Ancora una volta il maestro Almodòvar riprende le corde a lui tanto care del melò avvolgente, mai stucchevole e inverosimile quanto basta. Gli abbracci spezzati sono quelli dolorosamente rimossi dal regista Mateo Blanco (Lluìs Homar) che in un incidente perde la vista e la sua amata.
Cancellato il passato, Mateo si costruisce una nuova identità: Harry Caine, pseudonimo con il quale firma sceneggiature, racconti ed altri lavori letterari. Accanto a lui la fidata direttrice di produzione e il figlio di lei, al quale Mateo racconta il suo passato “epico”: dall’incontro con Lena (una sublime Penélope Cruz), umile segretaria e poi donna del broker Ernesto Martel, alle riprese del suo film “Chicas y Maletas”. Il passato si incastra al presente (“ci sono cosa da cui non si può fuggire” ribadisce un personaggio di Kar Wai) e le passioni almodovariane sono sempre intense e violente e, nel loro essere preda del destino, giustificano tutto, anche un omicidio. Su tutto giganteggia un atto d’amore profondissimo: quello per il cinema. Il cinema dello stesso regista spagnolo, con i suoi riferimenti a Donne sull’orlo di una crisi di nervi e alle sue attrici feticcio come Rossy De Palma.
Il cinema che lo ha formato: Fellini, Lang, il noir e l’ironia sagace di Wilder, le letture di Tonino Guerra e Rossellini. Gli abbracci spezzati sono anche quelli dei due corpi mummificati che turbano la Bergman in Viaggio in Italia, mentre si aggira assieme al marito per le rovine di Pompei. Almodòvar cita non per autocompiacimento ma per amore e per esprimere il cinema come rappresentazione e duplicazione della realtà. Una realtà che è carne tremula mai doma.