FAR EAST FILM FESTIVAL 13: “Villain” di Lee Sang-il
FAR EAST FILM FESTIVAL 13: “Villain” di Lee Sang-il. Lee Sang-il si ispira al romanzo di Yoshida Shuichi per narrare la storia di Yuichi (Tsumabuki Satoshi), un ragazzo solitario e introverso che vive con i nonni, accusato di omicidio. Il film ha avuto molti riconoscimenti, tra cui i premi della Japan Academy al Miglior Attore (Tsumabuki Satoshi), alla Migliore Attrice (Fukatsu Eri), al Miglior Attore Non Protagonista (Emoto Akira) e alla Migliore Attrice Non Protagonista (Kiki Kirin). A cura di Francesca Vantaggiato
Lee Sang-il si ispira al romanzo di Yoshida Shuichi per narrare la storia di Yuichi (Tsumabuki Satoshi), un ragazzo solitario e introverso che vive con i nonni, accusato di omicidio. Il film ha avuto molti riconoscimenti, tra cui i premi della Japan Academy al Miglior Attore (Tsumabuki Satoshi), alla Migliore Attrice (Fukatsu Eri), al Miglior Attore Non Protagonista (Emoto Akira) e alla Migliore Attrice Non Protagonista (Kiki Kirin).
Yuichi è un lavoratore cresciuto senza genitori, è un ragazzo molto solo che usa i siti di appuntamenti per conoscere le ragazze. Così incontra la vivace Yoshino (Mitsushima Hikari), che presto si stanca di lui e civetta davanti ai suoi occhi con un ricco e arrogante studente. Yuichi perde la testa e li insegue. Il giorno dopo la polizia ritrova il cadavere di Yoshino. Nel giro di pochi giorni Yuichi esce con Mitsuyo (Fukatsu Eri), commessa in un negozio d’abbigliamento conosciuta online. Quando la polizia si mette sulle tracce di Yuichi, tra i due è già nato un tenero legame che li spingerà a fuggire insieme.
Lee Sang-il concentra la sua attenzione sui personaggi, li anima di una psicologia complessa e sfaccettata da cui scaturiscono azioni e reazioni compiute con credibilità. Il dramma in cui essi si muovono è nero perché insiste sulle ferite riportate, ma pecca spesso di intensità. Al centro del plot il regista colloca la conflittualità di Yuichi, capace di slanci affettuosi e spaventose decisioni, optando per un finale non risolto e lasciando pertanto allo spettatore un margine discreto d’interpretazione.
Yuichi è un personaggio dark, il suo è un passato tormentato e segnato dall’abbandono della madre. Il luogo del misfatto è collocato ai piedi di un faro, elemento evocativo e ricorrente nella vita del ragazzo. Il faro, guida indispensabile per i navigatori perché indice di approdo alla terraferma, è per Yuichi un punto di riferimento, una luce da seguire quando si è persa la via. Non a caso, il faro è l’argomento di conversazione con la sensibile Mitsuyo, nonché porto di salvezza durante la fuga. Yuichi è una figura indispensabile per i suoi nonni che lo amano come fosse un figlio. Eppure, il ragazzo soffre di una solitudine sconfinata che lo imprigiona in una condizione esistenziale da outsider. Con il suo affetto sincero e incondizionato, Mitsuyo guarda oltre le apparenze brusche e mostruose di Yuichi, ne coglie la bontà ed è per questo intenzionata a romperne l’isolamento. Anche Mitsuyo, pur non avendo patito lo stesso passato di Yuichi, è una persona profondamente sola, una presenza tragica che si lega disperatamente a un uomo destinato a soffrire ancora. In qualche modo Lee Sang-li cerca di indagare anche il dolore famigliare, lavorando sulla necessità di riscatto provata dal padre di Yoshino, oltraggiata dalla superficialità di chi l’ha abbandonata sul ciglio della strada, sulla preoccupazione e la vergogna dei parenti di Mitsuyo per la scelta sconsiderata di seguire un fuggiasco, sulla sofferenza di una nonna distrutta da un nipote a cui pensava di non aver mai fatto mancare nulla.
In questo dramma plumbeo, desolato e adolescenziale (sia per il target sia, a volte, per l’ingenuità dello sguardo) Lee Sang-il sfiora la problematicità di un ambiente sociale spersonalizzante, fragile e discriminante da cui i personaggi scappano per trovare salvezza nell’instabile mondo virtuale, dove si cerca invano il contatto umano perduto.
Il lavoro attoriale è apprezzabile anche quando le scelte dei personaggi sono estremizzate, tuttavia il film nipponico ha una maniera narrativa algida e non sempre matura che colpisce lo spettatore senz a mai coinvolgerlo completamente.