In onda mercoledì 10 marzo alle ore 21,25 su Rai 1 La bambina che non voleva cantare di Costanza Quatriglio è un racconto di formazione ispirato alla realtà e in particolare all’infanzia e alla giovinezza di Nada.
Mi sono piaciute molto le immagini che scorrono sui titoli di testa. In pratica si tratta di un mokumentary e cioè di un falso documentario in cui il personaggio di Nada interpretato da Tecla Insolia si mescola con i filmati d’epoca. Scelta che di fatto sintetizza le due nature del tuo cinema, che è stato prima documentario e poi di finzione.
Inserire il girato di Tecla all’interno delle immagini di repertorio è un’idea venuta in fase di montaggio: la scena di cui parli l’avevo girata per aprire il film con lei imbambolata in sala di registrazione, la mente persa nei pensieri fino a quando il richiamo della voce dell’impresario non la riporta alla realtà. Avendo poi deciso di cominciare con il servizio fotografico, ho deciso di inserirla nel prologo, perché non mi sono posta il problema se era finta o vera: con le immagini è così, nel momento in cui non l’ho usata come scena di presentazione di lei, per me era già archivio. Un archivio della memoria che in quanto tale aveva pieno diritto a stare lì dentro.
Si tratta di un inizio da cinema d’autore, non usuale per un film destinato a un pubblico generalista come quello di Rai 1. Dello stesso tenore in termini di significato è il piano sequenza che accompagna Nada in una parte del proprio mondo. La vediamo immersa in una cornice di colori iperreali che rimandano all’immaginario pop del festival di Sanremo. Tra l’altro si tratta di una scelta che ti permette di sottolineare lo scarto tra l’artificialità di quel mondo rispetto a ciò che segue, ovvero ai luoghi nati della cantante, immersi nel verde della campagna toscana.
Sì, era un po’ questa l’idea e cioè di fare un viaggio in cui, quando saremmo arrivati a raccontare di lei bambina, ci doveva essere uno stacco fortissimo su cui costruire questa differenza. Abbiamo lavorato affinché tutta la parte iniziale fosse pop. Così facendo, quando le si chiede da dove viene e lei risponde “da un altro mondo” la sua affermazione è attestata da quello che vediamo. Parliamo di una diversità non solo individuale ma collettiva, perché riguarda tutti noi, l’intero paese, il nostro immaginario, il nostro modo di percepire lo spazio, l’ambiente, la campagna, la città. Ecco, un altro mondo, è anche un’altra epoca. È come se lei in qualche modo dicesse: “io vengo dal passato, io vengo da quello che siamo stati tutti noi”.
Dalla cultura contadina
Sì, anche da quella. Però secondo me lei ci dice che in qualche modo assomiglia anche a noi che la guardiamo. Penso che questa storia ci riguardi profondamente perché le canzoni e il percorso familiare ci riguardano. Come pure la vicenda che raccontiamo.
Ho trovato strepitoso lo scarto tra i due mondi per come tu lo rappresenti, attraverso la postura della protagonista. Nella prima sequenza vediamo Nada quindicenne, ingabbiata dal fotografo che le dice come deve muoversi davanti all’obiettivo. Al contrario nella scena seguente, grazie a un salto temporale, abbiamo di fronte la protagonista ancora bambina, libera e felice di correre sui prati che circondano la casa materna. Mi sembra una sintesi perfetta per inquadrare la differenza tra i due mondi e il rapporto tra questi e la futura cantante.
Sicuramente l’idea è proprio questa, e cioè presentare la piccola Nada come una bambina libera che vive nei campi, inconsapevole che possa esistere questa volontà di imbrigliarla. Nella sua appartenenza al mondo naturale, non riesce a pensare a una cosa del genere. La coincidenza tra natura ed elemento umano all’inizio è molto forte. Lo si vede dai colori dei suoi vestiti che sono gli stessi della natura. Non a caso, quando subentra qualcos’altro che spezza questa unione, anche i colori cambiano. Seppur tormentata dal dolore per la depressione della madre, Nada è pur sempre una bimba; dunque la libertà di quelle corse sono importanti per la sua felicità.
Da quando gli adulti scoprono il suo talento in qualche modo finiscono per reprimere la sua spontaneità attraverso cose da fare, regole da seguire.
