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Conversation

Il cinema intimista di Saverio Costanzo. Conversazione con il Regista.

Tutto il cinema di Saverio Costanzo: da Private a L'amica Geniale. Conversazione con uno dei registi più importanti del cinema italiano contemporaneo.

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Il premio alla carriera e la retrospettiva dedicata alla filmografia di Saverio Costanzo organizzata dal Palladium Film Festival (9-14 Marzo 2021) ci hanno dato occasione per incontrare uno dei registi più importanti del cinema italiano e internazionale, autore di opere intimiste come Private, In memoria di me, Hungry Hearts e allo stesso tempo artefice di trasposizioni di best sellers come La solitudine dei numeri primi e soprattutto de L’Amica geniale, ispirato ai libri di Elena Ferrante. Una progettualità eterogenea caratterizzata sempre dal medesimo rigore. Di tutto questo si parla nella conversazione con Saverio Costanzo.

 

Nella cornice virtuale del Palladium, Teatro Palladium, PFF – CineMaOltre, festival che affronta il tema delle chiusure, da quelle delle prigioni, a quelle psicologiche, da quelle familiari alle chiusure sanitarie dovute alla pandemia, la tua presenza non è casuale perché in un modo o nell’altro tutti i tuoi personaggi subiscono un trauma che li relega all’interno di una prigione materiale e psicologica.

La cosa assurda è che questo è un po’ frutto del caso, nel senso che io non ho mai fatto dei ragionamenti così profondi sulle mie scelte. Piuttosto mi capitava di appassionarmi a un libro, a una storia o a dei personaggi e andavo avanti nella scrittura. È anche vero che spesso il luogo in cui ti senti più a tuo agio sono storie che cominciano a somigliarsi una con l’altra e questo è un processo che capita a tutti i registi; agli artisti, in generale. Oggi che ho un po’ di film alle spalle mi guardo indietro e anch’io mi faccio questa domanda. Vi rispondo con il fatto che alla pari di tutti gli esseri umani sento io stesso di essere imprigionato. Il percorso di libertà, innanzitutto da me stesso, è inevitabilmente unito anche ai miei film e alle cose che faccio. Nel senso che poi quando si fa un film si decide di convivere con dei personaggi per un tempo lunghissimo – il cinema ha questo di bello -, e allora a mio parere bisogna trovare dentro di se una motivazione profonda per rendere sensato il tempo che uno passa insieme ai suoi personaggi.

Il tuo primo film, Private, legittima la tua presenza a questo festival perché sembra essere  la sintesi di quanto detto in sede di presentazione, con la casa della famiglia palestinese occupata da soldati israeliani e suddivisa in diverse aree, alcune delle quali vietate all’accesso dei vecchi inquilini. Una condizione destinata a diventare simbolo della condizione materiale e psicologica di un’intera comunità.

Però, vedi Carlo, il punto è proprio questo. Noi siamo quello che decidiamo di essere in maniera razionale o siamo le cose che abbiamo fatto e che ci sorprendono a posteriori? Quando parlo di un percorso non chiaro prima di tutto a me, è perché io sono semplicemente andato in Palestina, sono arrivato in questa casa nella striscia di Gaza trovandovi dentro una storia che in qualche modo ricordava quelle dei mie documentari che avevano sempre a che fare con luoghi chiusi e raccolti e con l’idea di confine. Uno di questo lo feci per la mia tesi di laurea ed era una ricerca etnografica su un bar italoamericano di Brooklyn di cui ho ripreso la vita. Il bar si chiamava Caffè Milleluci. Filmando cosa succedeva al suo interno, volevo provare a restituire la vita quotidiana di quella gente. Ero un giovane studente e poter raccogliere il mio oggetto di studio intorno a quattro mura piuttosto che perdermi nella comunità italoamericana mi confortava. Dopodiché ne ho fatto uno su una terapia intensiva dell’Umberto I,  La sala rossa (un altro luogo!). Ricordo che mi trovavo bene nelle situazioni in cui potevo controllare i personaggi e lo spazio dove avvenivano le azioni.

Con Private mi sono sentito a mio agio nel provare a fare il salto nella finzione rispetto a un’idea di confine in me molto chiara. Dopodiché nel corso degli anni questo limite è diventato un palcoscenico. Quando dico che noi siamo quello che facciamo più che quello che desideriamo essere, è perché poi nella dimensione del palcoscenico io mi trovo evidentemente più a mio agio e dentro questo c’è sempre il personaggio che prova ad emanciparsi da se stesso nel tentativo di superare un trauma. Per me però nella mancanza di libertà ci si può davvero liberare. Almeno io la vedo così.

