Per ogni attore esiste il ruolo della vita, quello che gli permette di distinguere tra un prima e un dopo. Per Antonio Milo il suo è stato il brigadiere Maione, coprotagonista de Il commissario Ricciardi, trasposizione dell’omonima serie di romanzi di Maurizio de Giovanni.
In ogni percorso artistico, c’è il ruolo della svolta, quello che più di altri permette di restare impressi nel cuore delle persone. Ti chiedo se sei d’accordo con me nel ritenere quello interpretato ne Il commissario Ricciardi il personaggio in grado di segnare un prima e un dopo della tua carriera.
Antonio Milo, Lino Guanciale, Serena Iansiti
Sì, senz’altro, nel senso che il ruolo del brigadiere Maione arriva in un momento di maturazione anche artistica e professionale e si presenta come un personaggio a tutto tondo. È scritto benissimo, e con una serie di registri così diversi uno dall’altro da far risaltare le qualità di chi lo interpreta. Dal dramma si passa al comico e nel frattempo si interrogano sfumature che appartengono al noir e al poliziesco. Poi, in quanto coprotagonista, ho avuto un’esposizione tale da rimanere più impresso di altre volte. Dicevo di come Il commissario Ricciardi sia scritto in maniera esemplare: è da li che viene la possibilità di potermi confrontare con un personaggio empatico. Quindi sì, assolutamente, ci sono ruoli che permettono a un attore di venir fuori e di dimostrare quello che sa fare. Il brigadiere Maione risponde a tali caratteristiche.
Pensi che il suo successo dipenda anche dalla tua empatia per il ruolo o che si tratti di un fenomeno indipendente da te?
Entrambe le cose. Sicuramente l’empatia con il ruolo c’è, nel senso che le affinità elettive esistono, non solo tra persone, ma anche nei confronti dei personaggi. Nel mio caso, è come se fosse stato Maione a scegliermi, perché un po’ di tempo fa su Facebook un fan club di Maurizio de Giovanni (autore dei romanzi dedicati alle avventure de Il commissario Ricciardi, ndr), divertendosi a mettere in piedi il cast relativo a una possibile trasposizione dei libri dedicati al commissario, mi aveva indicato per il ruolo del brigadiere. Considerato che, quando de Giovanni ha scritto i romanzi non mi conosceva, si tratta di un incontro scritto nel fato o nel destino. Questo è come la vedo io.
Il tuo personaggio è parte di un vero e proprio fenomeno letterario, ovvero di un modello già definito e molto conosciuto. Parte del tuo lavoro esisteva già nella pagina scritta.
Quando ho iniziato a leggerlo, dieci anni fa – dunque in tempi non sospetti – il romanzo mi era stato consigliato da un amico per la mia somiglianza a uno dei personaggi. Incuriosito, ho iniziato a leggerlo e mi è piaciuto molto, al di là del personaggio di Maione
Già allora ti sei riconosciuto in lui?
In realtà, sì. Ho letto il libro con l’occhio dell’attore e ho riconosciuto che Maione era un ruolo che mi sarebbe piaciuto fare.
Come sempre capita nelle trasposizioni cinematografiche tratte da libri e fumetti molto popolari, anche il vostro lavoro era destinato a passare sotto la lente di ingrandimento dei fan, pronti a stigmatizzare eventuali discordanze rispetto al modello originale.
Infatti, questa è stata una delle nostre principali preoccupazioni.
Da questo punto di vista per te è meglio o peggio lavorare su un riferimento preesistente ?
Antonio Milo
Secondo me, quando si lavora su una base letteraria, si parte avvantaggiati, perché inevitabilmente con un libro o un personaggio principale come Maione tutto viene sempre curato nei minimi dettagli. Come attore, per questo lavoro ho avuto molti elementi a disposizione, a partire da quella sorta di biografia che per me sono stati i libri di de Giovanni. In altri casi c’è solo la sceneggiatura, che è comunque uno strumento tecnico molto più freddo e a cui spesso e volentieri devi essere tu ad aggiungere ciò che manca.
