Conversation
La bambina che non voleva cantare è un viaggio nella nostra memoria. Conversazione con Costanza Quatriglio
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4 anni agoon
In onda mercoledì 10 marzo alle ore 21,25 su Rai 1 La bambina che non voleva cantare di Costanza Quatriglio è un racconto di formazione ispirato alla realtà e in particolare all’infanzia e alla giovinezza di Nada.
Mi sono piaciute molto le immagini che scorrono sui titoli di testa. In pratica si tratta di un mokumentary e cioè di un falso documentario in cui il personaggio di Nada interpretato da Tecla Insolia si mescola con i filmati d’epoca. Scelta che di fatto sintetizza le due nature del tuo cinema, che è stato prima documentario e poi di finzione.
Si tratta di un inizio da cinema d’autore, non usuale per un film destinato a un pubblico generalista come quello di Rai 1. Dello stesso tenore in termini di significato è il piano sequenza che accompagna Nada in una parte del proprio mondo. La vediamo immersa in una cornice di colori iperreali che rimandano all’immaginario pop del festival di Sanremo. Tra l’altro si tratta di una scelta che ti permette di sottolineare lo scarto tra l’artificialità di quel mondo rispetto a ciò che segue, ovvero ai luoghi nati della cantante, immersi nel verde della campagna toscana.
Sì, era un po’ questa l’idea e cioè di fare un viaggio in cui, quando saremmo arrivati a raccontare di lei bambina, ci doveva essere uno stacco fortissimo su cui costruire questa differenza. Abbiamo lavorato affinché tutta la parte iniziale fosse pop. Così facendo, quando le si chiede da dove viene e lei risponde “da un altro mondo” la sua affermazione è attestata da quello che vediamo. Parliamo di una diversità non solo individuale ma collettiva, perché riguarda tutti noi, l’intero paese, il nostro immaginario, il nostro modo di percepire lo spazio, l’ambiente, la campagna, la città. Ecco, un altro mondo, è anche un’altra epoca. È come se lei in qualche modo dicesse: “io vengo dal passato, io vengo da quello che siamo stati tutti noi”.
Dalla cultura contadina
Sì, anche da quella. Però secondo me lei ci dice che in qualche modo assomiglia anche a noi che la guardiamo. Penso che questa storia ci riguardi profondamente perché le canzoni e il percorso familiare ci riguardano. Come pure la vicenda che raccontiamo.
Ho trovato strepitoso lo scarto tra i due mondi per come tu lo rappresenti, attraverso la postura della protagonista. Nella prima sequenza vediamo Nada quindicenne, ingabbiata dal fotografo che le dice come deve muoversi davanti all’obiettivo. Al contrario nella scena seguente, grazie a un salto temporale, abbiamo di fronte la protagonista ancora bambina, libera e felice di correre sui prati che circondano la casa materna. Mi sembra una sintesi perfetta per inquadrare la differenza tra i due mondi e il rapporto tra questi e la futura cantante.
Da quando gli adulti scoprono il suo talento in qualche modo finiscono per reprimere la sua spontaneità attraverso cose da fare, regole da seguire.
Perché a un certo punto lei deve corrispondere a un’immagine che non sappiamo se sia davvero sua e se le restituisca davvero l’anima che è in lei. In realtà, quella di Nada diventa il prodotto di ciò che gli altri vogliono da lei, come se il talento in fondo non fosse che il risultato di un percorso in cui le sue capacità risuonano nei desideri degli adulti: in modo diverso a secondo di chi si considera. La suora interpretata da Paola Minaccioni vede in lei qualcosa di soprannaturale, quasi un’incarnazione di Dio; il maestro di canto, a cui si presta Paolo Calabresi va al di là della bambina vedendo l’ideale della bellezza romantica. In qualche modo è come se l’arrivo di Nada fosse il Kairòs, il momento giusto per ciascuno di loro. La madre più di tutti desidera per la bambina una vita che non sia già stata scritta, come è successo a lei e alle donne che l’hanno preceduta. La mamma proietta in quel corpicino di bambina ogni desiderio di emancipazione. La questione però è chiedersi cosa vuole la bambina. Qualcuno glielo ha chiesto? All’inizio la protagonista è connessa con la natura, poi di fatto vive una sorta di sradicamento.
Ad essere uguale in questa dialettica tra i due universi è il sorriso disarmante e bellissimo di Nada, presente dall’inizio alla fine in un tutte le fasi del racconto.
Questo mi fa molto piacere, perché abbiamo cercato il più possibile di vivere le esperienze. A Tecla Insolia e Giulietta Rebeggiani ho cercato di trasmettere il desiderio di vivere i momenti nelle scene fino in fondo, per cui il sorriso è sempre sincero.
Il film racconta anche il rapporto tra una madre e una figlia. La prima volta che metti in relazione Nada e la mamma lo fai attraverso un uso particolare di immagini e montaggio: due sequenze una dietro l’altra ce le mostrano distese nel letto nella medesima posizione, come a voler sancire di lì in poi la connessione di un legame destinato a influenzare la vita di entrambe. Se La bambina che non voleva cantare è un film collettivo, costruito su tanti personaggi a essere privilegiata è la simbiosi tra Nada e la propria madre.
Più avanti c’è un’altra scena dove questa soglia non esiste più. Madre e figlia sono infatti distese nello stesso letto, più o meno nella stessa posizione di prima.
