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Conversation

Il cinema è donna. Conversazione con Susanna Nicchiarelli

Il cinema della Nicchiarelli attraversa la Storia per raccontare l’emancipazione femminile tra determinazione e fragilità.

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Da Cosmonauta a La scoperta dell’alba, da Nico 1988 a Miss Marx. Il cinema di Susanna Nicchiarelli attraversa la Storia per raccontare l’emancipazione femminile, tra determinazione e fragilità. Dal Palladium Film Festival ai lettori di Taxidrivers.it in attesa del suo prossimo film in Anteprima mondiale a Venezia “Chiara”.

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Non era mai successo che l’Academy nominasse due autrici nella cinquina dei migliori registi, come pure che le donne ricevessero un numero così alto di nomination. Te lo dico perché il tuo cinema in tempi non sospetti si è fatto promotore delle rivendicazioni che oggi sono sempre di più all’ordine del giorno.

Sono contenta. Più visibilità hanno le donne registe e più secondo me le ragazze giovani avranno voglia di fare questo mestiere, evitando di pensare che si tratti di una questione per soli uomini.

La prima scena del tuo cinema è il racconto di una ribellione. Cosmonauta  si apre con la protagonista che fugge dall’altare. Il suo abito bianco è quello della prima comunione ma, se non fosse per il fatto che Luciana è una bambina, il suo potrebbe anche essere un vestito  da sposa. Peraltro, si tratta di una scena indicativa rispetto ai tuoi film successivi.

Non  l’avevo mai vista così, ma hai ragione. Peraltro sono molto affezionata a quella scena e anche a quella dopo che si svolge  in bagno, quando la bambina giustifica alla madre il suo comportamento con il fatto di essere comunista.

Quella prima sequenza contiene un concetto che avresti sviluppato nei lungometraggi successivi, nei quali uno dei temi cardine è la messa in discussione di qualsiasi istituzione che, alla pari del matrimonio,  sancisce nei confronti della donna una condizione di irreversibilità.

Sicuramente è un elemento molto presente nel mio cinema. Mi riferisco all’idea sbagliata a cui mi sono ribellata sin da adolescente, quella di aspettare il matrimonio come il giorno in cui si realizza tutto. Si tratta di una grande menzogna, perché in realtà era, o forse è, un tempo nel quale tu rinunciavi a tutta una serie di diritti per venire consegnata da tuo padre a un altro uomo. Fino a metà degli anni settanta, prima che cambiasse il diritto di famiglia, quest’ultima era una vera e propria consegna anche dal punto di vista giuridico, volta a togliere alla donna  il potere di autodeterminarsi. Il vestito bianco, che anche io ai tempi della comunione ero felice di indossare, partecipa all’inganno, rimandando a una bellezza e a una purezza  che viene superata nel momento stesso in cui la esibisci.

C’è una scultura di Niki de Saint Phalle che a me piace moltissimo. E’ enorme e raffigura una sposa con un vestito bianco nel quale sono state incollate bamboline e altri orpelli. Da lontano il vestito sembra bello; in realtà avvicinandosi ci si rende conto della sua mostruosità. E’ un oggetto pesantissimo anche per la simbologia che si porta appresso. Te ne sto parlando perché in qualche modo a me è sempre piaciuta l’idea di lavorare contro questa simbologia. A cominciare da quando a una certa età ho deciso che non mi sarei mai sposata in bianco e che non avrei seguito quella strada: non solo per motivi religiosi, perché appunto non mi ritengo cattolica, ma anche per motivi simbolici. Per molto tempo pensavo di non sposarmi proprio. In realtà, tra le altre cose, a influenzarmi è stato il fatto che appena uscita dal Centro Sperimentale di Cinematografia, per sostenermi, ho girato moltissimi filmini di matrimonio. Questo mi ha abituato a vedere le cose con un occhio cinico e disincantato, perché mi rendevo conto della tensione di queste ragazze che si rilassavano solo nel momento in cui incontravano la macchina da presa. Ogni loro mossa o comportamento erano fatti in funzione del ricordo da lasciare ai posteri. Contava solo farsi riprendere allegre e  felici per creare una bella immagine di quel momento.

Le fotografie e i sorrisi spesso forzati mi dicevano quanto la messinscena fosse più importante della realtà. La qualcosa mi aveva talmente angosciato da farmi dire che non mi sarei mai sposata. In realtà non ho mantenuto la promessa e il mio matrimonio è coinciso con la realizzazione di Per tutta la vita che ho fatto anche per quel motivo.