Quest’ultima affermazione  riprende quella contenuta nella sceneggiatura del prossimo film di cui volevo chiederti e cioè In memoria di me, opera seconda che in me ha suscitato le stesse sensazioni provate guardando i film di Krzysztof Kieślowski.

Ti ringrazio.

Al centro della storia c’è la crisi spirituale del protagonista che lo porta ad escludersi dal resto del mondo e ad averne quasi paura.

Si, però per esempio quel film racconta perfettamente lo stato in cui ero in quel momento storico. Dopo Private mi sono ritrovato ad avere la patente di regista come succede spesso quando uno fa un primo film che ha un qualche riscontro. Tutti iniziano a vederti in quel modo mentre a ventisei anni io non mi sentivo per niente così. Private era un film davvero di pancia, fatto senza nessuna conoscenza tecnica, senza nessun retro-pensiero. Sai, i primi film hanno questo di bello e cioè svelano moltissimo della tua identità: li fai senza nessuna sovrastruttura e questo ti rende un po’ senza pelle. Dunque, come succede al personaggio In memoria di me è stato il frutto del percorso faticosissimo per riuscire ad accettare quello che mi era capitato. In più, come sempre faccio, cercavo di dare alla storia anche un metodo, qualche cosa di concreto con cui Christo Jivkov (l’attore protagonista del film, ndr) potesse sentire la drammaturgia della materia che volevamo raccontare.

Dopo il primo film mi capitò di fare gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola che poi ho scoperto essere stati presi in considerazione da Stanislavskij per il suo metodo. L’immersione nel silenzio e le meditazioni risultano un esercizio per la mente in cui si arriva a guardarsi dentro. Come regista ho fatto un po’ la stessa cosa, cercando di capire in che punto avrei potuto mettere la MdP per riuscire a guardarmi dentro. Quando l’ho fatto ho pensato che sarebbe stata una bella occasione per degli attori potersi preparare in silenzio.

Con loro ci siamo conosciuti guardandoci, mangiando in silenzio, comunicando con gli occhi e in quel senso si è rivelata un’esperienza molto bella soprattutto per l’incontro con persone che attraversavano un momento dell’esistenza simile al mio. Per molti aspetti In memoria di me è stato un’opera dolorosa. Se vuoi anche un po’ goffa, però in sintonia con lo spaesamento presente dentro di me. Averla fatta mi ha aiutato a cambiare marcia. Ne sono uscito migliore e più consapevole.

Hai parlato dell’incontro con un’entità che potrebbe essere Dio. A un certo punto del film assistiamo a una sorta di incontro ravvicinato del terzo tipo, con questa sagoma scura che ricorda un po’ un umanoide.

Si, paurosa. Per me rappresenta il mistero, la cosa che non si capisce. Sai, i film sono davvero esperienza perché in un certo senso  è come scrivere per immagini il diario della propria mente. Sono convinto di questo perché se ti devo dire perché quell’immagine è arrivata e cosa stavo cercando di dire, ebbene, io non me lo ricordo.

Mi ricordi Pasolini quando gli chiedevano del perché del suo cinema e delle idee che vi erano contenute. Lui rispondeva: “eh le idee, le idee chissà da dove vengono…”. Penso che per certi autori quello che hai appena detto funzioni proprio così. David Lynch addirittura lo teorizza attraverso la pratica della meditazione trascendentale che per lui è fonte primaria di ogni creazione cinematografica.

Certo, Lynch fa la meditazione trascendentale però all’opposto di un grande intellettuale come Alberto Moravia che era l’ateismo per eccellenza, stando tutte le mattine quattro ore al giorno davanti alla scrivania, sforzandosi di farlo anche quando non aveva nessuna idea, a un certo punto riusciva a pescarle dentro di sé. A dimostrazione che se cerchi trovi.

Ne La solitudine dei numeri primi sia Mattia che Alice somatizzano la violenza del mondo all’interno di una costruzione allegorica che per certi versi assomiglia alla selva oscura dantesca. In questo senso il tuo film reinventa il romanzo di Paolo Giordano.

