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La Scuola di Barcellona. Un ritratto della nouvelle vague spagnola

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La Scuola di Barcellona fu una singolare congiunzione di elementi culturali propri degli anni ’60, e specificamente, della condizione politicamente frustrata della storia spagnola sotto la dittatura: azione di propaganda estetica; tentativo di frattura cinematografica radicale (ottenuta, non per ultimo, con l’appoggio dell’Amministrazione); insofferenza e contestazione nei confronti del cinema ufficiale (soprattutto del realismo critico di Bardem), compreso quello codificato del che veniva accusato di inconsapevolezza estetica; contaminazione fra i generi e le arti espresse da Barcellona per tutti gli anni ’60, come il barocco modernista catalano, l’architettura, le arti plastiche barcellonesi, la fotografia, la pubblicità, persino la moda.

Il movimento, col nome di Escuela de Barcelona, sorse nell’aprile del 1967 sulle pagine della rivista Fotogramas di Ricardo Muñoz Suay, personaggio molto influente nei circoli intellettuali e cinematografici, che della Scuola coniò il nome e ne fu il massimo difensore, lavorando anche come produttore e occasionale sceneggiatore, ed ebbe vita alquanto breve, all’incirca tra il 1966 e il 1971 (con isolate opere precedenti, come quelle di Josè Maria Nunes, e le successive dell’intero percorso di Pere Portabella). Il movimento fu assai disuguale, per le ampie diversificazioni tra i singoli cineasti, e perfino casuale; inoltre, fu altrettanto distante dalle opere dei cineasti catalani, come Josep Maria Forn e Jaime Camino. Sul carattere eteronomo del gruppo, Muñoz Suay (uno dei promotori della Scuola) scrive: “La Scuola di Barcellona non è mai stata un gruppo compatto dal punto di vista industriale e tecnico (…) è come una carrozza di metropolitana. La gente può salire e scendere (…) sale e scende”. Gli autori della Scuola avevano in animo di dare vita a un movimento che in qualche modo fosse prossimo alla nouvelle vague (peraltro, vivendo a Barcellona – dunque a pochi chilometri da Perpignan, nella Catalogna francese, dove regolarmente Arnau Oliver organizzava proiezioni per i cineclub -, gli autori della scuola conoscevano i movimenti d’avanguardia del cinema europeo): un cinema e una politica degli autori.

Concordi nel rifiuto dell’impegno e del cinema sociale, fecero sì che il radicalismo delle loro scelte artistiche e il carattere violentemente antiborghese dei loro intenti fossero lo strumento per scuotere la palude necrotica del cinema iberico e per destare interesse all’estero come momento di avanguardia del cinema d’autore. I loro film possono essere definiti, come acutamente è stato fatto da Jos Olivier, “documentari negativi su una realtà che non esiste”. Le loro scelte finirono per entrare in contrasto pure con la sinistra cinematografica, che li accusava di narcisismo culturale, e con il cinema propriamente dell’identità catalana, in quanto indignato dal loro internazionalismo culturale e dall’uso preminente del castigliano nei loro film. Formalmente, i riferimenti cinematografici della Scuola furono gli assunti estetici più radicali della nouvelle vague francese e dell’underground americano (in relazione alla destrutturazione del racconto e al montaggio), il rifiuto del naturalismo in favore di una narrazione aperta, la preminenza al mondo dell’immaginario e alla soggettività, la frantumazione organica dei modelli sociologici della realtà, e un’originale contaminazione tra documentario e finzione, o, meglio, una manipolazione al montaggio del materiale documentario che conduceva alla rappresentazione iconica di un progetto di finzione, tentativo assai insolito e del tutto innovativo nel panorama d’allora.

La loro personale ricerca sulle strutture narrative è volta a negare l’impianto descrittivo, la continuità logica e il racconto, evidenziando solamente la pura inventività schermica, l’immaginario feticizzato e posto come fine. Sulle intenzioni della Scuola, Jacinto Esteva ha detto: “Oggi non è possibile parlare liberamente della realtà della Spagna, cerchiamo dunque di descriverne l’immaginario”.

