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Shūji Terayama. L’Imperatore (Tomato Ketchup) della nouvelle vague del Giappone

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“Un “reietto di professione”, con un ben visibile lato oscuro (…); un “terrorista rivoluzionario dell’immaginazione” che condannava i manifestanti politici come “suini”; l’autore di una cosiddetta autobiografia zeppa di menzogne; un plagiario consumato; un giocatore d’azzardo compulsivo; un arrampicatore sociale senza vergogna proveniente dalla regione rurale di Tohoku; uno scriteriato, che si scavò la fossa da solo per non avere ascoltato gli ordini dei medici; un imbroglione che metteva a soqquadro intere città con i suoi “city dramas”; un pifferaio magico che attirava giovani sbandati; un figlio devoto che scriveva drammi sul matricidio e sull’incesto; un guardone schedato; un autore radiofonico il cui lavoro fu accusato di incitamento alla rivolta e alla distruzione; un regista che incitava gli attori ad assaltare fisicamente il pubblico (con il risultato di risse, arresti e l’ustione accidentale del volto di una donna); e (a seconda dei punti di vista) un alfiere della libertà artistica o un venditore di fumo”[1].

Certamente Shūji Terayama si sarebbe ritrovato nei termini di questa descrizione, nella tassonomia grottesca e surreale dei fantasmi del proprio corpo; ma Terayama, che è stato tutto questo, è stato anche molto altro. Un poeta raffinato e sperimentale che ha saputo influenzare coi suoi versi irati e malinconici i più giovani artisti giapponesi; un romanziere elettosi a nervoso trascrittore degli incubi della psiche; un teorico del teatro trasgressivo e nichilista con voce da filosofo; un drammaturgo straordinario che ha saputo debordare i limiti della rappresentazione teatrale fino al conflitto e all’estasi del caos; un regista di teatro paragonato in patria a Peter Brook e a Jerzy Grotowsky per il nuovo ordine degli usi dello spazio scenico e della figura trasgressiva degli attori e del pubblico; un regista di cinema che per sua stessa ammissione (provocatoriamente) sostenne di aver girato “(…) brutti film, privi di contenuti profondi i quali  non hanno alla loro base altra motivazione se non il bisogno di denaro”[2], giungendo al cinema quando il suo nome è già molto noto tra gli ambienti dell’avanguardia teatrale per la sua drammaturgia controcorrente e i numerosi scandali tanto sulla scena quanto per la sua stessa vita privata. Per quanto ci riguarda, soprattutto come autore di cinema, Terayama ha saputo tracciare un percorso libero ed estremamente trasgressivo; ha sollecitato attraverso il proprio mezzo l’ordine canceroso di un pubblico accostumato ai miti del consumo e della rappresentazione media, oltrepassando i limiti dello schermo cinematografico fino a revocare i confini fisici della proiezione costringendo i vedenti ai principi di un coinvolgimento critico ed intellettualmente operoso; ha interpolato produzioni di genere mediocremente commerciale con opere di estrema avanguardia e raffinata sperimentazione sul linguaggio, così rovesciando il canone gerarchico del valore d’uso dell’arte; ha inscenato i traumi del corpo come macchina di desiderio, provocando col feroce potere dell’immaginazione; ha contaminato la propria vocazione fra tradizionalismo patrio (il teatro kabuki, le filosofie morali, l’iconografia storica) e condizionamento occidentale (il surrealismo, la cultura popolare, la con/fusione dei generi); ha ossessivamente spiegato i temi della protesta degli adolescenti nei confronti delle consuetudini degli adulti, soprattutto aggredendo il sistema familiare del Giappone; infine ha fatto a pezzi con squisito cinismo la logica diegetica attraverso le tecniche dell’attrazione accidentale e del montaggio arbitrario.

