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Conversation

Il mestiere dell’attore. Conversazione con Giorgio Tirabassi

Nonostante la Nebbia di Goran Paskalievich regala allo spettatore l’opportunità di rivedere all’opera Giorgio Tirabassi

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Nonostante la Nebbia di Goran Paskalievich regala allo spettatore l’opportunità di rivedere all’opera Giorgio Tirabassi, uno degli attori più bravi e popolari del nostro cinema.

Allievo di Gigi Proietti, Giorgio Tirabassi ha lavorato con i più grandi, recitando nei film di Ettore Scola, Claudio Caligari e Carlo Mazzacurati. Interprete di personaggi chiamati a farsi carico del bene comune,  Tirabassi ha condiviso set e palcoscenico con Nino Manfredi, Alberto Sordi, Giancarlo Giannini.  Con Il grande salto ha esordito alla regia con una storia che guarda ai capolavori della commedia all’italiana. Nell’intervista a Giorgio Tirabassi il lavoro dell’attore diventa motivo di  storia e conoscenza. 

Più che il problema dell’immigrazione, Nonostante la nebbia di Goran Paskaljevic mi sembra voglia raccontare  il tema dell’accoglienza, questione su cui ancora si dibatte molto in Italia e all’estero.

Il tema è quello; poi Goran ne ha dato la sua interpretazione. Lui ha girato film in diverse parti del mondo e con Nonostante la nebbia secondo me ha voluto dire la sua sul nostro modo di essere cattolici. La sua morte mi ha addolorato, perché era davvero una persona rara e un regista che stimo tantissimo, anche per il suo modo di costruire le immagini attraverso  un uso costante del piano sequenza.

Ci sono delle interpretazioni che per forza di cose interrogano la persona e non solo l’attore. Penso a quella di Paolo Borsellino e del commissario di Distretto di Polizia, ma anche al tuo ruolo nel film di Paslkaljevic. Rispetto alla prospettiva del regista, come ti sei posto di fronte a un vicenda come quella raccontata in Nonostante la nebbia?

Goran è sempre stato un autore contro corrente; dunque, anche questa volta non è venuto meno alla sua fama. Di cosa voglia dire essere laico o cattolico, ha restituito una visione molto personale. Detto questo, se il rapporto tra regista e attore funziona umanamente, funziona anche artisticamente. 

Che rapporto hai con i personaggi che hai interpretato?

Non sempre uguale. Per esempio, nelle serie televisive ti capita spesso di interpretare personaggi meno intelligenti di te e ogni tanto di farne alcuni dai quali c’è molto da imparare, come è accaduto con Paolo Borsellino e Libero Grassi. Fa parte del nostro lavoro.

Tu hai iniziato con Gigi Proietti e dunque con un mestiere che ti portava a recitare davanti al pubblico senza le mediazioni del cinema in cui la performance dell’attore è influenzata dal modo di girare del regista. 

Sì e no, cioè nella maggior parte dei casi il regista interviene solo quando l’attore non capisce il senso della sceneggiatura. Se  hai capito il personaggio, sai come va detta quella battuta. Una volta, durante un’intervista, chiesero a Ettore Scola in che modo decideva di mettere la macchina da presa quando  impostava una scena. Lui rimase per un attimo spiazzato, poi domandò: “Eh, dove sta l’attore?”. E  il giornalista: “Immaginiamo che sia lì”, e lui: “Bene, allora la macchina da presa la metto qui” (ride, ndr). Questo per dire che è tutto molto più semplice. Il film principalmente è la sceneggiatura. 

Però tu sei cosciente e ti preoccupi di come gira il regista, della sua visione e di come compone il quadro. L’occhio del regista penso influisca in maniera determinante  sulla qualità del tuo lavoro.