Joaquín Jordá, che fu il grande teorizzatore, così articolò sulla rivista Nuestro Cine gli elementi costitutivi della Scuola di Barcellona:

  1. Autofinanziamento e sistema cooperativo di produzione.
  2. Lavoro in équipe con un intercambio costante di funzioni.
  3. Preoccupazione prevalentemente formale, riferita al campo della struttura dell’immagine e della struttura di narrazione.
  4. Carattere sperimentale e avanguardista.
  5. Soggettività dentro ai limiti permessi dalla censura nel trattamento dei temi.
  6. Personaggi e situazioni estranei al cinema di Madrid.
  7. Utilizzazione, dentro ai limiti sindacali, di attori non professionisti.
  8. Produzione realizzata di nascosto dalla distribuzione, punto quest’ultimo non desiderato ma forzato dalla circostanze e dalla ristrettezza morale dei produttori.
  9. Salvo scarse eccezioni, formazione non accademica né professionale.

Chiaramente, una simile proposta – assai avanzata per i tempi – non poteva essere condannata che a una breve vita; essa, però, realizzava intellettualmente la posizione elitaria del gruppo nei confronti dell’Amministrazione e del cinema madrileno, volto all’indagine del contenuto e non della forma cinematografica, del significato e non del significante. Sostenuti dall’Amministrazione, che favoriva la creazione di una nouvelle vague spagnola, il movimento si diede una struttura produttiva e commerciale; difatti, bene al di là dei proclami entropici del gruppo di cineasti, le loro opere non rappresentavano in alcun modo una minaccia morale o politica per il regime del paese (anche per il loro rifiuto dell’impegno, dunque della dialettica ideologica), così potevano essere diffuse tranquillamente all’estero come opere di promozione culturale all’interno dei festival ufficiali, fornendo peraltro un’immagine della Spagna come di un paese libero, e in patria impiegati per le proiezioni nei cineclub e nella sale d’essai.

Sul coinvolgimento dell’Amministrazione in sede produttiva, Carlos Durán scrive: “Il cinema della Scuola di Barcellona era un cinema che da un lato subiva un’influenza più francese che spagnola e non era nemmeno un cinema della Catalogna quale regione autonoma (…) erano film minoritari (…) Allora erano film che vivevano solo dell’interesse speciale (…) Ma non avevano una base consistente. Sia perché non avevano una base ideologica, sia perché il pubblico non rispose come noi ci attendevamo (…) Non si può fare un cinema di rottura con l’Amministrazione se hai bisogno di essa per vivere. Ciononostante si trattò di giocare al possibilismo. “Diciamo qualcosa, per poco che sia” e approfittando della politica seguita da Frega che caldeggiava la qualità per i festival, anche se i film non li avrebbe visti nessuno, giovammo questa carta”. Destituito García Escudero dalla Escuela Oficial de Cinematografía, vennero meno le condizioni a fondamento della Scuola, d’altra parte non soccorsa in alcun modo dal pubblico (che ne compromise sin dagli esordi la competitività commerciale) e produttivamente indebitata. Alcuni suoi membri proseguirono le loro ricerche in totale coerenza e quasi in clandestinità, come Nunes e Portabella; altri lasciarono il cinema; altri ancora si diedero al cinema commerciale con esiti assai diversi, e spesso con postulati di molto distanti dalle loro teorizzazioni nella Scuola (come per Aranda e Suárez).

La Scuola finì dunque per inaridire implosivamente, vittima della propria eccentrica marginalità e dell’esperienza irripetibile dei suoi protagonisti. Muñoz Suay cercherà di contravvenire alla crisi, gemellando la Scuola di Barcellona col migliore cinema di Madrid, attraverso film Tuset street (1968), nel quale tutti i registi della Scuola sarebbero apparsi come attori, e persino Néstor Almendros arrivò a lavorare per una settimana come operatore. Il film venne iniziato da Jorge Grau, ma, per disaccordi sorti durante le riprese tra la protagonista femminile e produttrice Sara Montiel e il regista, fu portato a termine da Luis Marquina (dopo otto tra diverse sceneggiature e rifacimenti), così che il suo fallimento segnerà a tutti gli effetti la fine del movimento. Ma come ha scritto Gonzalo Suárez: “Mentre altri raccontano verità fatte di menzogna, io racconto menzogne fatte di verità”.

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