Perché a un certo punto lei deve corrispondere a un’immagine che non sappiamo se sia davvero sua e se le restituisca davvero l’anima che è in lei. In realtà, quella di Nada diventa il prodotto di ciò che gli altri vogliono da lei, come se il talento in fondo non fosse che il risultato di un percorso in cui le sue capacità risuonano nei desideri degli adulti: in modo diverso a secondo di chi si considera. La suora interpretata da Paola Minaccioni vede in lei qualcosa di soprannaturale, quasi un’incarnazione di Dio; il maestro di canto, a cui si presta Paolo Calabresi va al di là della bambina vedendo l’ideale della bellezza romantica. In qualche modo è come se l’arrivo di Nada fosse il Kairòs, il momento giusto per ciascuno di loro. La madre più di tutti desidera per la bambina una vita che non sia già stata scritta, come è successo a lei e alle donne che l’hanno preceduta. La mamma proietta in quel corpicino di bambina ogni desiderio di emancipazione. La questione però è chiedersi cosa vuole la bambina. Qualcuno glielo ha chiesto? All’inizio la protagonista è connessa con la natura, poi di fatto vive una sorta di sradicamento.
Ad essere uguale in questa dialettica tra i due universi è il sorriso disarmante e bellissimo di Nada, presente dall’inizio alla fine in un tutte le fasi del racconto.
Questo mi fa molto piacere, perché abbiamo cercato il più possibile di vivere le esperienze. A Tecla Insolia e Giulietta Rebeggiani ho cercato di trasmettere il desiderio di vivere i momenti nelle scene fino in fondo, per cui il sorriso è sempre sincero.
Il film racconta anche il rapporto tra una madre e una figlia. La prima volta che metti in relazione Nada e la mamma lo fai attraverso un uso particolare di immagini e montaggio: due sequenze una dietro l’altra ce le mostrano distese nel letto nella medesima posizione, come a voler sancire di lì in poi la connessione di un legame destinato a influenzare la vita di entrambe. Se La bambina che non voleva cantare è un film collettivo, costruito su tanti personaggi a essere privilegiata è la simbiosi tra Nada e la propria madre.
Quel momento lì è uno stacco a lungo ponderato, anche perché li c’è qualcosa di importante. Quell’immagine di Viviana a letto immersa nel bianco delle lenzuola ci permette in qualche modo di superare quella soglia chiusa a cui la bimba non può accedere. Non a caso, poco prima l’abbiamo vista accucciata dietro la porta chiusa, oltre la quale c’è la madre che poi vedremo distesa nel letto. Nella prima parte del film il loro è un rapporto proibito, perché viene mediato da una porta chiusa e da una soglia invalicabile. La soglia è un concetto che secondo me è molto importante nel film, perché riguarda in qualche modo l’irraggiungibile, il desiderio, l’invisibile, le paure di questa bambina rispetto alla possibilità che la madre possa morire. Tanto è vero che quando la piccolina finalmente entrerà in quella stanza, succede che lei si trova al cospetto del corpo della madre, avendo la sensazione di stare di fronte a un corpo senza vita, cioè l’incarnazione della paura infantile più profonda, quella della morte della madre.
Più avanti c’è un’altra scena dove questa soglia non esiste più. Madre e figlia sono infatti distese nello stesso letto, più o meno nella stessa posizione di prima.
Quello è il momento in cui il film inizia a prendere un’altra piega, perché è l’attimo in cui la paura della morte della madre viene a deflagrare. Entrando nella stanza, Nada trova il suo corpo e in qualche modo si rapporta con la paura infantile di perdere chi l’ha messa al mondo. A quel punto non può che decidere di cantare perché spetta a lei resuscitare la madre.
Come in Sembra mio figlio, anche in La bambina che non voleva cantare la prole in qualche maniera è chiamata a salvare la propria madre.
Non ci avevo pensato in questi termini, però sì, in modo diverso ognuno porta sulle spalle il peso di una salvazione, che però non è di tipo cristologico, ma pratica. In particolare la bambina, crescendo capirà che non sarà la sua bella voce a guarire la madre. Ed è lì il momento dello scarto, e dunque della crescita. Quando Viviana (Carolina Crescentini, ndr) toccherà veramente l’abisso entrando nell’ospedale psichiatrico, Nada capirà che lei dovrà fare la sua strada, al di là del dolore della madre. In Sembra mio figlio quel limite è dato dall’apparenza e cioè dalla parola sembra che racchiude in sé il grande limite della salvezza. Ho usato apposta il termine salvazione, perché forse la condizione è quella di tutte le donne del mondo, nel senso che forse nessuna si salva davvero.
Ho trovato interessante questa tua riflessione e cioè il fatto che lei ad un certo punto si domanda – chiedendolo anche al maestro Leonildo – come si fa a distinguere il vero amore e quando è che esiste. In quel momento parla dell’amore cercando di comprendere quello che la madre ha per lei, ma anche quello sentimentale, rappresentato dal ragazzo che le fa la corte. Questa considerazione, che è insieme particolare e universale, è un po’ anche il tema del tuo film. Nella domanda che si fa Nada, c’è l’essenza della storia che racconti.