Il primo film che pone definitivamente Terayama tra i grandi autori del cinema giapponese è lo sconvolgente Tomato Kecchappu Kôtei (L’Imperatore Tomato Ketchup, 1970). Del film esistono due differenti versioni: una di 76 minuti (meno criptica sotto il profilo della logica narrativa pure se meno interessante dal punto di vista iconografico), diffusa in un livido tono seppiato, e una da 28 minuti (a nostro parere migliore) prodotta per l’Europa e soprattutto per la Germania, in un austero e spoglio bianco e nero. “Riduzione del dramma radiofonico Otona-Gari (Caccia agli adulti) del 1960, che con un escamotage narrativo preso in prestito dal radiofonico La guerra dei mondi di Orson Welles satireggiava le proteste studentesche contro il rinnovo del patto di sicurezza nippo-americana, Emperor Tomato Ketchup racconta la rivoluzione dei bambini contro gli adulti, imprigionati, picchiati, abusati e uccisi dai piccoli aguzzini, i quali indossano uniformi militari e ricreano i comportamenti dei grandi. Gli obiettivi di Terayama sono molteplici e a tutto campo: sbeffeggiare la sinistra studentesca come pure le derive destrorse di certa élite intellettuale, su tutti Mishima (il cui suicidio Terayama aveva criticato per non essere stato sufficientemente teatrale) e il suo esercito personale Tate no Kai, mettere alla berlina l’egemonia culturale americana (il titolo appaia la figura dell’imperatore, considerato in Giappone al pari di una divinità fino al 1946, a uno dei simboli dell’American way of life), alludere alle atrocità di guerra compiute dal proprio paese, commentare l’inevitabile fallimento di ogni rivoluzione. La furia iconoclasta non risparmia nessuno: tra le immagini su cui in una delle sequenze iniziali i piccoli rivoluzionari tracciano croci nere compaiono Dostoevskij, Marx, Mao, Jean Harlow e Machiavelli. Anche la forma è anarchica, con una voce recitante che accompagna una successione di vignette prive di una linea narrativa definita, piani-sequenza aperti all’improvvisazione e un uso degli spazi che riprende le esperienze teatrali della Tenjō Sajiki. “Il comportamento violento dei bambini potrebbe essere visto come una vivida dimostrazione di come i bambini più indifesi della società (…) desiderino ribellarsi” scrive Carol Fisher Sorgenfrei. “Ma potrebbe anche essere una reazione scatologica all’imposizione della democrazia americana, all’accettazione forzata della nuova Costituzione, e alla presenza continuativa dell’esercito Usa dopo la fine dell’occupazione”. Comunque sia, il risultato è tanto esile dal punto di vista cinematografico quanto disturbante: e se Otona-Gari era valso a Terayama la patente di agitatore pubblico, le scene di sesso (simulato) che coinvolgono minori scatenano le accuse di oscenità: in una sequenza un ragazzino assale una prostituta, le succhia i capezzoli e affonda il viso nel suo ventre, in un’altra un bambino in uniforme e con baffi finti disegnati sul volto è spogliato e iniziato al sesso da un trio di fate con indosso solo voluminose parrucche bianche, e cavalca una di esse simulando in maniera esplicita l’accoppiamento. Ma c’è spazio anche per immagini surreali come una partita a ping pong in cui la rete è sostituita da una donna nuda, un’interminabile sfida a morra cinese che finisce in zuffa (che Terayama estrapolò poi per un corto a sé stante, Janken sensō), un inquietante finale in cui i piccoli si mettono in posa a imitare famose figure di dittatori[3]”. Nei modi di una favola rovesciata in un futuro eroticamente distopico in cui i bambini governano sugli adulti e li condannano a morte in un’orgia di riconquistata libertà sessuale, la pellicola affronta il tema del potere come strumento di sopraffazione senza coscienza; come luogo del dominio, esso è il mezzo della modernità come anarchia. Invertendo la parabola antropologica classica, i bambini prendono in mano il potere nell’estroflessione di una rivolta surreale nella quale governa la sola legge del piacere sessuale. Come ha scritto Joan Mellen, “Una visione fascinosamente anarchica riguardante la presa del potere da parte dei bambini e la creazione dell’Impero di Tomato Ketchup. L’Imperatore, abbandonando la sua “corte di pantaloncini”, parte, imbracciando un fucile, con i suoi reggimenti alla caccia degli adulti. La Costituzione del Nuovo Impero dichiara che gli adulti, i quali sopraffanno i bambini con la forza fisica, saranno soppressi dallo stato civile”[4]. Ai limiti della pornografia per le numerose scene di sesso che coinvolgono minori (che destarono parecchio scandalo e unanime riprovazione), il film in realtà intende con serissima indignazione tracciare gli usi grotteschi e devastanti del potere documentandone la ferocia proprio a confronto con il candore ontologico dell’infanzia; la violenza perpetrata dai fanciulli assurge a precipitato dell’insensatezza del potere stesso, e la loro pratica del dominio senza coscienza – che ha effetti cinematografici di rara perturbazione anche per il rifiuto radicale di ogni progressione metanarrativa – serve l’assunto di Terayama per cui occorre rovesciare una società malata per una società libera e consapevolmente critica, non per ultimo proprio nella memoria delle migliaia di bambini morti carbonizzati sotto le bombe nella città natale dello stesso regista quando lui aveva appena 9 anni. Con una scrittura ellittica e surreale, Terayama utilizza le immagini in sé nella loro propria natura e non come mera proiezione delle parole: il sesso, che vorrebbe essere la rappresentazione naturalistica di un’umanità gioiosa, intenzionalmente appare come una vertiginosa fiera delle atrocità, un gorgo bizzarro di violenza e deviazione, alla fine il luogo della totale ambiguità che consente all’opera d’arte la risoluzione dei conflitti.

[1] Roberto Curti, Tommaso La Selva, Sex and violence. Percorsi nel cinema estremo, Torino, 2007.

[2] Intervista a Terayama in Kitagawa Takanobu Shokugyô – Terayama Shûji – Kyokô ni Ikita Tensai no Densetsu, Nihon Bungei-sha.

[3] Roberto Curti, Tommaso La Selva, Sex and violence. Percorsi nel cinema estremo, Torino, 2007.

[4] Joan Mellen, Voices from Japanese cinema.

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