Quello è il momento in cui il film inizia a prendere un’altra piega, perché è l’attimo in cui la paura della morte della madre viene a deflagrare. Entrando nella stanza, Nada trova il suo corpo e in qualche modo si rapporta con la paura infantile di perdere chi l’ha messa al mondo. A quel punto non può che decidere di cantare perché spetta a lei resuscitare la madre.
Come in Sembra mio figlio, anche in La bambina che non voleva cantare la prole in qualche maniera è chiamata a salvare la propria madre.
Non ci avevo pensato in questi termini, però sì, in modo diverso ognuno porta sulle spalle il peso di una salvazione, che però non è di tipo cristologico, ma pratica. In particolare la bambina, crescendo capirà che non sarà la sua bella voce a guarire la madre. Ed è lì il momento dello scarto, e dunque della crescita. Quando Viviana (Carolina Crescentini, ndr) toccherà veramente l’abisso entrando nell’ospedale psichiatrico, Nada capirà che lei dovrà fare la sua strada, al di là del dolore della madre. In Sembra mio figlio quel limite è dato dall’apparenza e cioè dalla parola sembra che racchiude in sé il grande limite della salvezza. Ho usato apposta il termine salvazione, perché forse la condizione è quella di tutte le donne del mondo, nel senso che forse nessuna si salva davvero.
Ho trovato interessante questa tua riflessione e cioè il fatto che lei ad un certo punto si domanda – chiedendolo anche al maestro Leonildo – come si fa a distinguere il vero amore e quando è che esiste. In quel momento parla dell’amore cercando di comprendere quello che la madre ha per lei, ma anche quello sentimentale, rappresentato dal ragazzo che le fa la corte. Questa considerazione, che è insieme particolare e universale, è un po’ anche il tema del tuo film. Nella domanda che si fa Nada, c’è l’essenza della storia che racconti.
A un certo punto la musica diventa il barometro di questo amore. Dietro la ribellione di Nada al fatto di dover cantare c’è la richiesta di essere amati per quello che si è, al di là del talento.
Esattamente così. Le canzoni risuonano come temperatura emotiva del racconto. Le parole dei testi sono messaggi nella bottiglia indirizzati alla madre. La sensazione che io stessa ho provato è che le parole sono dialoghi muti all’indirizzo della madre. Tant’è vero che ho chiesto a Tecla di girarle in presa diretta. Non film non ci sono playback o cose del genere. Lei vive l’esperienza del set cantando e recitando contemporaneamente. Ecco perché le canzoni sono così intense e le loro interpretazioni cambiano a seconda del momento del racconto. Tecla non si limita a cantarle, ma ci mette dentro le emozioni vissute dal personaggio.
Tornando per un attimo indietro e concludendo l’analisi degli elementi formali, mi è piaciuta la scena in cui Nada e il padre vanno a trovare la madre in ospedale, dove la donna è sottoposta a elettroshock. Si tratta di una sequenza di forte impatto, perché composta in maniera diversa dalle altre. La discesa delle scale che li porta al cospetto della donna sembra sospesa in un tempo infinito. Altrettanto forte è la rivoluzione della mdp rispetto ai protagonisti che si trovano immersi in un mondo sconosciuto. La luce bianca che a un certo punto li avvolge rende evidente la compresenza dell’aspetto metafisico.
In realtà La bambina che non voleva cantare mi sembra anche un omaggio alle molte voci della musica italiana. È una sorta di jukebox italiano con le canzoni che fanno da commento agli avvenimenti. Vedendo il film e ascoltandone le musiche si rimane colpiti dalla bellezza di queste melodie. La bambina che non voleva cantare è anche un modo per riscoprirle.
Il merito del tuo film è quello di farcele riapprezzare. La bambina che non voleva cantare regala alle canzoni un palcoscenico che permette alle musiche di risuonare dentro di noi nel pieno della loro armonia. Secondo me questo è una delle grandi qualità del tuo lavoro.
Questo mi fa molto piacere, perché ho cercato di prestare massima attenzione alle canzoni nella volontà di non renderle un espediente per attirare l’attenzione nella maniera più veloce. Al contrario, ho cercato il più possibile di sentire le canzoni con le orecchie, con tutti i sensi. Così, anche quando non vediamo Nadia fisicamente, siamo connessi con i testi della canzone. La mia speranza è quella di aver trasmesso la mia attenzione a chi guarda.
Mi sembra che tu abbia usato i personaggi di Paolo Calabresi e Paola Minaccioni in maniera davvero efficace costituendo una sorta di contraltare drammaturgico al tormentato rapporto tra Nada e la madre.
L’esordio di Tecla è secondo me clamoroso, non solo per la partecipazione emotiva di cui parlavi e per l’interpretazione della canzoni, ma anche per come riesce a evocare il suo personaggio, a rifarne, ricordarne i modi.
Tanto che in ogni passaggio del film lei vive i sentimenti del personaggio in prima persona, senza mediazione. Mi sembra il massimo per un’attrice.
Assolutamente sì, infatti il lavoro dell’attore e dell’attrice cambia a seconda di quanto anche chi interpreta riesce a sentire il mondo intorno a sé. Tecla è una persona molto ricettiva nei confronti dei sentimenti propri e altrui, si interroga molto e questo interrogarsi produce materia su cui lavorare. Il nostro è stato un lavoro sulle emozioni costruito passo dopo passo; non in maniera cervellotica, ma, al contrario, vivendo le esperienze.
La bambina che non voleva cantare è una produzione Picomedia in collaborazione con Rai Fiction. prodotto da Roberto Sessa e ispirato al libro Il mio cuore umano di Nada Malanima