Vincenzo Amato sta al cinema di Emanuele Crialese come Marcello Mastroianni e Jean Pierre Leaud a quello di Federico Fellini e Francois Truffaut. Dall’esordio di Once We Were Strangers, girato negli Stati Uniti e presentato in concorso al Sundance Film Festival, a Respiro, accolto a Cannes dalle ovazioni della critica internazionale e dal grande successo di pubblico, fino a Nuovomondo, capolavoro assoluto sponsorizzato in prima persona da Martin Scorsese che appose il suo nome sul poster dell’uscita americana, è impossibile pensare a questi film senza la presenza dell’attore siciliano. Il quale, da lì in poi, si è distinto per una recitazione all’insegna del motto Less is More, in cui la sottrazione del segno interpretativo è diventato il marchio di fabbrica di personaggi in bilico tra realtà e immaginazione.
Interprete privilegiato del cinema d’autore italiano, da Più buio di mezzanotte di Sebastiano Riso a Tornare di Francesca Comencini, l’arte di Vincenzo Amato trova modo di risplendere nelle forme più disparate: tanto nel teen dramedy Sulla stessa onda che nel blockbuster Red Notice, la più costosa produzione Netflix in cui lo vedremo recitare accanto a Dwayne Johnson (The Rock,ndr) e alla Wonder Woman Gal Gadot.
Proprio oggi sul mio profilo social ho pubblicato un post su Nuovomondo e l’alto gradimento delle persone che hanno voluto lasciare traccia del loro passaggio è la testimonianza di quanto la regia di Emanuele Crialese, come pure la tua presenza, abbiano lasciato il segno.
Innanzitutto ti ringrazio, ma quello dipende dal grande lavoro fatto da Emanuel Crialese, a cui io ho partecipato cercando di fare la mia parte. Peraltro il film parlava di immigrazione che oggi è diventata un problema biblico. Io ne so qualcosa, visto che proprio in questi giorni sto rinnovando la mia carta verde. Sono infatti venticinque anni che vivo negli Stati Uniti.
Sei arrivato a New York che eri ancora giovane.
Non proprio, perché avevo già ventisette anni e comunque, nonostante sia passato molto tempo, da allora ho mantenuto il mio accento siciliano. Ancora oggi, quando parlo inglese, questa inflessione rende la mia dizione una roba un po’ comica, ma io me ne frego e continuo a parlarlo a modo mio.
A suo tempo Roberto Minervini mi disse che non avrebbe mai pensato che il suo trasferimento in America sarebbe coinciso con il fatto di diventare regista. Nel tuo caso, invece, com’è nata l’idea di diventare attore? Esisteva già in te questa necessità o è qualcosa che hai scoperto nel corso della tua permanenza a New York?
Sono andato a New York per partecipare al matrimonio di un amico. A Roma mi dedicavo alla pittura e nel contempo costruivo mobili di ferro che poi mettevo in vendita. In America conobbi un certo Norman Campbell, il quale mi offrì di andare a lavorare nella sua officina, in New Yersey come ragazzo di bottega. Tieni conto che non ho studiato nè recitazione, nè arte, e fu lui a insegnarmi tutti i segreti del suo mestiere. Quello di fabbro è ancora uno dei pochi al mondo in cui esiste il concetto di iniziazione, nel senso che per farlo c’è bisogno di un lungo apprendistato alla fine del quale si acquisiscono segreti altrimenti sconosciuti. Il fatto di sacrificarsi per un anno senza essere pagati fa sì che i giovani non gli si avvicinino, per cui si tratta di un mestiere che sta scomparendo. All’epoca abitavo in un appartamento in cui dormivo con il materasso a terra ed Emanuele Crialese era il mio vicino di casa: ci siamo conosciuti sul pianerottolo raccontandoci i rispettivi lavori. Eravamo due italiani che si barcamenavano. Lui lavorava nei ristoranti e poi studiava cinema grazie a una borsa di studio vinta con un cortometraggio che piacque molto ai docenti della sua università. Non avevamo una lira e il costo della vita era carissimo. A un certo punto, Emanuele mi fece leggere una sceneggiatura molto bella, senza sapere che voleva fossi io a interpretare la parta del protagonista. Mentre facevo le prove capii che si trattava di una cosa seria. L’assistente alla regia era un altro ragazzo che abitava nel nostro stesso palazzo.