Sicuramente ho sempre pensato che questo sarebbe stato un film sentimentale e, in quanto tale, che non potesse non parlare soprattutto dell’amore. Il cuore del racconto è la potenza di questo sentimento, perché Nada, pur essendo piccola, ha questo amore gigantesco verso la madre. E’ così anche per Viviana, che però in quel momento è prigioniera di una condizione di disperazione che le impedisce di esprimere ciò che prova. E quando lo fa, le riesce in modo maldestro. In realtà entrambe dovranno fare i conti con questo amore. In particolare Nada sarà chiamata a fare uno scatto in avanti. L’amore è anche il tema fondamentalmente di tutti i personaggi: lo è per il maestro Leonildo che lo identifica con la bellezza, lo è per la suora che lo ritrova nel soprannaturale. Il padre lo pratica con un modo di stare al mondo assolutamente non violento, del tutto al di fuori dai canoni del pater familias, prendendosi cura della propria famiglia. C’è quindi anche il tema della cura che secondo me è interessante.
A un certo punto la musica diventa il barometro di questo amore. Dietro la ribellione di Nada al fatto di dover cantare c’è la richiesta di essere amati per quello che si è, al di là del talento.
Esattamente così. Le canzoni risuonano come temperatura emotiva del racconto. Le parole dei testi sono messaggi nella bottiglia indirizzati alla madre. La sensazione che io stessa ho provato è che le parole sono dialoghi muti all’indirizzo della madre. Tant’è vero che ho chiesto a Tecla di girarle in presa diretta. Non film non ci sono playback o cose del genere. Lei vive l’esperienza del set cantando e recitando contemporaneamente. Ecco perché le canzoni sono così intense e le loro interpretazioni cambiano a seconda del momento del racconto. Tecla non si limita a cantarle, ma ci mette dentro le emozioni vissute dal personaggio.
Tornando per un attimo indietro e concludendo l’analisi degli elementi formali, mi è piaciuta la scena in cui Nada e il padre vanno a trovare la madre in ospedale, dove la donna è sottoposta a elettroshock. Si tratta di una sequenza di forte impatto, perché composta in maniera diversa dalle altre. La discesa delle scale che li porta al cospetto della donna sembra sospesa in un tempo infinito. Altrettanto forte è la rivoluzione della mdp rispetto ai protagonisti che si trovano immersi in un mondo sconosciuto. La luce bianca che a un certo punto li avvolge rende evidente la compresenza dell’aspetto metafisico.
Questa è una scena alla quale tengo moltissimo e che ho tenuto a girare così come risulta nel film. È la sequenza dello spaesamento, quella in cui per la prima volta, padre e figlia si riconoscono l’uno nell’altra. Entrambi sono chiamati ad affrontare uno dei momenti più bui della loro vita e lo fanno nello splendore di un bianco fantasmatico, dove tutto in qualche modo è lo spettro di quello che potrebbe accadere. Per la prima volta Nada è di fronte al vero pericolo, che non è dato dalla sua fantasia di bambina e cioè dalla paura di perdere la madre, ma dalla concretezza della vista delle degenti scalze e deambulanti e dal fatto che senza l’amore familiare anche la madre potrebbe diventare come loro. In questo senso il gesto del padre è davvero rivoluzionario: da uomo mite si prende la responsabilità di dire no all’istituzione, al potere che fa dei corpi una cosa morta e quindi sostanzialmente alla violenza. Siamo al momento di svolta del film, quello dal quale non si ritornerà più indietro. Quando l’ho girato ho cercato il più possibile di restituire questo senso di spaesamento iniziale, che poi piano piano si scioglie . In questo processo di chiarificazione, come dice la parola, il bianco era fondamentale.
In realtà La bambina che non voleva cantare mi sembra anche un omaggio alle molte voci della musica italiana. È una sorta di jukebox italiano con le canzoni che fanno da commento agli avvenimenti. Vedendo il film e ascoltandone le musiche si rimane colpiti dalla bellezza di queste melodie. La bambina che non voleva cantare è anche un modo per riscoprirle.
Mi è stato subito chiaro che sarebbe stato un viaggio nella tradizione della canzone italiana, nel quale avrei cercato di parlare alla memoria di più persone e a più generazioni. Casi facendo il film diventa un percorso nei ricordi di ciascuno di noi. Essendo un viaggio nella memoria della canzone italiana, lo è anche nella nostra. Io questa cosa l’ho sperimentata su di me, perché parlando con Nada mi sono ricordata di me bambina piccolissima a casa di mia zia che cantava Io ti darò di più, io ti darò di più come pure Senza fine. Così ho pensato che se questa cosa aveva risuonato così tanto dentro di me, nonostante non avessi l’abitudine di ascoltare quelle canzoni, lo stesso sarebbe successo anche agli spettatori del film.
