Di Yukio Mishima non si ha che un solo profetico cortometraggio del 1966 dal titolo Yûkoku (Patriottismo). Scritto, prodotto, diretto e interpretato dallo stesso scrittore, il film è la trasposizione fedele del suo racconto Patriottismo (1961), che, insieme a Il crisantemo del settimo giorno (1961) e La voce degli spiriti eroici (1966), realizza una trilogia ideale sulla vicenda del colpo di stato del 26 febbraio 1936 ispirato dalle teorie nazionalsocialiste di Ikki Kita e compiuto da parte di un gruppo di militari fedelissimi all’imperatore nel cui nome agivano in rivolta, pure se l’imperatore non comprese le loro azioni decretandone la condanna a morte: nei tre giorni di assedio degli uffici governativi alcuni ufficiali vennero giustiziati e morirono con disonore, altri ebbero il tempo di uccidersi compiendo il rituale di guerra del seppuku. Retrospettivamente, Mishima cerca con le sue opere di analizzare un evento storico che ebbe a colpirlo assai nel profondo non perdonando la reazione imperiale che avrebbe dovuto piuttosto difendere l’atto eroico e non punirlo tradendo le ragioni ideali della salvezza della patria. Inoltre, Mishima inscena a suo modo quelle proiezioni profonde di una cultura tutto sommato assai influenzata dall’occidente europeo nell’analisi del disagio esistenziale. Il suo film, rifacendosi quasi esattamente al primo racconto della trilogia, ne estrapola un momento intimo e coniugale concentrandosi su una coppia la cui vicenda assurge a paradigma simbolico dei principi di fedeltà e di codice etico dei samurai.
Mishima si concentra sull’ultima notte del tenente Takeyama e di sua moglie Reiko, una coppia di giovani sposi che si adorano. Per questo amore profondo, il tenente era stato lasciato all’oscuro della rivolta dei compagni. Il suo nome non era nelle liste dei rivoltosi e, per questo motivo, gli era stato comandato di farli giustiziare. Per lui la fedeltà all’ideale si rivela più forte dell’ordine dei superiori e decide così di uccidersi. Per sua stessa scelta, lo segue la moglie. La prima notte di nozze, la donna gli aveva dato una prova di amore e fedeltà. Lei sapeva che essere la moglie di un ufficiale avrebbe significato affrontare un giorno la morte del marito e per questo poteva (o doveva) morire con lui. Quella notte Reiko gli aveva mostrato il pugnale che faceva parte della sua dote nuziale. Al tenente era stato sufficiente per capire che Reiko era la moglie ideale per un militare e per questo motivo non l’avrebbe uccisa prima del suo rito. Aveva piena fiducia in lei; aveva bisogno di un testimone perché il suo ultimo gesto fosse degno d’onore e rispetto. Poco importava se poi il testimone sarebbe morto a sua volta.
L’ideologia eroica e decadente di Mishima si compie nel raffinato sincretismo tra l’atto del suicidio e l’atto della congiunzione carnale dei due coniugi attraverso la quale il silenzio estingue i termini umani della caducità: così l’eros è precorso da un tenerissimo addio prima del sonno della morte. Essenzialmente il film si concentra sull’apprestamento alla morte cui presiede l’atto sessuale simbolicamente compiuto con l’ossessiva meticolosità di chi si congeda dall’esistenza: avere memoria totale del corpo dell’amante. Stilisticamente Mishima compie alcune scelte suggestivamente radicali: bianco e nero geometrico e contrastato (molto simile alla fotografia del cinema di Yoshishige Yoshida) che esalta cromaticamente gli elementi iconici del suicidio finale (il kimono bianco come la morte di Reiko e il sangue virile che fluisce dal taglio sul ventre di Takeyama) tuttavia non indulgendo al parossismo dei contrasti, narrazione sostituita dal Tristano e Isotta di Wagner e da lunghe didascalie su fotogrammi fissi nei quali si legge l’antefatto in cui è ripartito il film, messinscena in un solo interno essenziale (con un kakemono sul quale sono tracciati i due caratteri che significano sincerità assoluta (shisei) dichiaratamente mutuata dal teatro Nō con riguardo maniacale ai dettagli, interpretazione ieratica e introflessa dello stesso Mishima e della sua vera moglie. Cinema disadorno e del silenzio che trasmette il senso delle idee per mezzo dei movimenti flessuosi e ricercati dei due amanti, quasi attraverso un’ontologia dell’azione in sé come soprattutto accade nelle sequenze successive all’eroico suicidio di Takeyama: Reiko ricompone il corpo del marito così che esso giaccia in solenne contegno e socchiude la porta di casa affinché sia dato di trovare i due corpi prima che si decompongano sfiorendo nella loro bellezza, poi anche lei compie seppuku nella maniera concessa alle donne con il taglio della gola. Nel gesto di Reiko vi è comunque l’onore di Tekeyama in quanto la donna non avrebbe mai saputo compiere il proprio suicidio se non per effetto della virilità eroica dell’uomo, che, quantunque morto, consente col suo eroismo il conseguimento della purezza necessaria per un estremo atto di salvazione spirituale. Come ha osservato Gianni Volpi “amore e morte sono stravolti secondo canoni narcisistici di culto del sublime, autentici nella loro ricerca di immagini e gesti assoluti. Un eros di nudi totali e dettagli allusivi, e poi, dappertutto, il sangue dell’harakiri di lui, del suicidio di lei. Riti puri come riti compiuti davanti agli dèi, li dice una didascalia”. Bene al di là dei riferimenti ideologici al patriottismo, in conclusione il film di Mishima appare come un poema cinematografico ispirato ad una visione tragica della bellezza in cui “la tesa allucinazione erotica e lo spirito ferale che dominano il moderno cinema nipponico vengono fusi e coniugati insieme in un’affascinante esasperazione lirica nella quale il misterioso rapporto rituale tra la vita (Eros) e la morte (Thanatos) trova forse una delle sue più persuasive espressioni”.