Lo abbiamo reinventato perché quando lessi il romanzo rimasi veramente molto colpito da queste due prime immagini relative al trauma infantile. Hai il bambino che lascia la sorellina e non la ritrova più e la ragazzina che in montagna casca nella neve e rimane zoppa. Lo abbiamo reinventato perché allora come oggi credo che quelle due immagini erano la cosa più forte di tutto il romanzo e che per questo dovevano diventare l’architrave attorno alla quale costruire tutto il resto. Questo comportava una riscrittura che però non doveva essere didascalica ma avere la forma della memoria. Quest’ultima procede per frammenti, dunque si trattava di ricreala mettendone insieme in maniera  coerente i vari pezzi. Non a caso quel film è come se avesse un primo e un secondo tempo. Nel primo c’è questo groviglio della memoria –  sviluppato su tre epoche – i cui nessi sono solo sentimentali e per niente razionali. Per contro il secondo potrebbe essere quasi un epilogo o comunque un episodio a se stante. Senza musica e molto lineare quella parte ha una forma cinematografica più didascalica nel senso classico del termine proprio perché doveva raccontare il presente. Quest’ultimo vive di una credenza, mentre la memoria riesce come i sogni a non avere confini, riuscendo a mischiare tutto.

In realtà La solitudine dei numeri primi voleva proprio essere un film sulla memoria. Questo perché per superare il trauma adolescenziale si deve inevitabilmente procedere nell’analisi dei ricordi di quello che è seguito dopo. Avere alle spalle un bestseller come quello di Paolo è stata un’esperienza un po’ tragica, perché  c’è sempre una grande aspettativa su quello che andrai a fare e in un certo senso questo contraddice il principio per cui uno lavora nel cinema. Mi contraddico perché ho trasposto spesso libri di successo come quelli di Elena Ferrante, ma quella è tv e dunque un’altra cosa. Per me il cinema è quando si entra in una sala non sapendo niente di quello che si sta per vedere. Oggi più che mai succede il contrario e questo per me toglie allo spettatore la meraviglia della nostra arte. Per questo ho voluto anche lavorare contro la memoria del lettore, provando a rendere più imprevedibile la visione. Se non lo avessi fatto avrei negato una caratteristica del cinema che per me è fondamentale.

Infatti il risultato fu spiazzante. Nessuno si aspettava di vedere una simile versione del romanzo.

Succede perché la guardi con una conoscenza della storia che nel buio della sala diventa voyeurismo. Al contrario  la visione cinematografica dovrebbe essere  incantata.

Possiamo dire che da Private in avanti il tuo cinema ha saputo fare sempre di necessità virtù e nello specifico sia riuscito ad adeguare la sua progettualità alla disponibilità dei mezzi senza venire meno ala tua specifica identità? In ognuno dei tuoi film c’è un forte senso di adattamento che fa il paio con una forma sempre diversa dalla precedente. 

Sono uno diverso dall’altro eppure secondo me sono tutti  molto simili.  Tra l’altro questa è una cosa che ancora mi chiedo e cioè come mai la mia libertà, la mia consapevolezza, e la scoperta del sé non riescano ad affermare la mia immagine in un modo univoco. Forse dipende dal fatto che ho sempre bisogno di esplorare tutto quello che una storia mi trasmette.  Ognuna ha la sua forma e sta a me capirla e realizzarla, ma non imporla.

In questo senso da una parte ci sono io, con in testa le immagini, frutto del mio modo di pensare. Dall’altra c’è il  mio modo di rapportami al pensiero altrui e per esempio a quello suggeritomi dalla lettura di un testo. In questo caso la sfida è chiaramente più alta, perché hai davanti un pubblico di riferimento che rischia di non riconoscerti nel risultato dovuto ala fusione di queste due componenti. Però secondo me la sfida di un’artista è proprio quella di non fermarsi all’estetica, alla forma, ma puntare alla sostanza: la mia è uguale in tutti i film.

In un certo senso i miei lungometraggi dicono sempre tutti la stessa cosa; capita così anche quando scrivo. C’è da tenere conto che il cinema è un’arte concreta; non è come la letteratura, la pittura e la fotografia che si possono fare senza mezzi. Io per realizzare alcune idee mi sono dovuto ribellare alle regole imposte dalla macchina del cinema e dunque alla produzione. Per esempio, Hungry Hearts era per me il tentativo – in un’epoca in cui io venivo dalla regia di una serie come In Treatment e da La solitudine dei numeri primi in cui ero entrato dentro una macchina produttiva molto strutturata – di rifare l’opera prima. Come il regista esordiente avevo bisogno di meno mezzi a disposizione e dunque di dovermi occupare delle necessità del momento che poi erano quelle di fare l’operatore di macchina e rispetto al soggetto, alla materia e alla storia, di ritrovare una sincerità senza pelle, senza tecnica. Volevo dimenticarmi quello che avevo imparato. Per farlo avevo bisogno di lavorare un po’ alla garibaldina, in un modo più avventuroso come lo era stato nel caso di Private.