A proposito della simbologia relativa al vestito bianco, vorrei che mi raccontassi il cambio d’abito relativo al suicidio di Eleanor Marx?

Eleanor  si suicidò con indosso un abito bianco, per cui con il costumista  – che poi è Massimo Cantini Parrini, appena nominato all’Oscar (Pinocchio, ndr) –, abbiamo deciso di non farle indossare un vestito simile per evitare paragoni  con l’abito da sposa. Per lei era solo il vestito più bello e non un modo per alludere al matrimonio. Dunque, gliene abbiamo fatto indossare uno colorato che noi stessi abbiamo creato.

Il tuo cinema ha sviluppato e approfondito tale discorso, dimostrando che questa, come altre istituzioni, frutto di una società patriarcale, sia stata per le donne solo una parte del problema. A gravare su di loro è anche la loro natura sentimentale, come dimostrano le vicissitudini di cui soffrono le tue protagoniste. Nei tuoi film infatti c’è sempre uno scarto tra la sfera pubblica e quella privata. Si tratta di due mondi destinati a entrare in dialettica.

L’emotività entra in gioco su tutti i piani, anche nel pubblico. Tutte le donne che ho raccontato la manifestano, anche lì in maniera molto forte. Nico nella sua musica, Eleanor Marx nella sua politica, ma anche la Luciana di Cosmonauta fa un gran casino, mescolando la politica all’amore. Dunque non credo che siano necessariamente delle sfere separate, ma che si completino, si contraddicano, si danneggino l’un l’altra. Le mie sono sempre delle donne imperfette. Nico si arrabbia e si mette a strillare sul palco, andandosene perché c’è un chitarrista che non suona abbastanza bene. Come lei, anche le altre non vivono la dimensione pubblica e privata in maniera razionale e controllata. Le due sfere sono destinate a incrociarsi.

Luciana ha le idee chiare, laddove  si tratta di sapere quali sono gli obiettivi e cosa bisogna fare per raggiungerli. Poi, però, all’interno della sezione, quando subentra la parte emotiva e si innamora di un compagno politico, il suo mondo va in crisi.

Certo, però non ho ancora capito se dipenda dall’essere donne. Questo sta a qualcun altro dirlo. Per me sono personaggi molto forti e lontani dai soliti cliché femminili. che si vedono al cinema. Di sicuro il fatto di  lasciare spazio all’emotività, anche nel lavoro, è una nostra prerogativa. Forse gli uomini riescono a separare meglio le due cose. Io però ne conosco tanti che non lo fanno; dunque in realtà pensò sia più una caratteristica umana.

Un altra costante della tua poetica è quella per cui le protagoniste, anche in maniera indiretta, ma comunque decisa, si oppongono alla fragilità e soprattutto ai compromessi del modello femminile materno.

Sì. Però, se ci pensi, Nico è anche una madre che vive in prima persona le difficoltà di questo ruolo. In generale, il problema di fare i conti anche con una maternità sbagliata e imperfetta sono temi ancora tabù. Raccontare madri così fuori dagli schemi ancora lo è. Mi ricordo che, quando cercavamo i finanziamenti per Nico, ci dissero – “certo, però, una madre così” – come se ci fosse qualcosa di disdicevole nel raccontare una maternità complessa come quella di Nico. La verità è che ogni madre per un momento si è sentita così. Ovviamente lei non ne è stata il prototipo esemplare, ma questo non cambia i termini del discorso.

Nei tuoi film le madri sono spesso lo specchio di quello che le figlie non vogliono diventare. In questa ottica il matrimonio diventa sempre il luogo dov’è possibile rintracciare l’esempio da non seguire. Come capita ne La scoperta dell’alba in cui quella che sembra un’ unione felice in realtà non lo è.

Certo, quello è un aspetto molto generazionale, al quale donne come mia madre erano in qualche modo costrette dalle consuetudini sociali. Nel documentario Per tutta la vita la mostro a ventun anni mentre sistema l’argenteria della sua casa  borghese,  consapevole di essere incastrata in un ruolo. A un certo punto dice: “Mi fecero laureare non per intraprendere una professione ma perché era un fiore all’occhiello”. L’aver studiato infatti non le ha impedito di sacrificare la sua autonomia e il suo avvenire lavorativo. Questa secondo me è la cosa che più colpisce di quella generazione, per cui il divorzio è arrivato quando le donne avevano già quarant’anni.