Realizzato nel 1997, Once We Were Strangers fu parte integrante del fenomeno relativo al cinema indie che in quegli anni trovò nel Sundance Film Festival il suo massimo promulgatore. Il film è anche espressione di quel fervore e tu vi partecipi con una freschezza che però non ti impedisce di sembrare un attore navigato. Davanti alla mdp risulti molto naturale e anche a tuo agio, nonostante in qualche scena reciti anche senza vestiti.
Eravamo immersi nel film ventiquattro ore su ventiquattro e se io recito bene lo devo a Emanuele. E’ stato lui a insegnarmi tutto. Mi ricordo le prove sul tetto della casa dell’east village: i primi giorni furono un disastro, perché io pensavo che per recitare si dovessero imitare le espressioni dei grandi attori. Avevo in mente Vittorio De Sica e Alain Delon, per cui facevo cose orrende. Poi ci ha pensato Crialese, che è molto bravo a far recitare anche chi non l’ha mai fatto.
Peraltro, guardando all’intera tua filmografia, quella che era una recitazione imitativa è diventata una costruzione del personaggio fatta per sottrazione e all’insegna del detto Less is more!
Ti ringrazio. E’ così vero che certe volte penso sia persino troppo quello che sottraggo alle espressioni e ai modi di fare dei miei personaggi.
Peraltro il fatto di non caratterizzare oltre il dovuto espressioni e body language ti permette di passare con più disinvoltura da un personaggio all’altro, sembrando ogni volta una persona diversa.
La bravura di Crialese è anche quella di riconoscere il talento delle persone e quindi ha forse visto in me la possibilità di diventare attore. E’ stato lui a insegnarmi tutto. Nel cinema che fa Emanuele l’attore deve credere per primo a quello che sta facendo. Lo spettatore non vuole vedere una performance, ma qualcuno a cui succedono veramente le cose. Se non ci credi tu, non ci crede neanche il pubblico. Io ci riesco per la capacità che ho di tornare bambino e fare come quando si giocava ai pirati, quando immaginavo davvero di essere uno di quelli. Così facendo sono diventato bravino e, imparando sempre di più a sottrarre, sono arrivato al risultato che mi chiedeva il regista.
La prima scena di One We Were Strangers è indicativa di tutto il cinema fatto con Crialese. Un po’ perché si tratta di una sequenza capace di evocare una realtà diversa da quella contingente, e poi perché, simboleggiando un approdo, introduce quella dimensione delle migrazione e del sentirsi straniero che da lì in poi caratterizzerà la poetica del regista.
Sì, esatto. Quella scena ci dice come nel cinema ci sia la possibilità di fare scene che sembrano un pò’ magiche. Peraltro, ogni volta che ho girato un film mi sono successe le stesse situazioni anche nella vita. Come attore tendo a non analizzare le mie interpretazioni e a non pensare a come può essere risultata la mia espressione. Quello che so è cercare di fare il meno possibile e certe volte mi pento, perché mi dico che magari potevo fare qualcosa di più.
Mentre invece viene fuori un modo di essere davanti alla mdp e direi uno stile di recitazione distintivo. Nel vostro primo film c’è molto della vostra vita, tua e di Emanuele.
Sì, eravamo due immigrati in uno stato di semi clandestinità, nel senso che per vivere dovevamo arrangiarci e accettare di lavorare anche senza essere messi in regola.
Rispetto al primo lungometraggio, Respiro, sembra una sorta di viaggio a ritroso, un ritorno in quella Sicilia da dove entrambi siete partiti. E’ come se i vostri tre film fossero un unico racconto e in questo voleste esplorare la condizione preesistente al viaggio in America.
Once We Were Strangers ebbe molto successo in America. Fu invitato in competizione al Sundance Film Festival e lì iniziò a palesarsi il miraggio hollywoodiano, tanto che fummo invitati a Los Angeles per una serie di incontri in cui ci proponevano il mondo. Mi ricordo che Emanuele era ospite del produttore di Toro Scatenato, questo per dirti come eravamo lanciati. Ciononostante Emanuele decise di tornare alle proprie radici, in un isola come Lampedusa, e, dopo aver girato un documentario sui bambini del posto, decise di scrivere Respiro.