Le mie produzioni dipendono molto dalle mie necessità personali.  La mia libertà si afferma quando lo riesco a fare.

Una domanda che ti avrei fatto a proposito di Hungry Hearts, era in un certo senso relativa a quanto hai detto. Venendo dalla visione dei film precedenti la prima scena, quella con Alba Rohrwacher e Adam Driver chiusi dentro il bagno, ha avuto su di me un effetto straniante perché non mi sembrava frutto della tua direzione.

Se quel film lo avessi fatto in modo più strutturato, il che vuol dire non con un costo di soli 500.000 euro, probabilmente sarebbe stato  più riuscito perché più ragionato. Per trovare più soldi  devi passare attraverso una serie di esami in cui ti metti alla prova per gli altri, cosa che invece volevo proprio evitare. Dunque la sua forma l’ha un po’ decisa la sua natura e la sua natura volevo che fosse questa. A proposito dell’inizio spiazzante, secondo me lo era anche quello dei numeri primi. Anche quello aveva una partenza difficile  per via dell’ironia presente nella forma. In essa cerco sempre una sorta di felicità  intesa anche come luminosità, leggerezza, gratuità.

Io però quell’immagine presente nella prima sequenza di Hungry Hearts non l’avevo mai vista nei film precedenti e parlo sia della composizione che della sua estetica. E’ un’immagine diversa dall’altre.

È vero.

Mi ha colpito: è forte, spiazzante e attira subito lo  sguardo anche a livello estetico. Poi di certo c’è quell’ironia di cui parlavi  perché la riprendi come se fosse una specie di candid camera.

Esatto!

La conoscenza come strumento di mediazione del reale mi sembra che sia uno dei luoghi preferiti del tuo cinema: a partire da Private dove il protagonista è un professore di letteratura che crede nella forza delle idee. Il tema ritorna anche nei numeri primi, in In Treatment e ne L’Amica geniale con la cultura intesa come mezzo di emancipazione. C’era questa idea nei tuoi lavori?

Non ci avevo mai ragionato, però evidentemente c’è un filo rosso che unisce tutto questo. A volte ci si mette una vita per capirlo. Peraltro io dubito di chi lo capisce al primo film. Impiegherò tutta la vita a capire cosa ho fatto, perché mi serve avere alle spalle una certo numero di produzioni per saperlo.

Devo dirti che hai colto nel segno e cioè che è vero perché in Private il protagonista è un professore; ne In memoria di me Davide è un ragazzo colto che si infila in un luogo di cultura, mentre il Mattia de La solitudine dei numeri primi è un genio della matematica. In Hungry Hearts c’è l’orfana senza radici. In In treatment e L’amica geniale lo schema si ripete dunque in effetti hai ragione, c’è sempre una linea. A dimostrazione che noi siamo quello che facciamo: sono convinto di questo e l’unico mezzo per capirlo è il fare. Questo vale anche per tutte le persone non solo per gli artisti.

Proprio perché i tuoi film sono forma e sostanza, mi sembra che una funzione importante sia svolta dalla luce, soprattutto dalla sua mancanza. Spesso i tuoi personaggi sono inghiottiti dal buio o in qualche maniera sembrano emergere da quello. Si tratta di un buio fisico ma soprattutto metafisico.

Sì, certe volte è metafisico, altre è anche ideologico. Secondo me nel corso degli anni questo aspetto l’ho voluto modificare perché il nero, inteso come spesso lo è stato nella mia storia, aveva in certi casi un significato ideologico. Guarda per  esempio i film di David Lynch che in assoluto racconta meglio di tutti l’universo interiore proprio perché rischia di non seguire una linea razionale. Nonostante questo le sue sono opere luminosissime, molto colorate e accese. I miei film sono un po’ tutti dei monologhi interiori perciò c’è sempre questo rapporto del personaggio col suo interno. Lynch però insegna –  e non solo lui, – che la stessa cosa si può raccontare con l’utilizzo della luminosità più che con il nero. In questo senso sento che il mio nero è stato spesso ideologico, legato al fatto di raccontare un fatto oscuro. Al contrario noi possiamo entrare nell’oscurità di  noi stessi anche in condizioni luminosissime. Quella è una cosa che vorrei cercare di migliorare.

