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Fata Morgana, il (film) manifesto eccentrico e surreale di Vicente Aranda

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Aranda nasce a Barcellona nel 1926. Si trasferisce in Venezuela, dove si occupa dell’installazione di apparecchiature contabili, e nel 1959 ritorna in Spagna, cercando di entrare all’IDHEC e in seguito alla EOC, ma senza successo, respinto, nel secondo caso, perché privo di diploma di scuola superiore. Affronta il primo film, Brillante porvenir (1964), senza alcuna esperienza, collaborando con Roman Gubern in questo tentativo di “realismo fotografico”.

Nel 1966 gira Fata Morgana, opera che storicamente rappresenta l’atto di nascita della Scuola di Barcellona. Muovendo liberamente da un racconto di Gonzalo Suárez (in realtà avrebbero dovuto girare il film insieme, ma a causa delle controversie sorte tra Aranda e Suárez, solo il primo finirà il film figurando come unico regista), Aranda abbandona l’ispirazione realistica del suo primo lavoro lasciando il passo al gusto surrealista e affascinando lo spettatore con una messinscena innovativa, satura di echi godardiani, riferimenti al cartone animato (nelle sequenze imitative delle strisce dei fumetti d’azione), alla fantascienza (in particolare Philip K. Dick e il suo Minority report, cui i rimandi sono frequenti), alla pop art, con un punto di vista di acre umorismo e straniamento formale.

Così García Escudero descrive il film: “Fata Morgana, di Vicente Aranda. Beh… Un altro cinema. Da cinema moderno qual è, m’impressiona il suo amore per l’immagine, l’atto di fede nell’immagine… E nello spettatore. Ad alcuni dei componenti della Giunta non piace. Come dire: non mi piace la pittura astratta o una tal musica. Per questo bisogna lasciar correre”. Quando il film uscì, nessuno si rese conto – neppure lo stesso Aranda, retrospettivamente – quanto esso significasse nei termini di una sostanziale palingenesi. Venne così salutato come un oggetto stravagante, un artefatto di precaria classificazione, un monumento eccentrico al surreale: insomma, una provocazione. José Luis Guarner così ne compendia la trama: “L’eroina di Fata Morgana è una ragazza modello, che vive in una città in apparenza pacifica, ma irrimediabilmente condannata da un’esplosione atomica. Un professore, che teorizza l’assassinio come una delle belle arti, perseguita la ragazza. Un messaggero tenace ma inefficace cerca di salvarla, ma viene bloccato nel finale da una pazza, bella e innamorata, il cui emblema è un pesce-spada metallico e mortale. E allora accade “quello che accadde a Londra”. Il film, per Aranda, “parla dell’angoscia e della paura, che sono congeniti negli spagnoli da molti anni”.

Il racconto surreale e vagamente futurista di Suárez viene contenuto in una luce abbacinante, che satura potentemente i colori e le scenografie pop art della swinging Barcelona: il design disfunzionale ma creativo, l’architettura postmoderna di Bofill, le sculture di Corbero, i vestiti di Andreu, gli utensili e i manufatti surrealisti squisitamente pleonastici quanto conturbanti, in un paesaggio visivo assai elaborato nelle sue architetture formali raffinatamente definite. Al film giova moltissimo la commistione di due temperamenti assai diversi: quello di Suarez esplosivamente fantastico, ispirato da un gusto surreale e dalla logica dell’assurdo; e quello di Aranda, freddo, controllato, dominato da un gusto quasi matematico degli equilibri formali. Del film, “che non può dirsi europeo, che non può dirsi spagnolo, ma specificatamente catalano”, è stato scritto che “appare nel suo complesso significativo sia per questa sua metafisicizzazione del mondo fisico (una sorta di surrealismo ottenuto con mezzi apparentemente realistici), sia per la qualità sensoriale che vi assumono oggetti e personaggi in un’inquietante suggestione di mistero”.

Dal punto di vista dell’impegno o della significazione morale, è totalmente irrecuperabile: criptico e sibillino nel suo ermetismo affabulatorio di segni indistinti e allusioni segrete, volutamente formalista nella sua struttura, beffardo nei suoi raffronti (come accade per la piccola parodia di Antonioni), Fata Morgana è “un’assoluta eccentricità nel contesto del cinema spagnolo dell’epoca, un balocco per snob, una compiacente – e riprovevole – esibizione di arte per l’arte, un’inutile sfida al pubblico”. Se un qualche significato politico possedeva il film, questo non venne in alcun modo percepito dalla censura, che difatti ne consentì la realizzazione secondo la sceneggiatura originale proposta dall’autore, senza modificarne nemmeno la copia campione. Il film è un primo compiuto esempio, fondamentale poi per tutta la Scuola di Barcellona, di opera aperta – nelle intenzioni di quello che tale concetto ha significato per tutti gli anni ’60 -, capace in via ingegnosamente obliqua di fare riferimento alla situazione politica della Spagna e al clima di oppressione generato dal regime.

Aranda dichiarò, una volta, che il film “avrebbe dovuto essere girato a Praga e non a Barcellona”, per dare risalto all’attitudine kafkiana della sua ironia esistenzialmente rovesciata; difatti il film si apre proprio con una frase di Kafka: “La vita è una deviazione, ma non è neanche sicuro che la deviazione esista”. Sulle reazioni al film, José Luis Guarner scrive: “Alla sua uscita Fata Morgana fu giudicato con somma severità, in Spagna e al di fuori; fu accolto favorevolmente alla Semaine de la Critique, una delle sezioni più prestigiose del Festival di Cannes, ed è l’unico film spagnolo a figurare nel mitico saggio/pamphlet di Ado Kyrou Amour, surréalisme ed cinéma. Però, visto oggi, con tutte le sue qualità e tutti i suoi limiti, riluce di uno strano, inconfondibile, manifesto sorriso: nel corso degli anni, il suo regista, un personaggio molto serio e molto timido – continua a esserlo in buona misura – s’è rivelato un pericoloso umorista”. Purtroppo, sul destino di Aranda, le cose sono andate poi diversamente.

 

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