Attraverso la figura di Grazia, Respiro mostra una caratteristica tipica dei personaggi di Crialese, pervasi dal desiderio di libertà e di emancipazione nei confronti dell’ambiente in cui vivono. Da qui, il concetto d’immigrazione, che non è solo uno questione di spostamento fisico, ma soprattutto una dimensione dell’anima legata alla volontà di auto affermazione, ma anche a un sentimento di estraneità rispetto alla realtà circostante.
Da questi concetti nasce la natura un po’ romantica di personaggi disposti a fare qualsiasi cosa per la loro libertà, qualsiasi sacrificio per dare corso ai propri desideri. Dunque è vero quello che dici.
In Respiro la Sicilia mostra i primi segni di quella magia ancestrale che sarebbe esplosa in Nuovomondo.
Sì, quelle sono cose che fanno parte della poetica di Crialese. Io non posso parlare al posto suo però devo dire che lui ha sempre cercato di accostare alla realtà un mondo di fantasia. E’ curioso, perché poi Emanuele fa delle cose molto realistiche, sia nella direzione degli attori che nella ricostruzione ambientale. Salvo poi accostarsi ad esse con la fantasia.
In questo quadro i tuoi personaggi è come se avessero il compito di tenere il film con i piedi per terra rispetto agli slanci di fantasia. In Respiro, ad esempio, Pietro ha un fisico solido e robusto e anche il fatto di vederlo spesso intento a lavorare contribuisce a trasmettere un’idea di concretezza. E’ infatti lui e non la moglie a tenere insieme la famiglia.
Mentre invece in Nuovomondo sono un’idealista che sogna un posto migliore dove vivere con la propria famiglia. Devo dirti che quando li rivedo i personaggi di questi film mi fanno sempre un po’ tenerezza, perché sono vittime delle propria situazione. Anche quello di Respiro sognerebbe una vita normale e una donna diversa da quella strana che comunque ama.
Con Respiro ti ritrovi a lavorare con un’attrice importante e molto conosciuta anche all’estero come Valeria Golino.
Per me era solo il secondo film e forse è per questo che mi ricordo sempre molti aneddoti. Ero sempre immerso nel copione: mi alzavo la mattina presto e arrivavo sul set già nello stato d’animo con cui bisognava girare la scena; così ero divertito o arrabbiato a seconda del caso. Invece Valeria, che aveva già fatto quaranta film, aveva un modo tutto diverso di concentrarsi e mi prendeva in giro.
Tu invece eri in pieno metodo
No, non si trattava di voler fare l’attore dell’Actors Studio, ma era la tensione conseguente al fatto di voler fare bene la mia parte. Alla fine lei mi disse simpaticamente di stare tranquillo.
Con Respiro è anche la prima volta al festival di Cannes. Arrivaste come degli outsider, ma ne usciste vincitori.
Questo è un fatto curioso. Fin dall’inizio e anche dopo, io ed Emanuele siamo rimasti sempre un po’ degli outsider. Avevamo capito di non far parte del mondo del cinema italiano perché avevamo cominciato all’estero e non frequentavamo mai i salotti romani. Non conoscendo nessuno di importante, quando siamo andati a Cannes sono successe cose buffe. Per esempio, i fotografi mi chiedevano sempre di levarmi perché dovevano fotografare l’attrice, anche perché in Francia hanno sempre pensato che la Golino avesse fatto il film con un pescatore di Lampedusa (ride, ndr). Da una parte per me era un complimento, perché voleva dire che ero stato credibile; dall’altra mi dispiaceva perché mi ero vestito di tutto punto per partecipare al glamour festivaliero.
Com’è successo nel caso di Nuovo cinema Paradiso, anche Respiro ha avuto prima successo in Francia, entrando nella classifica dei film più visti, e solo in un secondo momento ha ricevuto attenzione in Italia.
Sì, tanto che da noi l’hanno fatto uscire una seconda volta perché in precedenza era passato del tutto inosservato, mentre in Francia incassava più dell’Uomo ragno.
Con Nuovomondo invece realizzate una sorta di colossal, perché il film nasce come una storia intima, per poi diventare l’epopea sulla scoperta di un altro mondo, l’America, immaginata come terra delle grandi opportunità. C’è un ingente numero di comparse e poi anche l’ambizione di allargarsi a una visione universale dell’esistenza.