Certo che influisce. Io sono 41 anni che faccio l’attore; dunque quando leggo la scena di una sceneggiatura, so benissimo che cosa succederà in quella giornata. Quando ho cominciato non era così, poi con l’esperienza diventi consapevole dei meccanismi e sai che alcune scene saranno difficili, perché non riesci a immaginare come deciderà di farle il regista. Quando giravo Paolo Borsellino con Gianluca Maria Tavarelli – ottima persona, grande regista e soprattutto amico – c’erano molte scene importanti: in una di queste, il giudice si confidava con il parroco che era anche un suo amico. La conversazione si doveva concludere con il protagonista in lacrime, per cui mi sono preoccupato di chiedere al regista se, dopo il piano a due, la mdp sarebbe passata interamente su di me per il primo piano finale. Sapere cose come queste, permette all’interprete di arrivare al momento clou con la giusta intensità, evitando di disperderla nelle inquadrature precedenti. Molte volte per inesperienza mi sono trovato a dare tutto nel totale, arrivando scarico al primo piano.  Per questo dico che il lavoro dell’attore nel cinema deve essere molto tecnico. A parte la bellezza del rapporto con la mdp, che almeno per me è bellissimo, devi assolutamente sapere e capire per il tuo bene e per quello del film. Il regista intelligente sa cosa deve fare, ma è bene che lo sappia anche l’attore per lavorare meglio insieme a lui.

Non è banale quello che ti ho detto, perché non tutti gli attori si preoccupano di sapere come funziona la mdp. Alcuni, anche molto bravi, non sono interessati al mezzo. Al contrario, l’importanza di conoscere gli aspetti tecnici presenti sul set me lo ha insegnato direttamente e indirettamente – perché in realtà nessuno è disposto a farlo in maniera esplicita – Giancarlo Giannini, che è forse uno degli attori più tecnici e più bravi che io abbia mai incontrato. Lui mi ha fatto capire che la mdp è amica tua e che tu stai lavorando per lei. È una conoscenza basilare per capire come interpretare la scena. Goran Paskaljevic è rimasto molto contento di me  per come interagivo con la mdp. Trovandosi di fronte a un attore capace di  accompagnare il movimento della stearica, e dunque di aiutarlo nel legare le scene una con l’altra, mi chiese persino di imparare il serbo per fare tutti i suoi film con me (ride, ndr). Per me il grosso del divertimento è anche questo. Il teatro è un’altra cosa, mentre nel cinema, se non sai quello che succede, puoi rimanere nel limbo per ore in attesa di girare e le giornate sembrano non passare mai. 

Nonostante la nebbia racconta una vicenda calata nella realtà, e in particolare la vita di una coppia sconvolta dall’accoglienza prestata a un piccolo immigrato. Nel farlo però si serve di archetipi allusioni e metafore che allargano il ragionamento a una visione più generale del problema relativo all’accoglienza.  

Sì, è vero, però a fare la differenza è il punto di vista del regista e dunque del modo in cui Goran ha deciso  di raccontare i personaggi del film. Hai ragione nel dire che nel film ci sono dei luoghi comuni. Quando ho letto la sceneggiatura, anche a me sono venuti dei dubbi; però a favore dell’autore c’è il fatto che lui sa cosa viole raccontare. A volte sul set ti sembra di non riconoscere quello che hai letto, come pure di non ritrovare nella messinscena le indicazione della sceneggiatura. In generale, quando succede, si tratta di registi con le idee poco chiare, ma nel caso di Goran non è stato così. 

L’inizio e la fine del film sono molto metaforici. Da una parte, come nel film di John Carpenter (Fog, ndr) la nebbia rimanda a qualcosa di sconosciuto e perciò di minaccioso. Gli immigrati sono ombre prive d’identità che avanzano senza meta apparente. Dall’altra, la stessa nebbia potrebbe rimandare a una dimensione esistente ma sconosciuta, fino a quando Valeria e Paolo non sono costretti a prenderne coscienza. D’altronde, tutta la prima sezione del film è costruita su una serie continua di scoperte che riguardano, non solo la realtà del bambino, ma anche le reazioni di amici e famigliari rispetto alla decisione di occuparsene da parte della coppia. 

Sai, la nebbia è qualcosa che non permette la perfetta visibilità. Dunque, anche se arrivi al contatto con il fenomeno non lo vedi, perché la nebbia è anche dentro le nostre teste. Non a caso il tema del film è soprattutto il senso dell’accoglienza, il modo di metterla in pratica da parte della Chiesa, nonché lo scarto esistente tra buoni propositi e le remore che nascono quando si tratta di metterli in pratica e fare i conti con le conseguenze che essi comportano. Da cui la visione dello straniero come nemico, che poi sta alla base del razzismo. Il finale invece rappresenta il colpo di spugna del grande autore, quello in cui il punto di vista del regista viene trasfigurato con una forza destinata a rimanere impressa agli amanti del cinema. A me ha ricordato Buongiorno Notte di Marco Bellocchio: anche lì la conclusione era la parte più bella e interessante del film. 