Vorrei condividere con te questa idea che ho sul tuo lavoro e cioè che indipendentemente dal tipo di budget a disposizione nei tuoi film c’è sempre una forte carica di sperimentazione. Mi sembra che non vi rinunci mai, anche quando si tratta di fare una serie HBO come L’Amica Geniale. È così?

Assolutamente sì e spero che sarà sempre così. Per me lavorare sul linguaggio non è diverso da quanto fa uno scrittore che lavora sulla parola. Sperimentare la forma per me è una necessità. È vero che io sono un cinefilo, è vero che occupandomene sono anche uno studioso del cinema però per me è elettrizzante soprattutto quando riesci ad adattare un mestiere così bello alle tue necessità. Io lo faccio rispetto alle vicissitudini che ho di fronte ma in quel processo c’è l’intera storia del film dunque le necessità economiche, produttive e di chi ti sta intorno. Detto questo, la sperimentazione per me è fondamentale nel senso che lavorare sulla forma è un’esperienza ricca, da cui traggo molto divertimento. Per esempio, se faccio una serie (L’amica geniale, ndr) per Rai Uno non posso ragionare come se facessi Hungry Hearts o Private perché so a che cosa mi sto riferendo. Questo non vuol dire che compiaccia gli spettatori o neghi la mia natura per andare incontro a quella del pubblico perché se cosi fosse non l’avrei mai fatto.

Sentivo che dentro quella storia potevo sperimentare una forma di racconto diversa: per esempio la voce fuori campo non l’avevo mai usata e invece lì percepivo che poteva aiutarmi a fare un lavoro rigoros,o perché poi in ogni sperimentazione conta il rigore che tu hai nel farla. In quel caso avevo l’intuizione che potevo comunicare a un pubblico molto più ampio, adattandomi a una forma più chiara e comprensibile, senza però negare me stesso. Nel caso della Ferrante sentivo che questa donna aveva scritto una cosa che si adattava perfettamente a quelle che erano le mie necessità e a quelle del pubblico. Però, ripeto, è anche quella una forma di sperimentazione, infatti non somiglia a niente.

Torno su In memoria di me che essendo un film sulla sacralità del silenzio rischiava di essere impossibile da girare invece tu adotti una serie di soluzioni formali che ti permettono di farlo. Penso alla scelta di mostrare il protagonista sempre in movimento all’interno dei corridoi per riflettere l’ansia della ricerca interiore; oppure al fatto di presentare i novizi mente camminano in fila, uno dietro l’altro, riflettendone l’unisono che muove le loro intenzioni. Anche certe inquadrature, per esempio quella in cui vediamo in una prospettiva crescente, dal basso verso l’alto, la linea formata dalle porte delle stanze dei singoli dormitori, a sottolineare ancora una volta il desidero di infinito e la tensione che muove i personaggi.

Ora per me li non so rintracciare le idee perché queste sono veramente inafferrabili. Mentre scrivevo quel film – tieni conto che io ritorno di continuo sulla sceneggiatura anche mentre giro con un processo che non si ferma mai    immaginavo quel posto come l’anima di Andrea; dunque per me era come se si avventurasse nella sua interiorità. Ogni cosa di quel luogo gli apparteneva come se fosse una parte di lui. Credo che questo peregrinare all’interno di se stesso sia storia del film però non saprei dirti quanto di concreto c’è in tutto questo. Quando ho visto quel lunghissimo corridoio ho pensato che fosse qualcosa di incredibile perché noi abbiamo dentro questi spazi giganteschi.

Però, se ti devo dire il rammarico già grande è di non averlo girato in 4:3 perché quel film era proprio verticale nel senso che lui entrava in rapporto con la storia della Chiesa: raccontava di questo piccolo uomo che si confronta con una realtà più grande di lui e l’altezza di quel corridoio era difficile raccontarlo con un formato 1:85 come poi è stato fatto. Realizzarlo in 4:3 avrebbe dato molto più senso ai significati della storia. Tra l’altro questo succedeva quando ancora nessuno usava questo formato. Forse c’era stato solo Elephant e dunque prima che venissimo inondanti da lungometraggi girati così senza alcuna ragione. Se l’avessi girato in 4:3 e addirittura in bianco e nero quel film avrebbe avuto ancora più senso. Però vedi, era un produzione Medusa, di rado interessata a portare avanti un progetto del genere, perciò non me lo hanno concesso. Forse avrei dovuto insistere ma non ero strutturato a sufficienza, essendo solo al mio secondo film. Questo solo per dire che se l0 avessi fatto così oggi sarebbe stato un film che avrei rivisto con più piacere.