Nuovomondo e un po’ un colossal, con un sacco di comparse e grandi navi, ma alla fine non sono mancate avventure, perché l’imbarcazione non funzionava e dunque doveva essere trainata, mentre le comparse erano tutte argentine perché abbiamo girato in gran parte a Buenos Aires.
Seppur su una base realistica in Nuovomondo c’è una vera e propria rappresentazione dell’immaginario dei personaggi, in particolare del tuo, realizzata attraverso una chiave che, a differenza dei precedenti lavori, privilegia il fantastico e il surreale.
Per entrambi i film Crialese cercava una base di verità. Per Respiro mi ha mandato tre mesi a Lampedusa per lavorare a fianco dei pescatori. E’ stato molto duro, perché ogni giorno mi alzavo alle tre del mattino per andare a pescare con loro. In questo modo capisci cosa vuol dire essere un pescatore: non c’è molto di romantico, sei sempre immerso nel freddo e nell’odore della nafta, con la stanchezza addosso e con lunghi momenti di noia in cui non succede niente. Dopo tre mesi di sola compagnia maschile, mi ricordo che la vista della prima turista arrivata nell’isola mi fece rimanere estasiato. Per contro, attraverso questo lavoro, speri di assumere una postura del corpo e una gestualità simile a quella dei veri pescatori. Tanto che, come ti ho detto, alla fine hanno creduto che fossi un vero pescatore. Per Nuovomondo è successa la stessa cosa: sono andato a lavorare un mese in estate e uno in inverno nelle Madonie, con un contadino anziano, – Zu Liddo -, che lavorava il terreno con la zappa. Stando con lui, osservavo come si muoveva, come prendeva le cose, rendendomi conto che invece le mie movenze sembravano quelle di un ballerino di New York e non di un contadino vissuto cento anni prima. Però, a forza di frequentarlo, lavorando e zappando, alla fine quando ho indossato il costume del personaggio mi sono sentito in diritto di impersonare la nobiltà del contadino antico.
Nuovomondo rappresenta un ulteriore salto di qualità nel tuo percorso artistico, perché accanto alla fisicità sottoposta alle fatiche del vivere porti in scena una dimensione intima e personale, dando corpo a una gamma di sfumature emotive davvero considerevole.
Diciamo che la sfida era quella di far venire fuori quel tipo di uomo. Crialese mi faceva vedere le fotografie dei contadini di cento anni fa. Hanno degli occhi pazzeschi, diversi da quelli che abbiamo oggi. Questo personaggio racconta in qualche modo il passaggio dall’uomo antico a quello moderno. Salvatore era un uomo che lavorava la terra e viveva di miti, di paure e di credenze, come si faceva cinquemila anni fa.
L’immaginario che vediamo è dunque la ricostruzione di quella dimensione esistenziale?
Questo non te so posso dire, però pensa a uno nel 1911, che non è mai uscito dalla sua contrada, che non ha mai visto una fotografia di altri posti: se tu fossi al suo posto e ti parlassero dell’America è come se ti dicessero che domani parti per una galassia sconosciuta. Per loro era come un viaggio nello spazio. Andare oggi in America, dopo aver visto i film di Scorsese o le serie televisive, è un conto, ma quelle persone non sapevano dove stavano andando. Un uomo del genere viveva anche di odori, di stagioni, di sensazioni animali. Per questo, anche quando arrivavano i momenti sentimentali, mi dovevo sempre ricordare di essere quel tipo di persona.
Non ti posso non chiedere di una delle scene più belle del film, quella in cui il gioco di sguardi tra te e la Gainsbourg diventa un balletto che si conclude con voi immersi in un mare di latte.
Questa è una delle scene che Crialese aveva in testa da tanto tempo e per lui doveva essere come una danza. Siccome un personaggio come il mio non si sarebbe mai sognato di andare a parlare con una signorina così elegante e per giunta straniera, Crialese ha immaginato che la conoscesse in maniera un po’ speciale. I boccaporti della nave dietro i quali ci nascondiamo sono finti, costruiti apposta per questa danza.
Quella scena è un po’ la sintesi della tua recitazione, fatta di sguardi che sembrano scrutare l’anima dello spettatore. Caratteristica che ritroviamo anche in Tornare di Francesca Comencini, quando ti rivolgi a Giovanna Mezzogiorno senza proferire parola.