In una sequenza di Miss Marx Eleanor, dopo aver scoperto che il marito ha un’altra moglie, invece di chiedergliene conto, si prende cura di lui mentre la sua voce fuori campo teorizza l’oppressione operata dalla società nei confronti delle donne. Anche questa e’ una scena esemplare, a proposito di una contraddizione femminile sempre presente nelle tue storie. 

Sì, Eleanor si prende cura di lui nonostante tutto e sono d’accordo nel ritenerla una contraddizione. Ho sempre pensato che fosse interessante raccontare, non solo il punto di vista femminile, ma anche il nostro modo di vedere il mondo. Anche quando gli uomini ci fanno del male non smettiamo di vederli fragili e di prenderci cura della loro debolezza. E’ indicativo il fatto che a un certo punto Eleanor dica del marito che è come un bambino.

E come quello senza alcun senso della morale.

Sì!

A conferma di come il tuo sia un cinema militante, ma disposto a esaminare anche le contraddizioni e i sentimenti delle tue eroine.

L’affermazione sul fatto che Edward sia come un bambino e che non abbia alcuna morale sono frasi tratte dalla lettere di Eleanor. Era interessante fare un film su di lei, perché si tratta di un personaggio estremamente complesso, ma anche molto consapevole. Quest’ultimo aspetto per me è molto forte e in quelle lettere si sente la lucidità di chi si rende conto della situazione, accettando comunque di restare accanto all’uomo che ama.

Fin dal tuo primo film la forma assume una funzione determinante. In Cosmonauta per esempio la ricerca di indipendenza di Luciana, la sua volontà di trovare nuovi spazi si esprime nella libertà di movimento della mdp.  la cui ubiquità non conosce ostacoli né restrizioni.

Mi fa piacere  sentire che muovo la telecamera, perché in realtà mi rimproverano sempre il contrario. 

Penso sia vero l’opposto e cioè che nei tuoi film i movimenti della macchina da presa siano necessari e significativi.

Diciamo che non amo muoverla troppo, ma solo quando è necessario. Nico lo dimostra: se pensi al modo in cui ne riprendo i concerti, questi sono tutti caratterizzati da composizioni statiche, tranne quello centrale, non a caso ripreso con una steadicam. La novità di quel movimento mi serviva per far sentire ancora di più il senso di liberazione della protagonista. Funziona così anche in Cosmonauta e negli altri film. Certe volte può accadere in maniera meno consapevole, ma di solito il movimento esprime un moto dell’anima a cui cerco di dare corso. Il bisogno di andare avanti dopo una sosta forzata.

In Cosmonauta la ragazza cerca degli spazi che le vengono preclusi e lo stesso fa  la mdp nei confronti dell’ambiente.

Sì, forse sì. Non ci avevo mai pensato.

Sempre in Cosmonauta, nella scena finale, la cinepresa riprende dall’alto Luciana e il fratello sdraiati sul tetto del palazzo. In quel caso la rivoluzione della mdp rimanda all’assenza di gravità degli astronauti ed è come se ci dicesse che per il momento il cambiamento si può compiere solo in parte, rimanendo per lo più allo stato ideale.

Forse sì, non lo so. In generale le conquiste si fanno un pezzetto alla volta. Io rimango male se mi si dice che le mie sono donne sconfitte. Al contrario, penso che in qualche modo abbiano fatto la loro parte. Nel finale dei miei film c’è sempre  una forma di malinconia che non è un modo per sminuire il senso delle loro battaglie, anzi. Nico per esempio alla fine del film ha comunque vinto la sua lotta con la droga e ha suo figlio a casa con lei. Eleanor Marx si suicida, ma le cose per cui ha combattuto sono importantissime e destinare a rimanere. Di queste donne resta in qualche modo l’energia. Che per attestare il lieto fine ci sia bisogno del gran finale è una cosa che non sopporto. Non mi piace il cinema consolatorio. La vita è dolce amara e le esistenze di queste donne lo dimostrano.

Infatti mi sembra che la tua filmografia sia costruita per ripercorrere, attraverso le diverse fasi della storia, le piccole grandi conquiste che hanno permesso alle donne di arrivare dove sono adesso.

E’ proprio così.

