine del film è più viva che mai.
Come in Twilight anche Non mi uccidere inizia in maniera anomala, con gli adolescenti che ragionano sul senso della morte e di conseguenza su quello della vita.
Sì, in fondo è un film di genere, ma la mia speranza è che arrivi anche la profonda componente esistenziale.
La composizione della scena iniziale traduce in immagini il senso delle parole pronunciate dalla voce fuori campo. Soprattutto, però, è la rappresentazione di quello che segue, perché la cava in cui termina la corsa in macchina assomiglia – nella rarefazione del paesaggio – a una sorta di limbo sospeso tra la vita e la morte. Dunque al tipo di situazione che attende i protagonisti.
Sì, lì stiamo in un mondo sospeso, fatto solo da due persone e il vento. Siamo in un paesaggio quasi metafisico che in qualche modo rappresenta l’orizzonte mentale di due adolescenti che si amano e vivono tale sentimento ai confini del tempo e dello spazio. In questa parte del film, prima della morte della ragazza, ho giocato sul contrasto di due diversi momenti: tra il divertimento e l’energia della prima fase e la staticità e la solennità della seconda, .
Interessante è anche il lavoro sui colori, modulati sugli stati d’animo e le psicologie dei protagonisti: accesi e iperreali quelli del ricordo amoroso, desaturati nella totalità di grigi e neri durante il trapasso; e ancora, saturo di colori al neon nella trascrizione della presa di coscienza da parte di Mirta sulla sua nuova natura.
Sì, lì ho lavorato appunto tra passato e presente, per cui è come se fossero due film che vanno in parallelo. Il presente di Mirta da morta ha dei colori più acidi e freddi. Anche l’ambientazione metropolitana è più sporca: ci sono i benzinai, i gabinetti pubblici, la periferia, posti abbandonati. Al contrario, il passato ha questa visione idilliaca – lo dico estremizzando – simile a quella de Il tempo delle mele. In essa c’è molto paesaggio naturale e un romanticismo quasi ottocentesco. Giocare su questo contrasto mi piaceva perché era una chiave visiva che dava la giusta sintesi al racconto.
Per come la rappresenti, la resurrezione di Mirta che esce dalla tomba sfondandone il marmo già ci anticipa che nel frattempo è diventata una specie di Zombi. Ciononostante, anche qui violi i codici di genere perché il cadavere di Mirta non emerge dal terreno, bensì dal loculo che ne preserva il corpo.
Intanto mi piaceva ribaltare quello che si vede sempre nei film provenienti dal mercato anglosassone, con la tomba collocata sul terreno e la mano che esce dalla terra. Nel film siamo in un cimitero di paese che, alla pari degli altri, sono suddivisi in tombe e loculi. Da uno di questi vediamo uscire fuori la ragazza.
Una scelta fatta per andare incontro alla chiave realistica di cui mi parlavi.
Sì. In quella scena non c’è enfasi e non è barocca. Anzi, mi pare proprio il contrario.
Sugli attori hai fatto scelte azzeccate, ma particolari. Non è scontato trovare in un film di genere come il tuo interpreti del calibro di Fabrizio Ferracane e Anita Caprioli. Imperdibile è il modo tra l’ironico e il grottesco in cui il personaggio di Ferracane rivela a Mirta il suo vero nome. Chiunque si aspetterebbe di ascoltarne uno evocativo di chissà quali inferni e invece lui se ne esce con uno del tutto ordinario come Luca Bertozzi.
Mi fa piacere che tu lo abbia notato (ride, ndr). Nella trilogia scritta da Chiara Palazzolo i benandanti avevano nomi strani, derivati da un immaginario anni novanta. A me piaceva andare contro il genere, cercando il più possibile di non rientrare nel cliché del film horror, nel tentativo di dargli quasi una nuova vita dopo che, soprattutto nel 2021, siamo stati abituati a vederne molti. Scegliere un nome comune per il capo dei beneandanti equivaleva a farlo diventare il nostro vicino di casa, qualcuno di cui non ci siamo mai accorti.