A supportare l’interpretazione interviene l’immaginazione, per cui con la fantasia devi pensare alla donna impersonata dalla tua partner. La stessa cosa vale per il film con la Mezzogiorno che dovevo guardare con il desiderio erotico e morboso del mio personaggio. La magia del cinema è questa, e cioè che ti basta avere un pensiero e questo si vede negli occhi. A teatro non è possibile perché gli spettatori sono lontanissimi; invece nel cinema, attraverso ottiche e lenti speciali, la mdp è in grado di avvicinarsi agli occhi per spiare nella tua anima.
A quel mare di latte tu che significato hai dato?
Questo dovresti chiederlo a Crialese. Io l’ho legato al fatto che a Salvatore piaceva molto quella donna. Per lui si trattava di una cosa nuova che faceva parte dell’avventura di quel viaggio. A fronte della difficoltà di portarsi dietro i ragazzini e l’anziana madre, il mare di latte rappresenta il sogno di stare in una sorta di bolla per godersi l’emozione di quell’incontro, senza la famiglia e le altre incombenze. Il latte simboleggia anche il benessere, la ricchezza e insieme l’erotismo.
Il film non è stato girato a Ellis Island, ma in Argentina. E’ stato un cambio fatto in corsa o l’avevate già previsto prima di iniziare a girare?
Era già previsto perché a Ellis Island non fanno girare e oltretutto si tratta di una struttura troppo restaurata. L’Argentina fu scelta anche perché si trattava di un altro luogo di grande migrazione, con strutture simili a Ellis Island ma del tutto abbandonate. Inoltre permetteva a Crialese di trovare delle facce italiane, giuste per il periodo in cui era ambientata la storia.
Tra l’altro lì Crialese inventa una messinscena molto poetica, in cui al posto dell’America di cui non vediamo niente c’è la sua rappresentazione, effettuata attraverso l’immaginazione dei personaggi.
Infatti lì è stato bravissimo Crialese e questa è anche la riprova che quando hai delle limitazioni sei costretto a creare dal nulla e puoi inventarti cose bellissime. La stessa cosa è successa all’Italia nei periodi in cui c’era meno ricchezza. In quei momenti siamo stati capaci di grandi invenzioni, spesso fatte dal nulla.
Rispetto all’attrazione del tuo personaggio nei confronti della Gainsbourg, metti in scena un desiderio pudico, fatto di rivelazione e di infingimenti. Da dove le hai tirati fuori? Di fronte a lei sembri quasi in soggezione; dunque, sul set com’è stato lavorare con lei?
Innanzitutto ti dico che quando vedo il film riesco a estraniarmi dal fatto che sia stato io a interpretarlo. Mi emoziona la bravura di Charlotte e mi fa tenerezza il mio personaggio, quel contadino che si affida a lei. Per quello la amo, perché lei lo aiuta. La soggezione era ovvia, perché in realtà questa signorina molto probabilmente era una prostituta, mentre dal punto di vista del contadino lei era una signora di città. Si tratta di un rapporto che in Sicilia mi capita ancora di vedere quando la gente di città entra a contatto con le persone di campagna; dunque era naturale che avessi questo tipo di atteggiamento. Nella realtà il rapporto con lei era molto tranquillo, anche se nella vita Charlotte è una persona assai timida e abituata a stare sulle sue. Non siamo mai stati così vicini come nelle scene del film. In quelle vi è rappresentato un amore bellissimo. Per il resto Charlotte è una persona molto riservata.
Nuovomondo rappresenta la tua consacrazione d’attore. Il film ottenne numerose nomination ai David di Donatello, tra cui la tua come migliore attore. Pur essendo tra i favoriti il premio venne assegnato a Elio Germano per Mio fratello è figlio unico.
Quella fu la testimonianza del nostro essere outdiders: tutti mi facevano grandi complimenti, avvertendomi però che non avrei mai vinto perché in Italia nessuno mi conosceva, quindi non avrei ricevuto molti voti. D’altronde nei premi funziona così. In generale si trattava di un film diverso dagli altri, per cui alla fine non ricevette alcun David se non quello per i costumi. Pagammo il fatto di non appartenere al mondo del cinema di Roma. E poi Elio Germano aveva fatto una super performance.
Per me invece è un capolavoro assoluto. A Venezia gli assegnarono un premio creato per l’occasione. Mi ricordo Crialese assalito dalle domande dei giornalisti che gli chiedevano il significato di certi passaggi del film.