In Miss Marx mi sembra che la dimensione filosofica dei protagonisti e il loro materialismo storico non concedano alcuno scampo, costringendoli a fare i conti con il rigore delle loro scelte. In termini di immagini, tutto questo corrisponde a composizioni statiche, con i personaggi che sembrano quasi bloccati all’interno dell’inquadratura. C’era da parte tua una volontà di questo tipo?

Sì, sai il rapporto con la macchina da presa è un po’ istintivo. Ci sono delle cose che magari pensi di voler fare e con questa idea compili la lista delle inquadrature. Io mi preparo sempre tantissimo con la direttrice della fotografia: arriviamo sul set e lì poi capisci che quel programma non ti serve o non lo vuoi fare. A me questa cosa è successa spesso. Per esempio, quando Nico si droga in bagno per la prima volta,  oppure quando il fratello di Luciana ha la sua crisi epilettica: in entrambi i casi avevo messo in programma l’utilizzo ravvicinato della macchina a mano sia su di lei, mentre si drogava, che sul fratello in preda all’ennesima crisi. Quando sono arrivata lì non ce l’ho fatta a girare in quel modo, a sottolineare quei dettagli. Ho preferito mantenere una distanza, lasciando libero lo spettatore di vedere quello che voleva: non volevo forzare i sentimenti, né creare un senso di identificazione.

Come dicevo, nella sostanziale stabilità della mdp e nel limitato numero di movimenti di macchina presenti in Miss Marx, ho trovato il segno della fine di un mondo; congedatosi con la morte dei padri fondatori del pensiero politico e filosofico, di cui Eleanor sembra essere l’ultima propaggine.

Ma, sai, dietro le scene, c’era anche un discorso estetico e visivo. Ogni volta che facevamo un’inquadratura, questa diventava subito un quadro. Le scenografie e i costumi sono stati ispirati da precisi riferimenti pittorici; dunque, aver costruito il film per quadri è venuto un po’ spontaneo.

L’inizio di Miss Marx mi dà modo di sottolineare un’ altra caratteristica dei tuoi lavori che è data dalla combinazione tra sonoro e visivo. In questo senso, l’inizio del film è significativo perché nel buio dello schermo che accompagna i titoli di testa a risaltare è una canzone punk rock. Il fatto che, a commentare una vicenda collocata nel diciannovesimo secolo, sia una musica contemporanea, ci dice almeno due cose: che quella di Miss Marx è una storia che parla al nostro tempo e che la sua protagonista è una donna  avanti rispetto alla propria epoca. Come la musica rispetto alle vicende del film.

Sì, credo che quella dei Downtown Boys, sia una punk band di ragazzi americani molto giovani e battaglieri. Vittoria Ruiz, la cantante, ha una voce e un’energia incredibile che a me piace molto. Da una parte il film inizia con le due voci differenziate una dall’altra, ma per me finisce con quella di Vittoria che diventa la voce di Eleanor nella scena in cui questa si scatena in un ballo liberatorio. Mi sembrava fosse il modo giusto per testimoniare l’universalità delle sue battaglie.

Verso la fine del film, uno dei personaggi dice di  Eleanor che lei è sempre avanti. E’ dunque coerente che Miss Marx si apra con una musica in anticipo rispetto al suo  tempo.

È Il suo motto. È lei bambina a dirlo: “il mio motto preferito è sempre avanti”, che poi in inglese è go ahead.

Per Nico 1988 hai scelto di usare il formato 4:3. La cantante è un icona; dunque, il 4:3 trova coerenza nel fatto di riprodurla in una forma simile ai dipinti della tradizione ortodossa. Un altro motivo per me  si collega a quello che accade nel film e cioè al fatto che tutti le chiedono del passato con i Velvet Undergound, mentre lei vuole parlare di sé al presente. Il formato ristretto rispetto al normale serve a non far distrarre il pubblico dalla sua persona. Con il 4:3 davanti a noi c’è solo lei e poco altro. C’è solo il presente di Nico e cioè lei stessa.

La tua deduzione è giusta, perché davvero volevo che tutto il film fosse su di lei. Il formato ha una serie di conseguenze: una di queste è che nessuno è più abituato a lavorare così e dunque ad aver più spazio in altezza e meno dai lati. Per girare in campo a due con la direttrice della fotografa siamo diventate matte. Nell’inquadratura sei costretta a tenere una sola persona per volta e questo limite ti costringe a inventare all’interno di quello spazio. Io sentivo che era quello giusto per raccontare la solitudine di Nico. Non parlavamo di un gruppo di persone ma di lei nel corso degli anni .

