Pere Portabella è non solamente il cineasta più radicale della Scuola di Barcellona, ma in assoluto un esempio paradigmatico di fiera autonomia e autentico disprezzo per il cinema commerciale. Il suo itinerario è l’esito singolare di un’intersezione durevole tra avanguardia artistica, pratica cinematografica e attività politica.
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Quello che per molti è il suo film più importante, Vampir – Cuadecuc, non è altro che il making of del Draculadi Jesús Franco. Portabella, attraverso la storia del vampiro, non rinunciando alle atmosfere suggestive e inquietanti del racconto di Bram Stoker, riesce a mescolare, con i parametri dell’arte di avanguardia, il documentario alla fiction, il cinema sperimentale a quello di genere, la critica estetica a quella politica.
Il film è una lettura critica del linguaggio cinematografico attraverso i codici del genere horror e della narrativa (che entra in scena nel finale, quando Christopher Lee, seduto nel suo camerino, legge le quattro righe del romanzo di Stoker dedicate alla scomparsa del vampiro). Scrivono Brossa e Portabella sul film: “Questo lavoro che andate a vedere è stato realizzato approfittando delle riprese di un film spagnolo. La storia scelta è questa – Dracula di Jesús Franco – ma poteva essere un’altra.
Noi autori pensiamo poco alla storia così come i produttori. Il nostro film vuole essere un tentativo di portare allo scoperto il potere di suggestione dello spettacolo cinematografico, che è particolarmente nefasto quando non si prendono in considerazione altre finalità che il lucro e la dispersione. Il fatto di smascherare il tema equivale per noi a denunciare un tipo di cinema che consideriamo artisticamente e umanamente caduco e castrante; e soprattutto a denunziare la società che, cinicamente, fa di questo cinema uno strumento per garantire la sua continuità”. Per comprendere la portata di questo film, è innanzitutto importante collocarlo storicamente.
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Scrive in proposito Marcelo Exposito: “Negli anni ’60 Franco aveva inaugurato una politica di apertura, che prevedeva, tra l’altro, il finanziamento di produzioni cinematografiche tra cui quelle del Nuevo Cine espanol. Il tentativo era quello di legittimare il regime favorendo le relazioni internazionali e, conseguentemente, la modernizzazione economica del paese.
In un primo momento Portabella tentò di accedere ai finanziamenti statali. Nel ’69, quando iniziano le riprese di Cuadecuc, questa situazione però collassa. Se parte della classe dirigente preconizza l’imminente fine di Franco e tenta di favorire una transizione pacifica, intavolando trattative con la sinistra più moderata, la cupola del regime tende invece a irrigidirsi, a trincerarsi. Contemporaneamente si assiste ad un incremento della carica contestatrice dei movimenti operai e studenteschi.
Lo scontro si fa radicale. Le aperture nei confronti della cinematografia si chiudono, oltre che per motivi politici, anche per ragioni economiche: si diffonde la convinzione che sia antieconomico sovvenzionare un cinema d’elite. I finanziamenti a Portabella vengono rifiutati, sebbene per motivi formali: è un film in bianco e nero, girato quasi interamente senza sonoro, manca un copione e la sceneggiatura è di poche righe”. Ancora Exposito, sugli effetti del film alla sua uscita: “Circola in modo clandestino, viene distribuito illegalmente. Nel 1971 viene proiettato a New York.
L’autore non può presenziare, perché gli è negato il passaporto, ma invia una dichiarazione nella quale sottolinea come il film non sia stato girato nonostante il franchismo, bensì come conseguenza del franchismo. E infatti a partire da questo film il cinema di Portabella diventa più conseguente, cessa di tentare ogni qualsivoglia compromesso col regime, si radicalizza: una radicalizzazione parallela a quella che investiva in quegli anni i movimenti operai e studenteschi”.
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Portabella racconta il processo di gestazione del racconto cinematografico, ma riesce anche a raccontare la storia di Dracula (eliminando completamente il colore e scambiando in favore di un tappeto sonoro collidente e irregolare, opera di Carles Santos) lavorando intorno alla decostruzione dell’immaginario visivo del famoso vampiro (che non per caso è anche metafora archetipa del potere, della sua solitudine, della sua aberrazione e del suo fascino), così che lo svelamento della finzione realizza una sospensione critica aggredendo lo stato d’animo contemplativo dello spettatore. I
l film rivela i meccanismi della costruzione del cinema narrativo dominante e finisce così per essere un discorso su un discorso. Sul Village Voice, Jonathan Rosenbaum ha scritto: “Riscoprendo il cinema muto attraverso risorse ampiamente ‘documentarie’, Vampir di Pedro Portabella si è posto immediatamente come il film più originale del festival, e il più sofisticato nel suo audace modernismo. All’inizio, il soggetto del documentario è la realizzazione di una versione commerciale spagnola di Dracula con Christopher Lee (diretto da Jesús Franco), ma ciò che Portabella ricava da questa opportunità è un cosa così personale da trascendere completamente l’aneddotico. Nel suo omaggio al Nosferatu di Murnau e a Vampyr di Dreyer, egli ricrea non solo molte delle loro più belle trame visive, ma anche la dissoluzione e la decadenza che percepiamo quando li vediamo oggi nelle loro stampe sbiadite – il senso che queste immagini esili e ultraterrene sono sull’orlo di evaporare via dallo schermo, come lo stesso Nosferatu.
Muovendosi avanti e indietro dalla storia filmata ai dettagli sparsi durante la produzione (una ventola che soffia confetti sopra un cadavere, un finto pipistrello tirato qua e là da corde, un’attrice truccata mostruosamente che fa una smorfia a qualcuno tra una ripresa e l’altra), Portabella riesce in qualche modo a mantenere fino in fondo la stessa atmosfera strana e misteriosa. Una colonna sonora notevolmente varia risuona contro le sue immagini mute: i cani che abbaiano, gli aerei, le trivelle, le arie d’opera, le melodie Muzak, e i sinistri ronzii elettronici, tutti collocano ingegnosamente nella modernità Dracula, e la percezione che noi abbiamo di lui. Si parla solo brevemente in una sequenza verso la fine – quando Christopher Lee descrive la morte di Dracula e poi legge la scena dal romanzo di Stoker – e l’effetto, come quello di molti altri rumori, serve solo a sottolineare l’incombente silenzio che il mondo di Portabella infonde”.
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Infine, scrive ancora Marcelo Exposito: “[Il film] funziona come una struttura narrativa in cui i diversi livelli sono compresenti in un processo di uniformizzazione, di compenetrazione tra fuori e dentro, tra finzione e costruzione della finzione. L’intento dichiarato è quello di mostrare il meccanismo di incantamento del cinema commerciale, di svelare la costruzione dell’illusione del terrore, ma ciò avviene, in modo peculiare, all’interno dello stesso film di Jesús Franco. Così, ad esempio, nel finale gli attori si sorprendono nella finzione cinematografica, ma il controcampo svela l’oggetto del loro stupore: Christopher Lee (il Dracula di Jesús Franco) che si toglie gli occhi finti e il resto del trucco. Come tutti i film su vampiri termina con la scomparsa di Dracula, ma qui tale scomparsa coincide con la mascheramento della finzione. L’illusione si rompe all’interno della storia di Dracula, all’interno della finzione stessa”.