In questo caso si è partiti da una base letteraria che aveva già un costrutto molto solido. Ovviamente, quest’ultimo va intanto sintetizzato nella sceneggiatura e poi filtrato dall’ esperienza umana, perché poi comunque dalla carta scritta per forza di cose si passa all’essere umano. Una trasformazione in cui l’attore deve dare anche carne, ossa e sangue al personaggio, cercando di far scattare l’empatia già presente nelle pagine dei libri. In un processo del genere l’esperienza personale è fondamentale.
Nella costruzione del personaggio, quanto si tradisce e quanto si imita? E, ancora, in che maniera ti sei regolato rispetto alle informazioni fornite dalle due fonti principali, ovvero i romanzi e la sceneggiatura?
In quella fase per me ci sono sempre dei paletti molto importanti: il primo è il vuoto inespresso che ognuno di noi si porta dentro: per Maione è conseguenza del senso di colpa per la morte del figlio. Tutte le cose che facciamo nell’arco della nostra esistenza nascono per colmare quel vuoto, per riempire quella mancanza. L’altro riferimento è la maschera che offriamo al pubblico quando ci mostriamo: l’opposto dell’inespresso che abbiamo dentro. Dunque lavoro sulla parte interiore e sulla maschera, ove per essa intendo anche il modo di camminare, di parlare, di muovermi. Diciamo che c’è poca imitazione, nel senso che tutte le nozioni presenti nei libri e nella sceneggiatura poi vengono in qualche modo interpretate dall’attore e in questo caso specifico da me.
Come coppia cinematografica il commissario e il brigadiere formano un duo da Buddy movie. Opposti in termini di personalità, i due sono “costretti “ a convivere volendosi bene anche senza dichiararselo in maniera diretta. Sei d’accordo?
Antonio Milo, Serena Iansiti
Assolutamente sì, il rapporto tra Maione e Ricciardi è assolutamente fraterno, anche per un transfer dovuto al fatto che è il commissario a portargli l’ultimo messaggio del figlio morto, quello che gli permette di elaborare il lutto. Questo legame è simile a quello che puoi avere con una generazione lontana dalla tua. Succede come al genitore che non capisce il figlio, ma gli vuole bene lo stesso. Ma poi Maione e Ricciardi sono davvero così distanti e lontani? Lo domando perché drammaturgicamente, per come sono scritti, sembrano più due facce della stessa medaglia, pronte a completarsi a vicenda. Ricciardi è un protagonista un po’ atipico e forse quello che gli manca l’autore lo ha dato a Maione. Da qui il fatto di vederli camminare sempre insieme.
Anche dal punto di vista visivo, siete destinati a completarvi. Uno è longilineo, l’altro massiccio: il primo è chiuso in se stesso e dunque avvolto nel tranche che sembra proteggerne i pensieri, il secondo estroverso e sempre in bella vista, con la divisa che lo contraddistingue in maniera inequivocabile. In mezzo alla gente Ricciardi potrebbe essere chiunque, Maione invece è destinato a non passare inosservato.
Sono lo Yin e lo Yang, per usare una parafrasi filosofica. In realtà Ricciardi vede i defunti e quindi quel suo malessere lo porta ad essere in un interregno tra vivi e i morti, mentre Maione è terreno, è luce. Anche le scelte del direttore della fotografia, peraltro straordinaria, vanno in questa direzione Quando viene inquadrato Ricciardi la luce è diversa da quella di Maione: non è un caso, ma è stato fatto apposta proprio per rendere la differenza di cui si diceva. D’altronde, la vita e la morte alla fine camminano di pari passo; ci abbiamo a che fare ogni giorno, ogni minuto. Vivere e morire è come ispirare ed espirare. Ricciardo e Maione rappresentano l’essenza della vita, opposti che convivono, espressioni diverse della medesima esistenza.
Il brigadiere Maione è per molti versi un personaggio tragico e in quanto tale il suo dolore passa anche attraverso sfumature di ridicolo, che non appartengono tanto a lui, ma alle situazioni e ai personaggi che lo circondano. In tal senso, D’Alatri ti impone una gimcana emotiva in cui spazi di continuo tra dramma e buonumore.