Spesso, nel corso del film, Paskaljevich ,attraverso di voi, nasconde sotto gesti ordinari allusioni e metafore. In una delle scene più forti, il personaggio di Donatella Finocchiaro si spazientisce perché il bambino non riesce a cantare Tu scendi dalle stelle.  Oltre al fatto in sé, la sequenza rimanda al discorso sulla colonizzazione culturale e sulla democratizzazione dell’Islam  senza però avere la pesantezza che di solito accompagnano i temi in questione. Cosa ne pensi?

Secondo me, ogni film puoi trovare una seconda lettura che va più in profondità. La scena in questione fa capire anche che tipo di astio aveva Goran nei confronti della fede cattolica. Quindi, sì, è assolutamente quello il significato: d’altronde, anche la nebbia iniziale ce lo dice riferendosi all’incapacità di vedere le cose come stanno e di non accorgerci di alcuni concetti che sono atavici, soprattutto in Italia, a causa dell’ingerenza della Chiesa e della cultura cattolica. Nonostante la nebbia si potrebbe definire come un film sui danni della cultura cattolica. 

Il tuo personaggio rappresenta il punto di incontro e di equilibrio tra le diverse spinte che vengono rappresentate nel film. Parlo dei pregiudizi del fratello di Paolo, della depressione della moglie Luciana, dalle reazioni della Chiesa, incapace di prestare un aiuto concreto. A te capita spesso di interpretare personaggi chiamati a tenere i piedi a terra rispetto alle pulsioni irrazionali del mondo circostante. È stato così anche ne Il grande salto. il tuo esordio alla regia rispetto al misticismo di Ricky Memphis.  

In ogni storia deve esserci il punto di vista del pubblico e quindi un personaggio che, se non lo rappresenta, almeno ne riproduca in modo corretto il pensiero. Tutti i protagonisti delle storie hanno qualcosa a che vedere con le persone in sala. Poi ci sono gli altri personaggi chiamati a metterlo in difficoltà, spingendolo a fare cose anche discutibili. Però c’è sempre un punto di vista razionale o comunque lucido, coerente, corretto. Dunque, sì, il mio personaggio è quello che incontra un bambino alla fermata dell’autobus e da lì in poi si comporta come chiunque al posto suo avrebbe fatto.

A me  il tuo personaggio ha ricordato quello di Timothy Spall di Segreti e bugie di Mike LeighNelle situazioni critiche, è stato Paolo che, con grande dignità e umanità, ha cercato di tenere unita la famiglia, facendosi carico di tutti i problemi.

Il nostro senso dell’umorismo, il nostro modo di pensare, il nostro essere italiani si sono formati ed e sono cresciuti più con il cinema che con la storia. Alcuni personaggi di Nino Manfredi e di Alberto Sordi hanno formato gli italiani, perché raccontavano personaggi molto vicini a noi. Io  poi adoro Manfredi, è l’attore italiano forse più vicino agli americani, quello che è andato sempre dai personaggi e non se li è mai portati a sé. Cosa che faceva Sordi, e  qui parliamo di grandissimi, dei Messi e dei Ronaldo del cinema. Un attore può piacere o meno, ma, se è in grado di  entrare in empatia con il pubblico, lo può portare dove vuole. Gli sceneggiatori scrivevano le storie su di loro perché sapevano che erano attori in grado di risolvere anche i passaggi più complicati. Con Nino, di cui abbiamo appena celebrato il centenario della nascita, ho avuto la fortuna di lavorarci assieme per un po’ di tempo: aveva già qualche anno ed era un po’ stanco, però ogni tanto le zampate – soprattutto nell’uso del primo piano – venivano fuori. Era fenomenale! 

Dicevi di come Manfredi fosse in grado di andare verso il personaggio. Mi puoi fare qualche esempio?

Se prendi uno qualsiasi dei personaggi interpretati da Sordi ti accorgi che vengono sempre adattati alle sue corde. Succede non solo ne Il marchese del grillo ma anche in un film diverso dai suoi come Un borghese piccolo piccolo.  L’esatto contrario di quello che faceva Manfredi in Brutti Sporchi e Cattivi, in  Cafe Express e Pane e cioccolata. Anche Marcello Mastroianni era uno che portava i personaggi a sé. Vittorio Gassman faceva un po’ l’uno e l’altro: essendo un attore completo, non aveva paura di andare incontro al personaggio. Cosa che Manfredi faceva proprio a duecento all’ora, portandosi con sé anche alcuni vizietti, che facevano molto ridere. Penso a certe esitazioni e ai doppi sguardi che lo rendevano unico e straordinario. Sarebbe un attore che tutti i colleghi più giovani dovrebbero studiare. Purtroppo molti di questi non ne sanno nulla. 