Me lo ricordo anche io, perché si trattava sempre delle stesse domande ed è per questo che apprezzo l’intervista che stiamo facendo ora.
In ogni caso Nuovomondo è un film destinato a rimanere e a venire riscoperto.
La cosa bella è stata quando Nuovomondo ha avuto successo anche negli Stati Uniti: Martin Scorsese lo ha amato così tanto da voler mettere il suo nome sul poster dell’uscita americana.
Anche per questo allora ero convinto potesse entrare nella cinquina dell’Oscar per il miglior film in lingua straniera.
In realtà a me i premi dicono poco. Quello che mi colpì di più allora furono le lunghe code per andare a vedere il film nelle città americane e la gente che veniva da noi per comunicarci la loro commozione. Ci dicevano che la storia del film era uguale a quelle raccontatagli dai loro nonni e che solo attraverso il film avevano capito che si trattava di fatti realmente accaduti.
Da attore com’è lavorare sul set con Crialese?
Crialese è un’artista molto esigente e fa moltissime prove. Gli piace raccontare delle cose che lo fanno sognare ma che sono comunque vere. Il suo processo di scrittura dura degli anni ed è molto accurato nella scelta di dialoghi e personaggi. Poi, però, quando si inizia a girare e le figure prendono vita attraverso gli attori, lui incomincia ad appassionarsi e gli vengono in mente delle idee che sono molto più giuste di quelle presenti nella sceneggiatura. Così le cose più belle dei suoi film. o sono state scritte la notte, o sono state inventate sul momento da lui, com’è capitato quando la produzione di Respiro gli ha negato improvvisamente la barca.
Parliamo di cosa è successo in quel frangente.
Con Respiro abbiamo fatto una scena molto bella e divertente da girare. Non so se ti ricordi, quella in cui vado sul molo a prendere mia moglie che se n’è andata in barca a vela con i francesi. Ora, questa sequenza doveva essere fatta in alto mare, con me che mi riprendevo Grazia con una specie di arrembaggio. Per questione di costi, ci è stata negata; così lui ha pensato di cambiarla con la scena che poi si vede nel film, in cui mi trovo nel non poter nè salire in barca, nè ritornare a terra e finisco a mollo nel porto. E’ un passaggio ben riuscito, perché alla fine esprime allo stesso tempo la rabbia, ma anche il ridicolo della situazione in cui si ritrova il marito. Parliamo di una sequenza concepita in parte la sera prima, in parte il giorno stesso delle riprese. Lui è di certo il mio regista preferito. E’ una persona attentissima e desiderosa fino all’ossessione di fare bene le cose. Alla comprensione dell’essere umano e dei suoi sentimenti unisce i principi della scuola americana. Come ha detto Scorsese, Crialese mescola l’economia del racconto a una grande sensibilità nei confronti dell’umano.
Come Marcello Mastroianni per Fellini o Jean Pierre Leaud per Francois Truffaut, ti senti l’attore feticcio di Crialese? Te lo chiedo perché mi pare impossibile immaginare i suoi film senza la tua presenza.
Il termine feticcio non mi piace. La verità è che io e lui siamo grandi amici. Da stranieri a New York abbiamo passato un sacco di tempo a parlare delle cose del mondo, a considerare i fatti e le persone, per cui ci conosciamo davvero bene. Io non ho molti amici nel campo artistico e lui è sicuramente il migliore tra questi. Ciò non vuol dire che non discutiamo; anzi, a volte ci arrabbiamo molto perché abbiamo opinioni diverse. Sul set lui sa il modo per tirare fuori il meglio di me, tanto che basta solo uno sguardo per capire quello che vuole in un determinato momento. So cosa gli piace e cosa lo manda in bestia.
In seguito, inizi a fare film in Italia con buona frequenza: tra questi c’è quello di Sebastiano Riso, Più buio di mezzanotte, in cui sei un padre padrone che vessa il figlio. Rispetto a quello di Respiro è un padre che mette quasi paura.
Oramai il ruolo del padre mi capita sempre più spesso (ride, ndr). Riso è molto bravo e mi spiegò ciò che voleva da me. Mi ricordo ancora la sua indicazione che ti cito proprio perché tu dici che si tratta di un padre cattivo. Riso mi disse che il mio personaggio non era un genitore cattivo bensì impreparato. La sua reazione è brutta, ma lo si deve al fatto di non sentirsi all’altezza di affrontare le problematiche del figlio. Questo lascia un po’ di speranza agli esiti della storia; ti fa pensare che forse per il figlio ci sarà la possibilità di avere una vita felice.
