FESTIVAL DI CANNES 2011: “Le Gamin au vélo” di Jean-Pierre e Luc Dardenne (In Concorso)
FESTIVAL DI CANNES 2011: “Le Gamin au vélo” di Jean-Pierre e Luc Dardenne. Non potevano di certo mancare. I fratelli Dardenne sono di casa a Cannes e, dopo aver vinto la Palma d’oro nel 2005 con L’enfant, tornano quest’anno con “Le Gamin au vélo” (Il ragazzo con la bicicletta), film selezionato nella sezione Competizione.
Non potevano di certo mancare. I fratelli Dardenne sono di casa a Cannes e, dopo aver vinto la Palma d’oro nel 2005 con L’enfant, tornano quest’anno con Le Gamin au vélo (Il ragazzo con la bicicletta), film selezionato nella sezione Competizione.
Lo stile asciutto, essenziale, minimalista, e, a tratti ruvido, continua a contraddistinguere l’estetica della coppia belga, ma rispetto ai precedenti film, in cui un velo di disperazione si depositava omogeneo sui volti e sulle storie dei personaggi, stavolta un raggio di sole pare riuscire a penetrare.
Il protagonista Cyril (Thomas Doret) è un ragazzino di dieci-undici anni che, all’improvviso, viene abbandonato dal padre (Jérémie Rénier) e si ritrova in una casa d’accoglienza, da cui vuole a tutti i costi fuggire per ritrovare il genitore scomparso. Non riuscendo a prendere neanche in considerazione l’ipotesi di esser stato, da un giorno all’altro, lasciato al suo destino, si ostina in una ricerca forsennata, che, grazie all’aiuto di Samantha, una donna (Cécile De France) che si interessa al suo caso, riesce a giungere a buon fine. Ma è proprio a questo punto che dovrà fare i conti con l’atroce verità: suo padre gli comunica, senza mezzi termini, di non potersi più prendere cura di lui, invitandolo a non cercarlo più, a dimenticarlo.
Cyril è estremamente vitale e reagisce con la forza della disperazione alla crudeltà dell’evento cui è sottoposto. Il dolore causato dall’abbandono è talmente palpabile che, pur non trovando un’espressione verbale nel ragazzo, ridonda nell’animo dello spettatore che, senza eccessivi sforzi di immedesimazione, è trafitto da una parte all’altra del cuore, rimanendo pietrificato.
La bicicletta di Ciryl è l’unico oggetto che gli rimane del padre, ciò che lo fa andare avanti; la sua anima innocente è costretta a temprarsi precocemente, e la forza del suo carattere suscita commozione e ammirazione. Solo l’amore di Samantha potrà sostenerlo in un momento così difficile. L’epilogo, che chiaramente non sveliamo, è in bilico fino all’ultimo.
L’ultimo film dei Dardenne rievoca prepotentemente le atmosfere de I quattrocento colpi (1959): come dimenticare la corsa forsennata di Doinel fino al mare e quell’ultima inquadratura che dal campo lungo si stringeva in un primissimo piano, facendo inumidire gli occhi anche ai più disincantati? Certo, come al solito, da più parti si leveranno critiche sulla ripetitività dello stile della coppia registica; osservazioni, queste, di certo legittime, ma che ancora cadono nel vuoto, considerando che la geometria e l’austerità dell’estetica dei Dardenne non solo tengono, ma sanno ancora sorprendere. No, scommettiamo che non faranno la fine di Kean Loach.
Luca Biscontini
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