In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale (21 Marzo) vogliamo ricordare quando Agnès Varda girò il reportage Black Panthers, disponibile su Mubi.
La regista era sempre pronta, con l’inseparabile telecamerina, a dare spazio e voce agli oppressi e agli emarginati. Spesso viaggiando, come appunto fece nel 1968 quando dall’Europa si recò negli Stati Uniti per realizzare questo prezioso documentario. Poi non si dimenticava del lavoro svolto, anzi, anche a distanza di molti anni ne curava la conservazione e la distribuzione attraverso la Ciné-Tamaris fondata col marito Jacques Demy. Black Panthers è stato restaurato nel 2013 a Bologna dal laboratorio L’Immagine Ritrovata, motivo per cui nei titoli di testa Varda ringrazia Martin Scorsese.
Nero è onesto e bello
La prima inquadratura di Black Panthers è per lo slogan “Black is honest and beautiful”. Poi Agnès Varda presenta i protagonisti, cominciando dai bambini e dalle donne. Volti incantevoli ed eloquenti, impegnati nella causa antirazzista e nel tenersi compagnia perché l’unione fa la forza. Sulle note di litanie ben intonate, a suon di fiato e chitarra. Qualcuno batte le mani, qualcun altro balla col pugno alzato. Arrivano gli attivisti a passo di marcia e la voce fuori campo della regista spiega: “Non è un picnic né una festa a Oakland, è un raduno politico organizzato dalle Black Panthers”. E ancora:
“La pantera è stata scelta come emblema perché è un animale nero e magnifico che non attacca, ma si difende ferocemente”.
Proprio per difendere gli afroamericani dalla ghettizzazione e dalle violenze, a partire dal 1966 i fondatori del Black Panther Party decisero di organizzare iniziative di colazione gratuita per bambini, di pattuglia armata difensiva, di istruzione e di assistenza sanitaria.
Il raduno
Il reportage è stato realizzato a Oakland in una domenica estiva del 1968, qualche mese dopo l’assassinio di Martin Luther King. L’occhio e la sensibilità di Agnès Varda testimoniano la resistenza degli afroamericani, sorelle e fratelli uniti contro le ingiustizie. Vengono riprese le immagini di intere famiglie convenute al raduno con lo scopo principale di indurre le autorità a liberare dal carcere Huey Newton. Infatti il leader del Black Panther Party era rimasto coinvolto in una sanguinosa sparatoria, operato in ospedale e condotto in prigione. A questo punto la regista intervista in carcere un attivista nero che racconta le condizioni della propria detenzione: senza possibilità di uscire dalla cella e privato perfino della lettura, considera sè stesso un prigioniero di guerra.
Fiera dentro
Tra le voci più interessanti del documentario c’è quella dell’attivista Kathleen Neal Cleaver, segretaria della comunicazione del Black Panther Party presso quello che l’intera comunità chiama ministero dell’informazione. Occuparsi dei volantini, della comunicazione con la stampa e della creazione di biblioteche sono alcuni dei suoi compiti. Porta i capelli al naturale perché fa notare che le persone di colore si rendono finalmente conto di essere belle come sono nate, senza dover tirare e lisciare la capigliatura. Le fa eco l’intervista ad un’altra giovane donna che conferma: “Pettinarmi al naturale è come mostrare quella che sono dentro. Mi rende più fiera dentro”.
Black Panther é un film da vedere