Nonostante Manfredi sia uno dei nomi che più di altri emerge quando nelle interviste si parla dei modelli di riferimento.

Ultimamente sono stato in giuria a un festival ad Asti e, stando a tavola con dei giovani registi, è vento fuori il nome di Francesco Rosi. Uno di questi mi ha detto:“ Rosi, chi? Me lo voglio andare a vedere”. Io posso capire che alcuni attori giovani non sappiano nulla di Tino Buazzelli – ed è un peccato – ma che tu conosca poco o niente Manfredi o che tu non abbia visto La grande guerra non va bene.  Molta gente si è avvicinata al lavoro dell’attore in una maniera poco sana e per pura esibizione. Il Grande Fratello ha fatto un sacco di danni: da una parte ha permesso di scoprire anche attori che hanno dimostrato di aver talento, e penso a Pietro Taricone e a Luca Argentero; però in generale il meccanismo è antieducativo e sbagliato. Secondo me anche i registi sono così: magari conoscono Quentin Tarantino ma non conoscono Rosi.

Al contrario tu dimostri di conoscere molto bene la grande tradizione del cinema italiano.  Il tuo primo film da regista, Il Grande salto, è una sorta di commedia picaresca che omaggia quella commedia italiana che hai appena citato. Peraltro, il film mi è piaciuto davvero molto e meriterebbe di essere riproposto al pubblico.

Non c’è stata l’intenzione di fare un omaggio alla commedia all’italiana. È semplicemente che, se ti metti nei panni di questi due personaggi, il nostro modo di raccontare è quello che ti dicevo prima. Noi siamo cresciuti in quel modo, dunque non avrebbe avuto senso adottare un altro tipo di narrazione. Per forza di cose vai a finire che sei influenzato da Mario Monicelli ed Ettore Scola. Quando lavoravamo sul film, l’autore delle musiche, Battista Lena – amico e musicista bravo e colto -, mi aveva portato le prime proposte. Nella scena della rapina all’ufficio postale, che poi si rivela vuoto, lui aveva messo una musichetta con una specie di clarinetto. A quel punto gli ho detto: “ No, aspetta! Tu da persona ironica commenti nel tuo modo, ma qui dobbiamo stare sul loro stato d’animo che è tragico a causa della mancata rapina”. Non a caso il film ha avuto molti problemi, perché i distributori consideravano la storia troppo triste. Questo succede perché taluni confondono la commedia con il comico.

Tu e Ricky Memphis avete creato due personaggi che, per affiatamento, naturalezza e capacità di passare da un registro all’altro, mi ha ricordato le grandi coppie della commedia italiana. Non capita spesso nel cinema di oggi.

Alcune cose sono istintive e non le costruisci. La prima volta che ci siamo trovati  a far quel tipo di lavoro è stato quando abbiamo fatto L’ultimo capodanno di Marco Risi. Tutto è cominciato lì, quando ci siamo trovati a fare quelle scene, dove per forza di cose bisognava lavorare sull’improvvisazione e sui tempi comici. Poi ci siamo incontrati una seconda volta grazie a Distretto di Polizia, dove inizialmente non era previsto il rapporto tra i nostri personaggi così come poi si è sviluppato. Alla fine di ogni scena, prima dello stop, aggiungevamo sempre qualche battutina e la troupe scoppiava a ridere. Da lì è nato quel tono da commedia che, se è fatto con la misura giusta, dà sicuramente più veridicità alla storia, perché nella vita c’è  anche ironia e non soltanto amicizia virile. Poi dipende anche dal film che fai: nel caso di Distretto di Polizia andava bene così. Sta di fatto che tra di noi è nata una grande intesa. Per questo pensando a Il grande Salto non c’erano dubbi che fossimo io e Ricky a doverlo interpretare.  A lui,  nel corso del film, non ho mai dovuto dire niente. La scena finale, quella nella spiaggia, l’ho scritta durante la lavorazione, perché vedevo che c’era bisogno di un momento ancora più drammatico. I produttori erano contrari, invece per me doveva esserci, non poteva finire senza un momento come quello. Allora dicevo a Ricky: “ Leggiamola”, e lui: “ Dopo il caffè“ e quindi aspettavo un giorno, due, tre: alla fine l’abbiamo girata in una sola giornata. L’abbiamo fatta al volo, sebbene fosse una scena difficile anche dal punto di vista tecnico, l’unica davvero impegnativa. Per il resto non c’è stato mai bisogno di dire nulla a Ricky, perché lui rappresenta la semplicità a cui faceva riferimento Scola con la frase di cui ti dicevo. Siamo cresciuti con i personaggi di Manfredi e Gassman e con quella mentalità che gli apparteneva.