Il merito del tuo film è quello di farcele riapprezzare. La bambina che non voleva cantare regala alle canzoni un palcoscenico che permette alle musiche di risuonare dentro di noi nel pieno della loro armonia. Secondo me questo è una delle grandi qualità del tuo lavoro.
Questo mi fa molto piacere, perché ho cercato di prestare massima attenzione alle canzoni nella volontà di non renderle un espediente per attirare l’attenzione nella maniera più veloce. Al contrario, ho cercato il più possibile di sentire le canzoni con le orecchie, con tutti i sensi. Così, anche quando non vediamo Nadia fisicamente, siamo connessi con i testi della canzone. La mia speranza è quella di aver trasmesso la mia attenzione a chi guarda.
Mi sembra che tu abbia usato i personaggi di Paolo Calabresi e Paola Minaccioni in maniera davvero efficace costituendo una sorta di contraltare drammaturgico al tormentato rapporto tra Nada e la madre.
Lavorando con Tecla sul rapporto con questi personaggi a un certo punto, tra le tante cose, le ho detto: “guarda, ognuno di loro è come un animale magico chiamato a dare consigli alla bambina. Sono loro a farti vedere quegli aspetti della vita che ti aiutano a crescere”. Io sono innamorata moltissimo di questi due personaggi: quello della suora perché lei è una che ha un senso pratico pazzesco ed è anche un po’ maldestra, non abituata come noi alle relazione affettive. Allo stesso tempo però è capace di vedere oltre. Il suo identificare la bellezza tra il bello e il buono, la fa diventare un personaggio potentissimo. La sua è una vera e propria chiamata e mi piaceva l’idea di questo essere umano che dà il là alla storia e poi si mette da parte, perché lei non può che essere una mediatrice tra la bellezza della terra, e cioè del corpo di questa bambina che canta con voce prodigiosa e il soprannaturale, quello che sta oltre la terra. Per il personaggio del maestro ho attinto non solo alla fantasia ma anche alla mia memoria di bambina. Mi sono ricordata della zia Maria che cantava le canzoni quando ero piccolissima e di suo fratello che suonava il pianoforte ed era un romanticone. Erano distanti anni luce da me, dal mio immaginario e anche da quello mio dei miei genitori, però erano bellissimi perché innamorati di quello che facevano. L’amore di lui per la musica lo salvava dal suo quotidiano, dalla normale routine del suo lavoro. Suonare il pianoforte era la sua ancora di salvezza. Ecco, questa cosa mi piaceva moltissimo e penso che Leonildo sia romantico allo stesso modo. Per Nada rappresenta quell’educazione sentimentale che la madre non riesce a insegnarle.
L’esordio di Tecla è secondo me clamoroso, non solo per la partecipazione emotiva di cui parlavi e per l’interpretazione della canzoni, ma anche per come riesce a evocare il suo personaggio, a rifarne, ricordarne i modi.
Io penso che Tecla sia una creatura preziosa e quindi come tale va anche tutelata rispetto al fatto che ha solo diciassette anni e rappresenta un talento reale tutto da scoprire. Io e la casting Chiara Polizzi, quando l’abbiamo incontrata, non abbiamo avuto dubbi perché, come dicevo prima, lei ha anche una capacità di relazione col reale, e quindi con i sentimenti, molto forte. La sua permeabilità e la sua sensibilità sono accompagnate da una sorta di imprudenza, nella quale mi identifico completamente, perché pure io sono imprudente con la realtà. E’ uno scambio perenne molto vivo, mai passivo, che mi fa vivere appieno le cose, le esperienze e le sensazioni. Allo stesso modo di Tecla. Insieme abbiamo lavorato su questo, sulle sensazioni.
Tanto che in ogni passaggio del film lei vive i sentimenti del personaggio in prima persona, senza mediazione. Mi sembra il massimo per un’attrice.
Assolutamente sì, infatti il lavoro dell’attore e dell’attrice cambia a seconda di quanto anche chi interpreta riesce a sentire il mondo intorno a sé. Tecla è una persona molto ricettiva nei confronti dei sentimenti propri e altrui, si interroga molto e questo interrogarsi produce materia su cui lavorare. Il nostro è stato un lavoro sulle emozioni costruito passo dopo passo; non in maniera cervellotica, ma, al contrario, vivendo le esperienze.
La bambina che non voleva cantare è una produzione Picomedia in collaborazione con Rai Fiction. prodotto da Roberto Sessa e ispirato al libro Il mio cuore umano di Nada Malanima