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Los Conductos: dai labirinti delle dipendenze alla ricerca della luce.

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Una catabasi che scende inesorabilmente giù, ad esplorare le viscere di un destino, individuale e collettivo, fino ai più oscuri meandri di un Paese, la Colombia, dove la vicenda esistenziale di ‘Pinky’, il protagonista del film Los Conductos, esordio al lungometraggio del regista e artista colombiano Camilo Restrepo – già noto per alcuni corti eclatanti, vicini alla video-art, come Cilaos e La Bouche – s’intreccia inesorabilmente con le vicende e la storia di un intero popolo, ferito e in fuga.

Il film, già presentato alla Berlinale 2020, è disponibile on demand su MUBI, la piattaforma che propone scelte cinematografiche autoriali e indipendenti.

Ispirato alla vera storia di Luis Felipe Lozano (Pinky), un senza tetto da sempre amico del regista – che gli affida nell’opera il ruolo di interprete, intenso ed irripetibile, di se stesso – il film ne evidenzia un vissuto ‘dannato’ e doloroso, sulle strade di Medellin, attraverso la dipendenza dalla droga, passando per le manipolazioni strumentali   ad opera di una setta religiosa, il cui capo-padrone lo riduce in schiavitù e lo induce a commettere ogni tipo di reato, fino alla decisione di eliminare l’odiato ‘padre/guru’ ed alla conseguente ricerca di una possibile redenzione.

Los Conductos sublima in metafora artistica la rabbia e il desiderio di vendetta di Pinky verso coloro che, nel tempo, lo hanno sfruttato e reso dipendente, tanto da avere incubi ed ossessioni ricorrenti anche molto tempo dopo i fatti narrati. inscenando nel film un catartico omicidio – mai commesso nella realtà – che lo costringe a nascondersi e cercare riparo, mentre inizia a fare i conti col suo passato, cercando un lavoro in un laboratorio di magliette illegali e ad immaginare faticosamente la luce in fondo ai tunnel labirintici della sua vita e dell’intero Paese.

“Gran parte del mio pensiero – ha raccontato il regista in un’intervista – nasce da luci, forme, suoni e colori. Los Conductos è un film i cui elementi formali risuonano con la storia del suo protagonista, il mio amico Pinky. Un giovane che un giorno si è reso conto di non sapere più dove si trovano i confini tra il bene e il male. Vittima di una setta religiosa dalla quale è riuscito a fuggire, Pinky riflette sul male che è stato spinto a commettere in nome di una presunta giustizia divina. Sapendo che la sua fede era lo strumento con cui veniva manipolato, ha imparato a diffidare di tutto e di tutti. Come può qualcuno sapere cosa è vero o falso, buono o cattivo, reale o immaginato? Questa è la domanda costante di Pinky.”

Come espediente narrativo, il regista utilizza personaggi popolari del panorama storico, letterario ed artistico colombiano, di epoche diverse ma tutti noti, che incontrano e si confrontano con Pinky per rispecchiare i dilemmi etici che scuotono il paese ed i suo figli, emarginati e non: tra questi, il bandito “Desquite”, reo di violenze plurime verso lo Stato tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

“Il mio ruolo – continua Restrepo – era quello di incorniciare il ritratto di Pinky. Questa cornice l’ho costruita con una serie di personaggi storici e letterari che hanno espresso le mie opinioni sulla situazione di Pinky e, allo stesso modo, sulla situazione del paese. Questa cornice è l’elemento che dà un tocco di irrealtà alla storia <…> in questo modo ho assunto, attraverso l’artificio delle mie idee artistiche, la mia distanza dalle sue esperienze <…> Più il protagonista va indietro nel tempo, più si allontana dalla propria persona, dalla propria identità e, attraverso questo movimento nel passato, Pinky inizia a personificare un’idea, quella della vendetta degli oppressi”.

Cantore dei diseredati e ricercatore di immagini ad alto contenuto estetico, Restrepo mescola con grande abilità tecnica atmosfere documentaristiche e scene di pura fiction, affidando ai colori, alle sfumature e ad elementi di contesto tipicamente sudamericani la cura del racconto, quasi sempre notturno e spiazzante, in un continuo rimando tra realismo e antirealismo.

A commento finale della storia, il regista fa appello ai versi della Elegía a Desquite del poeta Gonzalo Arango, per rilanciare una profezia fin troppo facilmente interpretabile sul futuro del suo paese e della gente che lo abita.

“<…> Non è possibile che la Colombia, invece di uccidere i suoi figli,

li renda degni di vivere?

Se la Colombia non può rispondere a questa domanda

Allora profetizzo una disgrazia:

Desquite (la vendetta) risorgerà

E la terra sarà di nuovo innaffiata di sangue, dolore e lacrime”.

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