Pensa al Il Gaucho di Dino Risi, che si dice fosse stato fatto soltanto perché il regista potesse andare in Argentina, per dare corso a una sua liaison. Sull’aereo, Scola e Ruggero Maccari scrivevano il film. Dopodiché si resero conto che c’era qualcosa che mancava. La cosa si risolse con l’arrivo a  Buenos Aires della compagnia del Rugantino, che permise loro di scrivere la scena più bella, quella in cui  Gassman va in cerca dell’amico Nino Manfredi che ha fatto fortuna. Vi consiglio di andarlo a vedere.

Nel film ritrovi Marco Giallini e Valerio Mastandrea. Con loro avevi condiviso il set de L’odore della notte

Anche Claudio Caligari era uno di quegli autori capaci di inventarsi cose non previste dalla sceneggiatura, trasmettendoti comunque la sensazione di avere il controllo della situazione. Quando ho fatto La cena di Scola, la mia entrata non prevedeva il riferimento al carciofo; non c’erano tante battute, i dialoghi erano semplici e lui era lì a dirigermi come se avesse in mano un joystick. Io avevo paura, perché era un set molto importante, però sapevo che tutto quello che diceva era giusto e questo alla fine mi ha aiutato. Lui era una persona adorabile e aveva un senso dell’umorismo straordinario. È stata la persona più spiritosa che abbia mai conosciuto.

Mi dicevi che lo era anche Carlo Mazzacurati con cui hai fatto Un’altra vita.

Sì, Mazzacurati era spiritosissimo; con lui ho riso tantissimo. L’ironia e il senso dell’umorismo sono alla base di ogni rapporto.

Peraltro, si trattava di un film drammatico.

Sì. Era  il punto di vista di un padovano che vede Roma e trova alcune cose di questa città abbastanza singolari.

Tu sei uno dei pochi attori che è riuscito a passare dalla televisione al cinema, riuscendo a vincere quel pregiudizio che si ha verso gli interpreti di serie televisive molto popolari. 

Sì e no, perché invece i pregiudizi ci stanno, eccome, da parte di tanti registi italiani. Però è vero che sono riuscito a fare anche altre cose e anche adesso capita così grazie al fatto che ho un po’ allentato con la televisione. Io però da una parte capisco la situazione, perché non si tratta soltanto di pregiudizi. Quando fai il tuo film, pretendi che il suo impatto con il pubblico sia autentico. Se tu metti una persona che è riconducibile immediatamente a un personaggio o a una serie televisiva  non ottieni il tuo scopo.  Detto questo, ci sono registi  più sicuri che se ne fregano di questi pregiudizi. 

Nel corso dell’intervista ne hai già parlato, ma ti chiedo comunque di dirmi film e colleghi che ti piacciono e a cui ti ispiri. 

Devo dire che a me piace molto Nicolas Winding Refn  di cui ho visto tutta la filmografia, compresa la serie Too Old to Die Young che è bellissima. Sono anche incuriosito da Bela Tarr e questo per dire che di cinema buono ce n’è molto

Stai pensando a una seconda regia?

Sì, sto pensando a un altro film. Ci abbiamo messo molto a scegliere la storia perché non eravamo mai soddisfatti. Come nella vita, se non hai niente da dire è meglio stare zitti. Assieme a Daniele Costantini stiamo lavorando su un’idea che ci piace abbastanza e vediamo come procede. Comunque sì, vorrei fare assolutamente una seconda regia.

Nonostante la nebbia dal 21 marzo 2021 è, sulle piattaforme Prime Video, CGDigital, Itunes, Gplay, Rakuten e Chili, distribuito da 102 Distribution

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