Assolutamente sì. La forza del personaggio è dovuta proprio a questi continui scarti sentimentali. Conosciamo quanto la vita sia contraddittoria, sempre in bilico tra riso e pianto. Proprio perché c’è questo conflitto, forse il personaggio risulta essere così appassionante. Io ho avuto la fortuna di interpretarlo e ora le persone mi riconoscono di più come attore.
Il ridicolo poi è uno dei registri più difficili da rendere.
Assolutamente, perché il rischio che si corre è quello di sfociare nella macchietta e quando succede se ne perde l’efficacia. Nella serie il ridicolo è interpretato all’interno di quell’ironia tipica dei napoletani. Se con essa ti spingi oltre il limite, ne smarrisci subito il senso.
Tu sei perfetto ad amalgamarlo con il tragico, il comico e la commedia e questo evita al tuo personaggio di diventare una caricatura. La tua recitazione passa attraverso una serie di maschere espressive in continua fluttuazione. Mi sembra che tra le tue caratteristiche d’attore ci sia quella di una grande mobilità facciale, che poi è quella capace di renderti credibile in ogni situazione.
Diciamo che questo fa parte del mio percorso di attore, poi entrano in gioco gli anni di studio e le tecniche imparate in trent’anni di lavoro. Poi, a un certo punto, tutta questa roba qui, questa tecnica e questo studio, va in supporto a quello che è una predisposizione che chiamiamo talento e quello è una cosa che viene anche in osmosi, non te ne accorgi. Nel momento in cui tutto questo accade, penso semplicemente a trasmettere le emozioni che ho dentro e quindi mi fa poi piacere ascoltare queste parole, perché vuol dire che il lavoro che faccio e che ho fatto viene ripagato dal fatto che tutto questo arriva alle persone.
L’uomo in divisa come personaggio ha una lunga tradizione sia nel cinema con Vittorio De Sica e Aldo Fabrizi, sia in televisione con Gigi Proietti e Frassica. In qualche maniera hai anche guardato a questi riferimenti?
Sicuramente avranno lavorato in me, nel senso che le cose che vedi, leggi e guardi vengono assimilate sotto pelle. Mi hai parlato di De Sica che è uno dei miei miti e anche un punto d’arrivo; quindi è inevitabile averne assimilato l’esempio. Ammirando quello che è il personaggio di De Sica come attore e regista, è inevitabile che poi tu ne acquisisci gli atteggiamenti o le scelte, le battute e i tempi. Io sono stato cresciuto con i film di Totò e ancora oggi, se durante la colazione facendo zapping, mi accorgo che c’è lui, mi fermo a guardarlo, anche se la scena la conosco a memoria. Come se non l’avessi mai vista e sorrido come fosse la prima volta.
Lo stesso mi capita con i film di De Sica e andando più nel contemporaneo con quelli di Massimo Troisi, che in termini di quella misura di cui si parlava è stato un maestro. La sua capacità di ironizzare, di riuscire a far ridere anche nel pianto, era geniale.
Figure come quelle del brigadiere sono allo stesso tempo rassicuranti e protettive.
Sì, rappresentano l’eroe e questo è il motivo per il quale il poliziesco è un genere evergreen. La sua longevità la deve al fatto di rappresentare il canone dell’eroe, di colui che combatte il male.
Parliamo di figure che propongono una versione dell’autoritas tipica del pater familias, al passo con i tempi tempi e aggiornate a quanto successo dopo il #MeToo. Si tratta di personaggi molto amati perché determinati, ma anche comprensivi, capaci di emozionarsi e di tornare sulle proprie decisioni. Maione si fa portatore di una sensibilità tradizionale, ma comunque molto contemporanea.
Sicuramente Maione non è un padre padrone. Come giustamente dici, ha una sensibilità che lo discosta dal vecchio autoritarismo anche perché in lui c’è la mia impronta, il mio modo di leggerlo. La fortuna che ho avuto è quella di essermi avvicinato al gusto degli altri. Magari un altro attore lo avrebbe visto in altro modo.