Nella parte di Robin, Rocco Fasano, oltre ad avere una fisionomia simile a Robert Pattison, riesce a trasmettere con efficacia la fisicità predatoria del suo personaggio: come vediamo nella scena d’amore tra lui e Mirta.
Essendo lui solo un ricordo e dunque non avendo molto spazio nel film, la sua presenza, il suo volto, il suo fisico, dovevano rimanere impressi. Trovo che Rocco Fasano sia un interprete molto bravo, perché se uno ha visto le sue cose precedenti si rende conto del lavoro di trasformazione da lui compiuto per entrare nel personaggio. Mi piace perché è un attore che ascolta. Anche nella scena iniziale, ambientata nella cava, non è di quelli che parlano a macchinetta perché hanno imparato i dialoghi a memoria. Al contrario, è capace di dare molta atmosfera a quello che dice e nella gestualità si porta dietro un alone di mistero. Anche lui doveva confrontarsi con uno sviluppo psicologico molto ampio, passando da persona amata a mostro antagonista: in questo, secondo me, è risultato credibile e convincente. Come facevi notare, del cast fanno parte attori di formazione e provenienza diverse come la performer Silvia Calderoni, però mi sembrano tutti ben accordati insieme.
Ad Alice Pagani offri la possibilità di interpretare un personaggio agli antipodi rispetto a quelli precedenti.
Volevamo fare un passaggio netto, capace di andare oltre Baby, che comunque per noi è stata una serie molto coinvolgente. Mentre lì Alice aveva una malizia seduttiva, in Non mi uccidere mette in mostra questa onestà di fondo che le fa cambiare del tutto il modo di porsi di fronte alla mdp. E’ molto low profile, senza avere l’atteggiamento di chi vuole a tutti i costi sedurre il pubblico.
Qui la sua recitazione riesce a fare a meno del corpo, quasi a negarlo.
Intanto in questo film è come se avesse impersonato due ruoli diversi. Con lei abbiamo lavorato sulla voce, perché dopo la resurrezione sia questa che la postura cambiano di continuo. Anche il modo con cui si riappropria del suo corpo doveva essere un viaggio. Poi ha dovuto fare una lunga preparazione con gli stunt men per organizzare le coreografie che compongono le sequenze più violente. Tra l’altro, il novantotto per cento del film l’ha fatto lei, cioè senza usare controfigure, e questa è un’altra cosa importante in termini di allenamento. Per girare l’inquadratura in cui è sott’acqua, ha preso addirittura lezione di apnea.
Che tipo di attrice è Alice Pagani?
Intanto, mi sembra una creatura venuta da un altro paese e non dal cinema italiano. La qualcosa era perfetta per questo film perché Alice ha una fisicità che ha a che fare con questo senso di oscurità, più inglese e nord europeo. Allo stesso tempo ha quest’immediatezza priva di sovrastrutture che la rende molto sincera e che la porta a enpatizzare facilmente con il pubblico. Mentre stavamo girando la prima stagione di Baby, quindi tre anni fa, le dissi che stavo occupandomi di un film horror e che avrei voluto lei come protagonista e alla fine così è stato. Assieme a lei abbiamo fatto un percorso comune.
Parliamo dei film che preferisci
Io sono uno onnivoro. Con il lookdown si è visto poco cinema nuovo, per cui, avendo Il lato oscuro del genio, il libro su Alfred Hithckock scritto da Donald Spoto, mi sono rivisto tutti i suoi film recuperando soprattutto quelli in bianco e nero del periodo inglese. In generale ho visto più serie che lungometraggi. Tra queste, quelle che mi sono piaciute di più sono state Ozark e quella della Marvel intitolata WandaVision. Questo per dirti che a me piacciono sempre le cose più insolite e difficili.