Al tempo stesso c’è  stato un discorso di epoca, nel senso che per la luce abbiamo subito ragionato sul VHS, perché volevamo quest’immagine analogica tipica degli anni ottanta. Anche la scelta dei colori, della qualità, della grana e del tipo di formato fanno parte dello stesso discorso. Quindi è stata anche una istanza formale a influenzare la scelta.

Per contro, Miss Marx è stato girato in 1:66, che è diverso dall’1:85 a cui siamo abituati. Parliamo del formato di film come Adele H, che rende l’immagine un po’ più antica, meno panoramica. Il bello è che in tale contesto il quadro si sviluppa in altezza e, avendo scelto molte architetture gotiche, ci piaceva l’idea di avere quest’aria sopra e sotto, con l’immagine meno larga ai lati.

In Nico utilizzi la luce in chiave antiretorica. Nei viaggi della protagonista da una parte all’altra dell’Europa, questa non cambia, perché è come se lei si portasse sempre dietro quella vista da bambina nella Berlino appena bombardata.

Beh, non ci ho pensato, però hai ragione, anche se non è voluto, ma sì, in qualche modo sicuramente cercavamo una luce un po’ irreale. Bisognerebbe chiedere alla direttrice della fotografia, Crystel Fournier. Nell’ immagine ci sono i colori e quelle luci un po’ rarefatte, verdine, quei neon tipici degli anni ottanta. In realtà in qualche modo, sì, è vero che alla fine la prima immagine è quella che le rimane impressa da bambina.

Tra l’altro nei tuoi film ci sono cose che tornano sempre: la prima è il mare.

È vero.

La sua presenza da un punto di vista psicanalitico, oltre che una funzione rigeneratrice, può rappresentare la voglia di libertà, ma anche un limite oltre il quale non si può andare

Nei primi due film è quello di Ostia, in Nico, quello di Nettuno. Ti posso dire che in quello che sto scrivendo non c’è.

Un’altra ricorrenza è data dalla musica, presente sia come elemento narrativo che sonoro. Ne La scoperta dell’alba il tuo personaggio è la manager di una band musicale. Nico ne è una celebrazione, mentre in Miss Marx è a una sequenza musicale a cui affidi l’unico momento di ribellione della protagonista. L’idea che mi sono fatto è che sia qualcosa che ti appartiene, prima come persona e poi in qualità di artista.

A me la musica è sempre piaciuta moltissimo e non ho mai scisso le due cose, nel senso che il mio sogno di bambina era di recitare nei musical. Da piccola, il cinema era prima di tutto musica. Amavo Jesus Christ Superstar e in generale i musical anni settanta.

Quando ho fatto Cosmonauta avevo in mente Grease. Per noi tutti era un punto di riferimento. Dal punto di vista biografico ho anche legato moltissimo con  I Gatto Ciliegia,  che ho conosciuto per caso quando hanno fatto le musiche del mio primo film. Oramai con loro vivo un processo creativo che si affianca a quello della sceneggiatura; nel senso che scrivo la sceneggiatura e ragiono con loro sulle musiche nello stesso momento.

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In Miss Marx ho trovato significativa la scena in cui noi crediamo che Eleanor stia sconfessando il comportamento del marito, parlandogli in maniera franca e diretta, per poi scoprire che sta recitando un brano teatrale. Come se solo attraverso la finzione si potesse arrivare alla verità.

Sì, era la messinscena di Casa di Bambola, pièce teatrale che lei adorava, avendola anche tradotta. Ovviamente a emergere è fin da subito il riferimento del testo al rapporto tra Eleanor e il marito. La contraddizione deriva dal non capire se lei sia consapevole della stato di quella relazione oppure se non avesse altro modo per denunciarla che attraverso le parole di Ibsen. In realtà, Eleanor credeva moltissimo nel potere liberatorio dell’arte; aspetto che io condivido tantissimo, perché vedere rappresentata la condizione umana permette di liberarsi.

Intendi quello che accade con la  catarsi?

Sì, ma non nel senso che ci si sfoga e poi si torna a casa tranquilli. Per me il potere dell’arte è quello di costringerti a riflettere, a rivedere la tua vita con occhi diversi. I film e le pièce teatrali servono a darci occhi nuovi, sguardi critici sulla nostra vita, sulla realtà, sulla politica.