Tu hai lavorato anche nel film di Angelina Jolie.
Anche in Umbroken faccio il padre del protagonista e in una scena si vede che lo prendo a cinghiate. Pure in quella occasione non è perché sono cattivo: all’epoca funzionava così con i figli che facevano monellerie anche pesanti, di quelle per cui il protagonista viene inseguito dalla polizia. Peraltro è da li che il bambino scopre di saper correre forte, tanto da diventare un grande corridore. Angelina voleva che io sottolineassi quella scena attraverso la forza delle mie cinghiate.
In Italia ti abbiamo appena visto in Sulla stessa onda di Massimiliano Camaiti, il quale lavorando su un plot di genere ha realizzato un film molto poetico e pieno di nuova freschezza.
Sì, in quel caso la cosa divertente era che dovevo fare l’operaio nel circolo nautico della mia città. Da ragazzo non ero mai riuscito a entrare perché era riservato alla gente benestante. Dunque è stato bello andare lì come attore e ritrovarmi tra persone che cercavamo di mettermi a mio agio, pronte a portami il caffè e a disposizione per qualsiasi cosa mi servisse. Lavorare con Camaiti è stato bello perché è un regista pieno di grazia, e lo si vede nel film. Il tema è molto drammatico, ma lui riesce a trattarlo con una sensibilità molto rara.
Tu sei anche uno scultore, per cui ti chiedo se non sia un lavoro simile a quello che fasi nel cinema, in cui in qualche modo plasmi la materia e la fai diventare diversa da sé.
Ancora sto cercando di capirlo. Plasmare la materia non lo si può dire, perché l’attore lavora principalmente dal di dentro, per cui recitare bene è soprattutto la sensazione di essere nella verità. Forse, nella ricerca del vero, scultura e cinema si equivalgono. Poi nella pratica mi ritengo molto fortunato perché si tratta di due lavori in verità molto diversi. Come scultore sono da solo e decido in piena autonomia. Poi improvvisamente capita che mi chiamino per un film e mi ritrovo con il regista, la truccatrice, i colleghi e perciò con un po’ di compagnia. Detto questo, una volta finito il film sono contento di poter tornare alla mia solitudine (ride, ndr).
I film e gli interpreti che ti ispirano come attore e che ti piacciono come spettatore?
Quando lavoro non mi ispiro a film, né ad attori perché Crialese fin da subito mi ha insegnato che sarebbe stato fuorviante per la mia recitazione. Come spettatore invece mi piacciono le cose più diverse. Per esempio amo molto Eric Rohmer: quando vedo i suoi film, entro in una stato di trance, per cui non capisco se le sue vicende stiano accadendo per davvero. Sembra che non succeda niente e invece la storia ti racconta sempre qualcosa che non avevi previsto. Nelle sue opere c’è una vibrazione oscillante tra realtà e metafisica che mi conquista ogni volta di più. Poi la mia passione sono i film di e con Clint Eastwood. Però se mi chiedi qual è il mio film preferito ti rispondo Le Samourai di Jean Pierre Melville con Alain Delon. Mi sarebbe piaciuto così tanto farlo io quel ruolo, perché il protagonista è un uomo in fuga che non parla mai e si muove sempre attraverso mille ambienti con un ritmo perfettamente cadenzato.
La cosa curiosa è che qualche mese fa ho fatto un film in America con Dwayne Johnson (in arte The Rock, ndr) intitolato Red Notice. Si tratta della più grande produzione della storia di Netflix. Si doveva girare a Roma, ma poi il Covid lo ha impedito, cosicché negli studios di Atlanta sono stati ricostruiti i monumenti di Roma in dimensioni reali. Interpreto il direttore del museo dove si svolge una parte della storia. E’ un action comedy al cento per cento. A un certo punto ho detto al regista Rawson Marshall Thurber che il suo film precedente, Skyscraper, mi era piaciuto tantissimo, nonostante fossi un appassionato del cinema di Rohmer. Così, per scherzare, gli ho detto “ I love Rohmer and Skyscraper” (ride, ndr). Il regista si è messo a ridere, perché anche a lui piacciono molto i film dell’autore francese.