La paura è come una coltre pesante e ottusa che copre tutto il resto. Ma se la si combatte cercando in sé stessi, origine e soluzione, allora diventa la scintilla di un processo positivo di cambiamento e crescita. Se poi, la paura la chiamiamo “U’scantu” si entra in una dimensione di verità, di emersione nell’uso magico quasi sacrale del dialetto. “In un piccolo paese della Calabria, Saro è impegnato a superare le proprie paure, attendendo il ritorno di un padre smarrito nel dolore”.
Il corto “U’scantu” (Nardis Production e sostenuto da Calabria Film Commission) di Daniele Suraci è un piccolo gioiello che ha già collezionato numerosi riconoscimenti internazionali, l’ultimo è Miglior Corto Italiano Fabrique du Cinema Awards 2020. “Per l’abile regia e l’equilibrio narrativo con cui il film riesce a trasmettere, senza mai cadere nella retorica, inquietudini, insicurezze e vitalità di un bambino di dieci anni alla ricerca della figura paterna”, questa la motivazione del premio. Suraci è al suo terzo cortometraggio (“Il passo della Lumaca” e “La Terra”) ora, alle prese con la scrittura della sua opera prima. Un film che ambienterà nella sua terra, la Calabria.

Nei tuoi precedenti corti hai già indagato il mondo dell’infanzia e il rapporto generazionale. Sono temi a te cari
Qui, più che l’infanzia indago l’età dell’adolescenza. La difficoltà di crescere, di interpretare ed elaborare i propri sentimenti. Il protagonista Saro (interpretato da Giuseppe Romeo) è un ragazzino che vive una profonda solitudine, non riesce a connettersi affettivamente con il padre rinchiuso nel suo dolore. Nei miei precedenti corti avevo raccontato il mondo visto con gli occhi dei bambini e questo mi ha concesso di esplorare una dimensione magica. Attraverso il gioco sono riuscito a raccontare una realtà complessa e drammatica, è un linguaggio che sento mio.
Affrontare la paura o meglio “U’scantu” è la chiave per diventare adulti
Credo che il tuffo finale del protagonista sia un gesto catartico. È necessario tuffarsi nella vita per poterne godere a pieno. L’uso del dialetto è stato per me necessario. Il calabrese è una lingua dura ma profondamente poetica. Una poesia che ha reso i dialoghi più credibili. Lo spettatore si è immerso totalmente nella realtà di questi quattro ragazzini alle prese con la difficoltà di diventare grandi, in una periferia meridionale densa di contraddizioni.
Dolore, abbandono, rabbia, solitudine. Racconti queste prigioni emozionali senza mai indugiare con immagini dirette. Il tuo è un racconto sommesso che esplode poi, in un finale risolutivo
Questo è il mio modo di raccontare e di vivere le emozioni. Ho cercato di tratteggiare una realtà quasi sussurrata che montasse, scena per scena, di emozionalità fino alla sequenza conclusiva. Magari il gesto finale può apparire semplice, lo spettatore potrebbe anche aspettarselo ma il climax con cui ci si arriva ha un che di liberatorio e catartico.
“L’orizzonte è una cosa che si vede ma non esiste” è una delle battute chiave del tuo corto. È qui, che sembra sintetizzarsi la poetica del tuo racconto
In questo scambio di battute tra i due ragazzini, seduti a guardare il mare, ho concentrato la profonda paura che prova Saro. Il senso di abbandono nei confronti di un padre che non c’è, prigioniero di un amore malato che non gli permette di aver cura del proprio figlio. Per Saro il padre è come l’orizzonte: lo vede, vive con lui ma non esiste affettivamente. Sarà l’amore di Saro a riportarlo alla vita.
Hai girato il tuo corto nella Tonnara di Palmi. Il mare, gli scogli, la natura aspra di questi paesaggi sembra essere un terzo personaggio della storia
Non avrei potuto girare in nessun altro luogo. Questa terra è talmente particolare e così poco raccontata che sento l’urgenza autoriale di ambientare le mie storie in questo contesto. È una periferia che non si conosce, almeno cinematograficamente. Qui non c’è cemento, stradoni e palazzi dormitori ma un “non luogo” in cui ancora la natura aspra e selvaggia è dominante. Sono ambientazioni credibili che mi hanno permesso di raccontare uno strano equilibrio tra la prigionia emozionale, il “brutto” che vivono i personaggi (le rimesse dei pescatori buie e desolate) e la libertà, il “bello” rappresentato dagli spazi infiniti e soleggiati di questa costa. La Calabria è una terra che ancora conserva un’idea del mito, una dimensione ancestrale che sento di dover raccontare.
Lo farai anche nel tuo prossimo lungometraggio?
Lo desidero moltissimo. Sono ancora in fase di scrittura ma ho ambientato la storia nuovamente sulla riva della Tonnara di Palmi. Questa volta indago il mondo dell’adolescenza con uno sguardo al femminile.
Come è stato il rapporto con Fabrizio Ferracane che interpreta il padre di Saro?
E’ stato un incontro formativo. Fabrizio è un grande professionista, generoso sul set. Ha dato al personaggio la giusta struttura fisica ed emozionale. Già alla prova costume era pronto, ho visto il personaggio in carne e ossa molto vicino all’idea che avevo in mente. È stato un momento magico lavorare con lui, sul set ha dato un’impostazione molto professionale. Anche nel rapporto con i bambini è riuscito a trasferirgli il giusto legame, costruendo il rapporto scena per scena.
“L’amore non è una malattia” Saro risveglia il padre da un limbo sentimentale. Amare è la vera salvezza?
L’amore è necessario per superare i propri limiti e cambiare. La comprensione di questo sentimento può trasformarci nel profondo, difatti da malattia diventa strumento per capire, per perdonare, per ritrovarsi e per trovare il coraggio di vivere.