Come già in Natale in casa Cupiello di Edoardo De Angelis, anche ne Il commissario Ricciardi ti sei immerso in una Napoli d’altri tempi, stilizzata e favolesca. Come ti ci sei immedesimato?
Hai usato il termine esatto. In entrambi i casi è stato come vivere una favola. Con Edoardo De Angelis il mio approccio, non tanto come attore, ma come uomo, è stato come quello di un bambino al luna park e quindi come se stessi vivendo una favola. All’inizio di ogni ciak, non potevo credere che stavo nella storia di Natale in casa Cupiello. Quella di Eduardo era la commedia delle festività natalizie: la guardavamo mentre mamma faceva gli struffoli. De Angelis è stato bravissimo a creare l’atmosfera, inserendo prima del ciak una musica che ci permetteva di entrare nel mood della scena. Questo creava un alone di energia e aumentava la sensazione di potersi girare intorno e percepire il battito di Eduardo De Filippo.
Parliamo di Alessandro D’Alatri e poi del tuo partner, Lino Guanciale.
Antonio Milo
Ringrazio Alessandro per avermi scelto: lo reputo un grandissimo regista. Era quello più giusto per questa storia. Ha una preparazione personale importante e una sensibilità d’artista necessaria alla direzione di un simile lavoro. Il suo amore per Napoli va di pari passo con la sua conoscenza della città. Questo ha reso la possibilità di vedere Napoli in maniera non oleografica. Raccontarla con uno sguardo diverso gli avrebbe fatto perdere il fascino presente nella versione di D’Alatri. Quella del commissario Ricciardi è una città degli anni 30 mai raccontata, capitale culturale di massimo glamour, che è stata ricostruita curando i minimi dettagli. D’Alatri ha fatto un lavoro pazzesco, andando a cercare attori in ogni singolo sottoscala di teatro e questo si vede dalla qualità delle interpretazioni che appartiene anche ai ruoli più piccoli, semmai ne esistano.
Essendo un regista che ama gli attori, il mio rapporto con lui è stato straordinario. Prima di girare si provava molto: lui parlava spesso con gli interpreti assecondandone i movimenti attraverso camere e luci. Un lavoro simbiotico indispensabile per raggiungere certi risultati.
Lino non lo conoscevo prima di arrivare sul set e la cosa buffa è quella di esserci incontrati prima come personaggi e poi come attori, io vestito da Maione lui da Ricciardi. Solo dopo aver iniziato a lavorare ci siamo presentati.
La simbiosi è scattata perché secondo me siamo due persone per bene e due professionisti veri. È stato tutto semplice fin dall’inizio e con il passare del tempo è nata anche un’amicizia. Lui ha fatto un lavoro pazzesco, perché il ruolo di Ricciardi non è assolutamente facile: ci sono pochi appigli, pochi scarti emotivi. Il suo potrebbe sembrare un personaggio monocorde; invece lui comunque gli ha restituito una sua dimensione e un suo movimento all’interno del dolore che lo attraversa. Ricciardi risulta comunque un personaggio empatico nonostante l’atipicità del carattere.
Parliamo dei tuoi attori di riferimento.
Non andando molto lontano ti potrei dire Al Pacino e Robert De Niro, Gian Maria Volonté. Tra quelli di oggi apprezzo molto Pierfrancesco Favino: trovo straordinaria la sua capacità di mimesi. È uno dei migliori attori e quando c’è un film o una serie con lui, io da spettatore la guardo, perché è sinonimo di garanzia. Non sbaglia un personaggio e rimango sempre esterrefatto dalla sua bravura. Tra l’altro sarebbe uno degli attori con i quali io lavorerei molto volentieri.
Antonio Milo è co-protagonista al fianco di Lino Guanciale della serie Il commissario Ricciardi. La serie diretta da Alessandro D’Alatri e tratta dai romanzi di Maurizio de Giovanni è prodotta da Rai Fiction e Clemart, trasmessa dal 25 gennaio 2021 su Rai 1 e disponibile on demand su Rai Play.
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