Nico mi sembra si possa dire è un po’ un film di cesura nella tua filmografia. Si tratta di un progetto internazionale che ha una caratteristica e cioè quella di apparire come una sorta di adunata del cinema d’autore europeo, per la presenza di volti appartenenti ai film di Cristian Mungiu e Thomas Vinterberg.

Sicuramente sono lavori molto europei, questo sì, anche per come era fatto il set, per le lingue che parlavamo, per le storie che raccontiamo. Non sono però d’accordo quando mi dicono di aver fatto una film non italiano. Nico 1988 e Miss Marx si misurano con l’Europa, consapevoli di farne parte. Io appartengo alla generazione che ha fatto l’Erasmus e che ad un certo punto ha cominciato a vivere insieme ai francesi, ai tedeschi, agli inglesi.

Pur se collocate nel passato, Nico e Miss Marx sono opere con uno spirito molto contemporaneo.

Sì, era un clima molto bello e anche il ragionamento con i coproduttori è  stato molto arricchente. Quelli della Vivo  Film (Marta Donzelli e Gregorio Paonessa, ndr)  sono bravissimi; poi però con loro ti trovi ad avere anche degli interlocutori stranieri. Noi avevamo questi coproduttori belgi, che sono comunque persone attente alla lettura  della sceneggiatura e pronte a riflessioni foriere di spunti che ti fanno uscire un po’ dall’autoreferenzialità, nel senso che ci si abitua fin da subito a scrivere per un pubblico non solo italiano.

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In Nico 1988, il passato che in qualche modo torna a tormentare la cantante è realizzato con improvvisi frame costituiti da materiale d’archivio. Non è l’unica volta che lo fai.

A me piace molto usare il materiale d’archivio come ricordo. Tra i film che lo hanno fatto prima di altri mi era piaciuto tantissimo Buongiorno notte di Marco Bellocchio. In qualche modo è come se i nostri ricordi appartenessero a una memoria collettiva. Le immagini di Nico a cui ti riferisci sono quelle realizzate da Jonas Mekas sui Velvet Underground. Si tratta di sequenze che fanno parte dell’immaginario collettivo, e nel film entrano in campo quasi come mosche tse-tse, fastidiose e disturbanti. Non sono molte, ma per me era importante che ci fossero immagini della vera Nico, in un contesto in cui la mia attrice non le somigliava.

Parliamo del tuo lavoro con con Trine Dyrholm e Romola Garai

Con Trine Dyrholm quello che abbiamo fatto è stato innanzitutto registrare le musiche. Ci abbiamo  impiegato qualche settimana, dopodiché il personaggio l’abbiamo trovato attraverso l’interpretazione delle canzoni nel tentativo di coglierne lo spirito. Cantandole, Trine ha trovato la voce adatta al film. Lei lo ha fatto benissimo, costringendosi, non solo a cantare con toni bassi, ma anche a replicare le stonature di Nico. In questo modo abbiamo anche trovato una sua postura. È stato un lavoro bellissimo.

Con Romola invece abbiamo lavorato di più sull’elemento discorsivo che in Miss Marx è centrale e indispensabile per raccontare il personaggio. Mi ricordo che la prima lettura fu quella del discorso al funerale di Marx ed e li che ho capito di aver trovato la persona giusta. Dietro un’apparente serenità e un forte controllo, Romola lascia trasparire qualcosa di inafferrabile. Lei è una donna così, molto misteriosa e con dei lati oscuri che erano perfetti per il personaggio.

Infine parliamo del cinema che ti piace e di quello che ti ha fin qui ispirato.

Mi piace quello in grado di sorprendermi e di spiazzarmi. Di recente ho apprezzato molto il film di Thomas Vinterberg, Un altro giro. In generale mi piacciono i suoi lavori tanto da prendere Trine che era stata sua protagonista ne La comune. Amo molto il cinema scandinavo e come ti dicevo sono cresciuta con i musical, con il cinema americano degli anni ottanta come  E.T.  Sono film che mi porto sempre dentro. Però poi a una certa età ho scoperto il cinema d’autore, quello dei Truffaut e dei Fellini, e non l’ho più abbandonato. Diciamo che forse quello di Fellini è il cinema che amo di più in assoluto.

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