Sempre in quel film in fondo al corridoio assistiamo a una progressiva trasfigurazione della vetrata ad arco posta al centro di quello spazio destinata a diventare energia vivente

L’arco cambiava anche di colore a seconda del stato d’animo del protagonista. Infatti se fai caso nel corso del film quella luce finale che è quella di Andrea cambia diventando sempre più rossa, quasi infuocata. All’inizio parte molto fredda e in controllo e poi piano piano si perde .

Lavori spesso con attori stranieri e questo è un primo dato rispetto al tuo rapporto con gli interpreti dei tuoi film. Partendo da questo ti chiedo come lavori con gli attori e cosa chiedi loro perché si tratta di performance pregnanti.

È vero e anche questo è strano. Perché in realtà io lavoro per gli attori. Penso sempre a come fare per aiutarli a dare il massimo e comunque parto da una storia che sia centrata su di loro. Potrei fare tantissimi esempi di film straordinari dove l’attore paradossalmente è meno importante del regista anche se il primo si esprime in tutte le sue possibilità. Io invece nei miei set mi sento l’operaio. Il padrone della baracca per me è l’attore, tutto ruota intorno a lui perché penso che sia questo a veicolare la maggior parte delle emozioni. Ripeto, nei film di Federico Fellini gli interpreti davano i numeri e poi lui li doppiava, cioè non avevano nessuna responsabilità perché c’era dietro lui che, come dire, muoveva le marionette.

Un po’ come succedeva con Stanley Kubrick.

Volendo un po’ alla Kubrick , esatto. Per me invece è diverso. Io sono mosso da loro che mi muovono e mi portano spesso a cambiare il copione perché mi adatto ai limiti oppure assecondo le loro forze.

Faccio un cinema che è proprio rivolto all’attore perciò ne cerco sempre di molto coraggiosi per cominciare insieme un percorso in cui secondo me serve molta audacia.

Tra le tante interpretazioni di cui vorrei che mi parlassi scelgo quella di Christo Jivkov che in In memoria di me interpreta Andrea, il protagonista della storia. Nel piano sequenza iniziale Jivkov si produce in un climax drammaturgico ad alta intensità emotiva frutto di una rarefazione espressiva e di una progressione psicologica  davvero rara a vedersi.

Si. Lui tra l’altro è una persona serissima che io ebbi modo di vedere ne Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi. Per me è stato proprio un compagno di viaggio eccezionale perché in quel momento stare con lui e vivere questa storia mi ha dato grande coraggio. Lui se piangeva lo faceva per davvero, non per finta. Sto parlando di un’autenticità estranea a molti attori che spesso si vendono in maniera molto semplice, ovvero al migliore offerente. D’altronde nel mio lavoro vado alla ricerca di persone provviste di una forza e di una dignità tali da rendere autentico quello che mettono in scena. Christo, in questo senso, e come molti altri con cui ho lavorato, era veramente un esempio.

Per concludere ti faccio la domanda di rito sul cinema che ti piace e che più ti ispira.

Posso dirti che per me Stanley Kubrick è il maestro dell’assoluto, cioè quello che io guardo e di cui mi chiedo sempre come ragionerebbe se fosse al mio posto. Proprio perché è un genio, guardare lui è come rivolgere gli occhi al cielo. È un regista a cui tendo perché è riuscito a riunire tutto quello che mi interessa e che per me è il cinema. Cioè la sperimentazione, la profonda intellettualità, ma anche la sua capacità popolare che per me è un aspetto fondamentale. Poi guardo a John Cassavetes per la libertà, la gratuità, la fluidità, la semplicità,  però nello stesso tempo l’eleganza. E poi perché Cassavetes è il grande regista d’attori.

Poi, guarda c’è ne sono talmente tanti che mi sembra fare torto a quelli che non cito. Posso pero dirti che ogni fase delle vita risponde ad una maggiore o minore attitudine verso un determinato autore. Dunque oggi tra i miei preferiti ci sono David Lynch come analisi dell’interiorità, Roman Polanski come analisi della tensione. Per l’analisi psicologica metto Ingmar Bergman;  come capacitò del sogno Federico Fellini.

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